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Speciale Matera: intervista a Giorgio Bert

Che cosa significa oggi fare una “scelta saggia in medicina”?

La domanda invita a contaminare due diverse etimologie: “saggio”, cioè “sapiente” e “saggio”, cioè “esperimento”, “valutazione”. Mi viene da dire che saggezza è sapere scegliere con competenza, consapevoli che si tratta ogni volta di un esperimento, di un tentativo, di una scommessa direi, di cui è necessario essere in grado di valutare gli effetti: per essere pronti a cambiare percorso o ad adeguarsi alla realtà. Una scelta saggia in medicina non è ideologica, non poggia su certezze immutabili, prevede il coinvolgimento – attivo, dialogico, non passivo – del paziente nelle scelte e nelle decisioni.

Possiamo forse dire che Slow Medicine ha anticipato un dibattito che dopo molti anni domina la scena politico-sanitaria, cioè “l’equilibrio” che dovrebbe dominare la pratica medica. Cosa ne pensa?

La parola “equilibrio” va usata con prudenza: se ad essa si dà il significato originale, cioè ugual peso sui due piatti della bilancia, il termine può essere fuorviante. Un chilo di qua, un chilo di là, e la bilancia è stabile, ferma, “equilibrata”, appunto. Una relazione di cura, come ogni relazione tra esseri viventi, non è mai stabile né immobile. L’equilibrio esiste, certo, ma è un equilibrio dinamico, una danza perenne, in cui ogni “piatto della bilancia” oscilla di continuo: ora su, ora giù, ora, ma brevemente, alla stessa altezza dell’altro. In questo senso si può dire che la pratica medica è un continuo tortuoso, ignoto percorso verso una situazione di irraggiungibile equilibrio stabile. Tutto si modifica, tutto è fluido, liquido, e occorre sapersi adeguare in ogni momento ai cambiamenti, inclusi quelli che la stessa pratica medica provoca.

Il ruolo del medico oggi tra prescrizioni legislative e gabbie linguistiche: nei concetti cruciali di cui si discute (appropriatezza, buone pratiche, erogabilità…), non c’è il rischio di una rigidità teorica a svantaggio dei destinatari finali del percorso di cura? E in questo dibattito quanto è preso in considerazione l’atto concreto del prendersi cura?

Certo che il rischio c’è: a nessuno piace la costante sensazione di instabilità, di incertezza, che è poi la condizione umana. Il medico vorrebbe essere certo del suo sapere e del suo potere, il malato vorrebbe essere certo di guarire o comunque di stare meglio. Queste certezze nel mondo reale non esistono, e ogni tentativo di metterle in atto diventa ideologico, autoritario e come tale potenzialmente conflittuale. La relazione di cura è un dialogo, e non di rado una negoziazione, tra due richieste, tra due forme di sapere/potere separate da un fossato profondo: questo non può essere colmato ma è possibile gettare ponti tra le due rive (il termine “bridging the gap” sta diventando di moda). Il progetto del ponte e parte della sua costruzione sono responsabilità del professionista della cura, il medico in primo luogo, proprio in quanto professionista. Ciò implica una specifica formazione alla comunicazione, alla relazione, al dialogo, al colloquio, che l’università largamente ignora.

Autore: Redazione FNOMCeO

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