Responsabilità medica – Risponde di omicidio colposo il medico la cui condotta è correttamente e motivatamente qualificata da grave negligenza e non è in ogni caso aderente alle linee guida e alle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica – La Corte di Cassazione ha infatti affermato che “in ogni caso, l’inosservanza delle linee guida e, comunque, delle buone pratiche clinico assistenziali, nonché la (corretta) qualificazione della condotta della ricorrente come caratterizzata da "negligenza" piuttosto che da "imperizia" escluderebbero anche la configurabilità dell’ipotesi di non punibilità del fatto prevista dal nuovo art. 590-sexies cod. pen. (introdotto dall’art. 6 della legge n. 24/2017) che oggi disciplina la responsabilità degli esercenti le professioni sanitarie in relazione alle fattispecie di omicidio colposo e lesioni personali colpose”)
FATTO E DIRITTO: La Corte d’appello di Roma, in data 14 ottobre 2016, ha confermato la sentenza di condanna alla pena di giustizia e alle statuizioni civili emessa dal Tribunale di Roma il 15 aprile 2015 nei confronti di S.V., imputata del delitto di omicidio colposo a lei contestato in rubrica. L’addebito mosso alla S., medico anestesista presso il Policlinico (OMISSIS), riguarda le condotte dalla stessa poste in essere nei riguardi della paziente R.A., che era stata ricoverata presso il nosocomio in relazione agli esiti traumatici di un incidente stradale. In seguito al ricovero, la R., il (OMISSIS), veniva sottoposta presso il Policlinico ad un intervento chirurgico di riduzione chiusa di una frattura nasale non a cielo aperto; dopo l’operazione, la donna veniva trasferita nel reparto di rianimazione, dove però decedeva il (OMISSIS) per insufficienza cardiorespiratoria. Secondo la ricostruzione operata dai consulenti del Pubblico ministero e accolta dai giudici di merito, al termine dell’intervento chirurgico si era manifestata nella R. un’encefalopatia ischemica, dalla quale era derivato lo stato comatoso, con progressivo peggioramento delle condizioni generali e conseguente decesso; l’ischemia cerebrale veniva collegato a una carenza d’ossigeno generalizzata a livello cerebrale, indotta dalla condotta della d.ssa S., che aveva determinato un’insufficienza respiratoria a causa della mala gestio delle vie aeree (ed in specie dell’apparato oro tracheale). Più precisamente la S., secondo le linee guida, avrebbe dovuto assicurare alla paziente una corretta ventilazione polmonare durante l’intervento, pur con il presidio della cannula di Guedel (in concreto utilizzata al posto della più prudente intubazione oro tracheale), per evitare il pericolo, purtroppo verificatosi, di ostruzione delle alte vie respiratorie. La cattiva gestione delle vie aeree da parte della S. – proseguita pur a fronte di segni clinici strumentali della carenza di ossigeno nel sangue durante l’intervento determinava però, come detto, una condizione di prolungata ipossia, con conseguente danno cerebrale, in paziente che oltretutto era sottoposta ad operazione chirurgica in sede nasale. La Corte distrettuale ha congruamente motivato il proprio convincimento, osservando che le conclusioni del consulente del P.M. si basavano su dati certi (esame necroscopico e autoptico) e pervenivano, con argomentazioni esenti da errori o vizi logici, all’accertamento della causa del decesso della R., riconducibile alla prolungata ipossia indotta nella paziente dalla condotta addebitata alla S. nel corso dell’intervento: condotta che i giudici di merito ricollegano non già all’impiego della cannula di Guedel, ma all’omesso costante controllo che le vie aeree fossero libere (controllo che, se fosse stato eseguito, non avrebbe determinato l’insorgere dell’ipossia) e al fatto che la carente ossigenazione della paziente è intervenuta, per un tempo giudicato comunque eccessivamente lungo, pur a fronte della segnalazione di tale condizione proveniente dal segnale di allarme del macchinario che controllava il livello di ossigeno del sangue. Appare evidente che non ha alcun pregio la prospettazione difensiva mirante all’inquadramento della condotta della S. nell’ambito della "colpa lieve", ai fini di quanto stabilito dall’art. 3 della legge 189/2012, vigente all’epoca del fatto. Va infatti osservato, in primo luogo, che, secondo quanto si legge alle pagine 6 e 8 della sentenza impugnata, la condotta dell’imputata è stata correttamente e motivatamente qualificata come caratterizzata da "grave negligenza": ragione per la quale è stata disattesa la richiesta di applicazione dell’anzidetta disposizione di legge. Ma pur volendosi prescindere da tale classificazione del grado di colpa e della tipologia di condotta colposa attribuita alla S., deve rilevarsi che essa non risulterebbe in ogni caso aderente alle linee guida e/o alle buone pratiche, non solo sulla base della ricostruzione peritale accolta dalla Corte di merito, ma neppure in base alla stessa prospettazione difensiva; e che, secondo la predetta disposizione, solo il sanitario che "si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve". Di tal che in nessun caso potrebbe ricondursi il caso in esame nella fattispecie abrogativa de qua. E’ infine appena il caso di evidenziare che, in ogni caso, l’inosservanza delle linee guida e, comunque, delle buone pratiche clinico assistenziali, nonché la (corretta) qualificazione della condotta della ricorrente come caratterizzata da "negligenza" piuttosto che da "imperizia" escluderebbero anche la configurabilità dell’ipotesi di non punibilità del fatto prevista dal nuovo art. 590-sexies cod.pen. (introdotto dall’art. 6 della legge n. 24/2017) che oggi disciplina la responsabilità degli esercenti le professioni sanitarie in relazione alle fattispecie di omicidio colposo e lesioni personali colpose).