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Demenza, se prevenire è l’unico modo per curare

Da un punto di vista sanitario e sociale quella della demenza rappresenta la maggiore sfida del XXI secolo a livello globale. Circa 50 milioni di persone nel mondo sono attualmente vittime di questa condizione: un numero destinato a triplicarsi entro il 2050. Questo è lo scenario, a dir poco preoccupante, descritto nell’apertura di uno studio realizzato da una commissione istituita dalla rivista The Lancet, in tema di prevenzione e gestione di queste patologie (1). “Tuttavia, le demenze non sono una conseguenza inevitabile dell’invecchiamento. Pur non esistendo terapie in grado di curarle, infatti, è possibile raggiungere risultati importanti attraverso diagnosi precoci e riduzione dell’esposizione a fattori di rischio. “Agendo ora sulla prevenzione e sulla gestione delle demenze – scrivono gli autori – sarà possibile migliorare la vita dei pazienti e dei loro familiari e, così facendo, trasformare il futuro della società.

Infatti, anche se i sintomi della demenza si manifestano generalmente in età avanzata, le sottostanti alterazioni cerebrali cominciano a verificarsi già molti anni prima. Per questo motivo The Lancet ha costituito una commissione, guidata da Gill Livingston, professore di psichiatria geriatrica dell’University College of London, e composta da 24 esperti a livello internazionale, col fine di revisionare le evidenze disponibili in merito a prevenzione e gestione delle demenze. “È probabile che queste siano disturbi silenti in età intermedia e diventino manifeste solo in fase terminale, – scrivono gli autori – questa ipotesi suggerisce l’esistenza di una finestra temporale in cui sarebbe possibile agire per ridurre l’esposizione a specifici fattori di rischio”.

In particolare, la commissione ha individuato nove variabili associate a una maggiore probabilità di manifestare in età avanzata i sintomi di una demenza e responsabili, secondo gli autori, di un terzo dei casi: basso livello educativo, perdita dell’udito, scarsa attività fisica, diabete, ipertensione, obesità, fumo, depressione e ridotto contatto sociale. Alcune di queste sono direttamente associate al concetto di “riserva cognitiva”: una combinazione di caratteristiche anatomiche e flessibilità cognitiva che, nei soggetti che ne possiedono in grandi quantità, può far sì che i sintomi di una demenza non si manifestino, anche in presenza delle sottostanti alterazioni neurologiche tipiche di queste sindromi (2). Infatti, più risorse si accumulano durante il corso della propria vita e meno probabilità ci sono che un’eventuale demenza le riduca a tal punto da determinare l’emergere dei deficit cognitivi.

L’educazione è un esempio lampante in questo senso. “Le carriere scolastiche più brevi, – scrivono gli autori – si associano a una maggiore vulnerabilità al declino cognitivo, a causa della scarsità di riserve”. Lo stesso fenomeno si verifica anche prendendo in considerazione il livello di attività fisica dei pazienti. Infatti, seppure tale effetto non sia mai stato verificato in un trial randomizzato, una metanalisi in cui sono stati analizzati diversi studi osservazionali ha individuato un ruolo protettivo dell’esercizio fisico nei confronti del declino cognitivo (3). Potenzialmente, questo fenomeno potrebbe essere associato alla dimostrata capacità dello sport o in generale dell’attività atletica di stimolare la neurogenesi a livello dell’ippocampo (4). Al contrario, il fumo è risultato essere un importante fattore di rischio. “Probabilmente questo effetto è mediato dalle conseguenze sulla salute cardiovascolare, – sottolineano i membri della commissione – tuttavia anche le diverse neurotossine prodotte dalla combustione delle sigarette potrebbero essere coinvolte”.

Tra gli altri rischi cardiovascolari considerati, quello più influente è risultato essere l’ipertensione, ma in generale questi fattori sono risultati poco rilevanti.  L’obesità è invece notoriamente associata a una sindrome metabolica o a un stato pre-diabetico caratterizzato da resistenza all’insulina e livelli elevati di insulina periferica. Quest’ultima in particolare, sostengono gli autori, “può determinare una riduzione della produzione di insulina a livello cerebrale, favorendo la formazione delle placche amiloidi”. Inoltre, anche l’aumento dell’infiammazione e gli elevati livelli di glucosio nel sangue associati al diabete potrebbero contribuire al deterioramento cognitivo. Recentemente, infine,  lo stesso effetto è stato associato alla perdita dell’udito, ma questa ipotesi è relativamente nuova e saranno necessari ulteriori studi per verificarla.

Un ruolo centrale potrebbe poi essere giocato dalla presenza di disturbi affettivi, come la depressione, e dalla mancanza di contatto sociale. I disturbi depressivi si manifestano molto frequentemente nei soggetti con demenza, tuttavia non è ben chiaro quale sia la direzione di questa relazione. Infatti, patologie di questo tipo potrebbero essere un fattore scatenante, un sintomo precoce o una conseguenza delle disfunzioni cerebrali o delle difficoltà affrontate da questi pazienti a livello psicosociale. Lo stesso discorso può essere fatto in merito alla relazione tra il rischio di sviluppare una demenza e un ridotto contatto sociale. Inoltre, questa associazione potrebbe essere mediata da altri fattori come quelli cardiovascolari o relativi al concetto di riserva cognitiva. Ciò nonostante, sostengono gli autori, “il numero di evidenze che associano l’isolamento sociale allo sviluppo di demenze è in aumento”.

Lo studio commissionato da The Lancet, realizzato in collaborazione l’Alzheimer’s Society, l’Economic and Social Reserach Council, Alzheimer’s Research UK e l’University of College London, suggerisce quindi che interventi di salute pubblica finalizzati a favorire stili di vita più sani e a ridurre i fattori di rischio clinici e sociali potrebbero ridurre l’incidenza delle demenze o, almeno, ritardarne l’esordio. “Naturalmente, – concludono gli autori – non è possibile agire in termini di prevenzione su tutte la variabili coinvolte. Tuttavia, solo spostare un po’ in avanti l’età media d’esordio potrebbe portare a enormi benefici”. Secondo le stime, infatti, ritardare di un solo anno l’emergere di queste patologie potrebbe prevenire più di 9 milioni di casi entro il 2050 (5), mentre un ritardo di 5 anni potrebbe dimezzare la prevalenza delle demenze a livello globale (6).

A cura de Il Pensiero Scientifico Editore www.torinomedica.com


Bibliografia

  1. Livingston G, Sommerlad A, Orgeta V, et al. Dementia prevention, intervention, and care. The Lancet 2017; DOI: http://dx.doi.org/10.1016/S0140-6736(17)31363-6.
  2. Cholerton B, Larson EB, Baker LD, et al. Neuropathologic correlates of cognition in a population-based sample. Journal of Alzheimer’s Disease 2013; 36: 699-709.
  3. Sofi F, Valecchi D, Bacci D, et al. Physical activity and risk of cognitive decline: a meta-analysis of prospective studies. Journal of Internal Medicine 2011; 269: 107-17.
  4. Ma Cl, Ma XT, Wang JJ, et al. Physical exercise induces hippocampal neurogenesis and prevents cognitive decline. Behavioural Brain Research 2017; 15: 332-9.
  5. Brookmeyer R, Johnson E, Ziegler-Graham K, et al. Forecasting the global burden of Alzheimer’s disease. Alzheimer’s & Dementia 2007; 3: 186-91.
  6. Jorm AF, Korten AE, Henderson AS. The prevalence of dementia: a quantitative integration of the literature. Acta Psychiatrica Scandinavica 1987; 76: 465 – 479.

Autore: Redazione FNOMCeO

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