Report: in Italia lavora solo il 46,4% delle donne

Report n. 20/2011    

IN ITALIA LAVORA SOLO IL 46,4% DELLE DONNE

Fino alla metà degli anni ’70 gli economlsti pensavano che la di­soccupazione potesse esse­re un fenomeno destinato a scomparire nei Paesi indu­strializzati. In realtà, i da­ti registrati negli ultimi due anni, fino al primo trime­stre del 2010, ci rivelano un aumento del tasso di disoc­cupazione di poco più del 50%, con 17 milioni di nuovi disoccupati nei Paesi dell’area OCSE, nonostante l’economia mondiale stia uscendo dalla peggiore cri­si finanziaria ed economica degli ultimi cinquant’ an­ni. Se si aggiungono i la­voratori sottoccupati e quelli non molto attivi nella ri­cerca di lavoro, il risultato diventa circa due volte su­periore al tasso ufficiale.

In Italia, secondo i recenti da­ti Istat, ad avere un’oc­cupazione lavorativa è il 57,5% della popo­lazione tra i 15 e i 64 anni. Ad essere penalizzate sono maggiormente Ie donne che, a fronte del 68,6% degli uomini occupati, rap­presentano il 46,4%, portando l’Italia al di sot­to della media europea (pa­ri al 58,3%), lonta­no dalle indicazioni della strategia di Lisbona in ba­se alla quale i Paesi mem­bri, entro il 2010, avrebbe­ro dovuto dare occupazio­ne al 60% delle donne tra i 15 e i 64 anni.

La probabilità di uscire dal mercato del lavoro (49% in media) aumenta significativamente per Ie madri sotto i 24 anni (72%) e per quelle me­no istruite (68%) che si sono fermate alla li­cenza media (contro il 24,5% delle laureate), addirittura triplica per Ie mamme che al momento del concepimento lavora­vano a tempo determinato. La nascita di un figlio per numerose donne rappresenta dunque la principale causa di ab­bandono temporaneo o de­finitivo del mercato del la­voro. E sono sempre Ie donne che nell’80% dei casi sono costrette a scegliere il part-time, o a rinunciare alle prospettive di carriera e di maggiore re­tribuzione.

Così che una buona percentuale di don­ne, il 17,2%, prefe­risce rinunciare ad avere fi­gli per paura di perdere la propria occupazione; so­prattutto le giovani tra i 18 e i 24 anni evitano scelte dl vita impegnative, come la maternità, per paura di per­dere il posto di lavoro nel 31,1% dei casi o di incorrere in difficoltà eco­nomiche nel 29,5%.

Ancora una volta il tessuto sociale e culturale ostacola la conciliazione tra vita pri­vata e professionale ed è fre­quente che le donne. siano costrette a "risolvere il pro­blema" da sole, rinuncian­do al lavoro o al figlio piut­tosto che ricorrere al decre­to legislativo n.151 del 26 marzo 2001 a tutela della maternità, più volte tran­quillamente eluso dal dato­re di lavoro attraverso stra­tegie vincolanti. Così che nelle fasi centrali della vita delle donne, in cui è maggiormente senti­ta la necessità di intreccia­re vita personale e profes­sionale, l’appartenenza al "genere" rappresenta una discriminante sia per l’ac­cesso sia per la permanen­za nel mercato del lavoro. Al lavoro femminile non viene riconosciuta piena le­gittimità sociale malgrado l’esistenza di misure legi­slative di attenzione e tute­la per la prevenzione e il contrasto alle discrimina­zioni delle donne sul lavo­ro. Pensiamo al decreto le­gislativo 25 gennaio 2010, n. 5 attuativo della diretti­va CE/5412006 e in vi­gore dal 20 febbraio 2010 che sancisce "l’attuazione del principio delle pari op­portunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occu­pazione e impiego”.

Altro dato su cui occorre riflettere riguarda l’inatti­vità delle donne riscontra­ta nel 48,9% dei casi; all’incirca 10 milioni di donne, anche molto gio­vani, non studiano e non cercano lavoro. La situazione, in aumento dal 2004, è presente so­prattutto al Sud. L’inattivi­tà non sempre è dovuta ad una decisione personale, co­me ci indica l’Istituto per lo sviluppo della formazione professionale dei lavoratori che ha indagato rispetto alle motivazioni di questa eventuale scelta/non scel­ta.

Secondo i risultati dell’indagine, i fattori de­terminanti sono la famiglia (il ruolo e il carico di lavo­ro legato alla cura dei figli o dei parenti non autosuf­ficienti), il modello di wel­fare (carenza di servizi per l’infanzia o di reti familiari e informali) e l’organizza­zione del lavoro (bassi li­velli di conciliazione tra la­voro e famiglia, rigidità de­gli orari di lavoro).
Come indica l’Eurispes (2008), l’impedimento ad entrare nel mercato del la­voro spesso deriva dalla fa­miglia: nel 7,6% le donne sono costrette ad ab­bandonare il lavoro per le "esigenze familiari" che so­praggiungono dopo il ma­trimonio, nel 5,1% sono esplicitamente osta­colate a lavorare o dal ma­rito o dalla famiglia d’ori­gine e quindi condannate all’esclusione sociale e po­litica.

Una donna privata della ca­pacità e dignità produttiva, ha difficoltà ad affermarsi, non essere "portatrice di i reddito" le impedisce di essere titolare di diritti. Una condizione che tra l’ altro rafforza il ruolo assegnato per tradizione alla donna e che forse potrebbe spiega­re i comportamenti rinun­ciatari di alcune di esse. Sta di fatto che la funzione economica di produttrice o consumatrice influenza la condizione sociale della donna. Nella storia degli Stati Uniti ad esempio le donne che per tutto il di­ciassettesimo e diciottesimo secolo avevano contribuito in modo diretto alla vita economica del loro Paese, con l’avvento della indu­strializzazione, sono passa­te da una condizione di produttività e di visibilità so­ciale all’accudimento della casa e della famiglia, dive­nuta il loro rifugio.

Roma 02/05/2011

Autore: Redazione FNOMCeO

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