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Presunzione legale nelle indagini bancarie per i professionisti

Cassazione Civile Sentenza n. 16440/16 – Presunzione legale nelle indagini bancarie per i professionisti – La Corte di Cassazione ha affermato che, a seguito della pronuncia della Corte costituzionale 24 settembre 2014, n. 228 non è più proponibile l’equiparazione logica tra attività d’impresa e attività professionale fatta, ai fini della presunzione posta dall’art. 32 del D.P.R. n. 600 del 1973, dalla giurisprudenza di legittimità per le annualità anteriori, “cosicché è definitivamente venuta meno la presunzione di imputazione sia dei prelevamenti sia dei versamenti operati sui conti correnti bancari ai ricavi conseguiti nella propria attività dal lavoratore autonomo o dal professionista intellettuale, che la citata disposizione poneva”.

FATTO E DIRITTO: Con sentenza n. 64 del 27 maggio 2013 la Commissione tributaria regionale dell’Umbria rigettava l’appello proposto dal contribuente, professore ordinario presso l’Università di Roma 3 ed esercente anche la professione di avvocato, avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Perugia che, in parziale accoglimento del ricorso proposto avverso l’avviso di accertamento di maggiori imposte ai fini IRPEF, IRAP, IVA dovute per l’anno 2005, rideterminava in diminuzione il reddito imponibile accertato. Sosteneva il giudice di appello che il contribuente non era riuscito a superare la presunzione posta dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, in relazione ad una serie di movimenti bancari effettuati sul proprio conto corrente ed oggetto di verifica, non ritenendo all’uopo sufficiente l’indicazione dei soggetti beneficiari dei vari pagamenti. Sosteneva, altresì, l’infondatezza della pretesa riduzione delle sanzioni al minimo edittale, stante l’inesistenza di un obbligo di conciliazione per l’Ufficio e di una disposizione normativa che la prevedesse per tali ipotesi. Dichiarava, inoltre, inammissibile l’appello incidentale proposto dall’Ufficio per difetto di sottoscrizione autografa dell’atto.

Il contribuente, quindi, propone ricorso per cassazione avverso detta statuizione, deducendo con il primo motivo la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 32 e 38, e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, alla luce del principio costituzionale di capacità contributiva; critica la statuizione di appello che aveva ritenuto, in dissonanza con i principi giurisprudenziali in materia, che il contribuente fosse tenuto a giustificare i movimenti finanziari nonostante la loro congruità rispetto al livello dei redditi dichiarati. Il ricorso è fondato e va accolto.

Con l’avviso di accertamento impugnato, l’Ufficio aveva provveduto a recuperare a tassazione una serie di movimenti – versamenti e prelievi – effettuati sul conto corrente intestato al contribuente libero professionista, equiparandoli ai "compensi" conseguiti dall’attività libero professionale svolta, così come, al momento della pronuncia della CTR (27 maggio 2013), era previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 2, secondo periodo, che, in relazione ai rapporti ed alle operazioni (anche) bancarie, stabiliva che "… sono altresì posti come ricavi o compensi a base delle stesse rettifiche ed accertamenti, se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario e sempreché non risultino dalle scritture contabili, prelevamenti o gli importi riscossi nell’ambito dei predetti rapporti od operazioni".

Con sentenza 24 settembre 2014, n. 228, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della sopra riportata disposizione "limitatamente alle parole o compensi", ritenendo che la presunzione posta dalla citata norma con riferimento ai compensi percepiti dai lavoratori autonomi fosse "lesiva del principio di ragionevolezza nonché della capacità contributiva, essendo arbitrario ipotizzare che i prelievi ingiustificati da conti correnti bancari effettuati da un lavoratore autonomo siano destinati ad un investimento nell’ambito della propria attività professionale e che questo a sua volta sia produttivo di un reddito".

Si è quindi affermato (cfr. Cass. n. 23041 del 2015) che, a seguito della pronuncia della Corte costituzionale "non è più proponibile l’equiparazione logica tra attività d’impresa e attività professionale fatta, ai fini della presunzione posta dall’art. 32, dalla giurisprudenza di legittimità per le annualità anteriori", cosicché è definitivamente venuta meno la presunzione di imputazione sia dei prelevamenti sia dei versamenti operati sui conti correnti bancari ai ricavi conseguiti nella propria attività dal lavoratore autonomo o dal professionista intellettuale, che la citata disposizione poneva.

Si sposta, quindi, sull’Amministrazione finanziaria l’onere di provare che i prelevamenti ingiustificati dal conto corrente bancario e non annotati nelle scritture contabili, siano stati utilizzati dal libero professionista per acquisti inerenti alla produzione del reddito, conseguendone dei ricavi, e che i versamenti (pure essi non risultanti dalla scritture contabili) corrispondano, invece, ad importi riscossi nell’ambito dell’attività professionale.

La sentenza impugnata va cassata e la causa rimessa alla Commissione tributaria regionale dell’Umbria che, in diversa composizione, dovrà riesaminare il merito della vicenda processuale alla stregua della sopra indicata pronuncia della Corte costituzionale verificando, in particolare, la rilevanza reddituale dei movimenti bancari non contabilizzati, oggetto di accertamento.

Autore: Marcello Fontana - Ufficio Legislativo FNOMCeO

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