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De Rita: Italia con l’ansia del dopo, ma si costruisce qui e adesso

“Qui e adesso. Si costruisce qui e adesso”. Conclude così Giuseppe De Rita le sue considerazioni generali sul 43° Rapporto sullo stato sociale del Paese. Nel Parlamentino del CNEL, molte teste bianche, tanti soggetti istituzionali e della società, dell’informazione e operatori delle cosiddette ‘reti lunghe’, di cui il Censis ha parlato da anni. Ma anche molti giovani. Da qui sono passate diverse generazioni. E molti di noi sono i sopravvissuti agli anni che se ne sono andati.

E’ un appuntamento annuale in cui ci si ritrova, ci si interroga, si cerca di capire com’è diventata e dove va la società italiana. E’ sbagliato dire che il Censis, con il suo Rapporto annuale, ‘fotografa’ la società italiana. Non è mai una fotografia del momento, che ‘fissa’ un’immagine dell’Italia. No. Il Censis compie ogni anno uno sforzo eccezionale d’interpretazione dei fenomeni che hanno cambiato, che stanno cambiando e che cambieranno la società italiana. Non una foto dell’esistente, ma lo sforzo dinamico per capire le “derive lunghe”, espressione tipicamente ‘deritiana’.

L’interpretazione delle ‘derive lunghe’
Una fatica, anno dopo anno, frutto di un lavoro, di lavori di ricerca, il più delle volte originali. Ricerche per le quali i numeri, i dati, sono ovviamente fondamentali. Ma sono altrettanto fondamentali i comportamenti, le tendenze, le aspirazioni e le frustrazioni dei soggetti che, nei diversi ambiti di attività e nei diversi ruoli ricoperti nella società, contribuiscono a fare l’Italia, anno dopo anno, appunto, in un modo o in un altro. E qui sta la differenza tra altri studi e ricerche e il Rapporto del Censis, proprio nello sforzo di interpretazione.
Gli anni di molti di noi sono stati accompagnati dalle metafore, dalle intuizioni, dalle suggestioni e dalle indicazioni di prospettiva di De Rita. Indimenticabili, negli anni ’90, durante la sbornia del cosiddetto ‘nuovo che avanza’, le metafore della “malinconica pianola del cambiamento” e del “Paese sano che incede sciancato”.
Molti di noi sono cresciuti culturalmente e intellettualmente su quel librone verde del Censis, che quest’anno conta 688 pagine. Ci abbiamo infilato gli occhi e la testa dentro, nel tentativo di capire la società italiana e le sue trasformazioni, quasi mai immediate, quasi mai traumatiche, ma trasformazioni sviluppatesi su “derive lunghe”, appunto.
E quest’anno De Rita è venuto lì, nel Parlamentino CNEL, in un venerdì 4 dicembre uggioso, piovoso e freddo, a dire: “Questo è il mio primo pessimismo dopo tanti anni. In questo Paese è prevalente l’ansia del dopo. E’ troppo: da 15 anni siamo senza politica, senza culture di riferimento, non si è più fatta coscienza collettiva”. E a proposito di derive lunghe, di processi e di fasi di passaggio o di passaggi di fase, De Rita cita Don Lorenzo Milani, il lontano 1962, la prima ‘scossa’ sul tema dell’obiezione di coscienza, l’apertura della stagione dei diritti civili, anche questa una deriva lunga “che si chiuderà nel 2015”.

Lo smarrimento dei patrimoni culturali
Ma, nel frattempo, che altro si è chiuso? O sfarinato? “Alla base dell’evoluzione della società italiana e della politica, nel secolo scorso ci sono stati tre grandi patrimoni culturali: la cultura risorgimentale, la cultura riformista, la cultura soggettivista, di mercato, con il suo molecolarismo. La cultura risorgimentale ha fatto l’Italia, è ancora tra noi con i suoi simboli, con l’inno, con la bandiera. Ma le stagioni del riformismo sono finite. Le riforme che oggi sono in campo sono quelle per il potere e non per il popolo, mentre lo sfarinamento del mercatismo e della rincorsa alla soggettività è sotto gli occhi di tutti. In tal senso c’è una deriva storica più lunga che colpisce la politica”.
Una politica che mostra sempre più di aver perso la visione del futuro, quasi in una sorta di abdicazione al suo ruolo di guida del Paese, che, già di per sé e non da adesso, è alla perenne ricerca di un élite che non c’è. Ma questo tema è già datato a 15 anni fa e, purtroppo, ancora oggi è attuale con tutta la sua drammatica valenza dei grandi temi rimasti insoluti.
“Ma perché dopo 43 anni ci troviamo ancora qui?” – si domanda De Rita. “Prevale il senso della resistenza, come quello delle famiglie che resistono alla crisi economica. Continuiamo a coltivare la resistenza con la voglia di capire anche il lungo periodo. Il Censis continua nella sua terzietà rispetto alle contrapposizioni centrodestra-centrosinistra”. Come dire: i ‘difetti’ di leadership e di élite che non c’è non riguardano soltanto una parte politica, ma l’insieme della politica italiana. “Noi siamo qui per capire le lunghe derive, i lunghi processi perché la sensazione è che gli eventi, i singoli fatti non abbiano prodotto nulla. Viviamo in una continua eccitazione mediatica ed emotiva, che però decade immediatamente. Nel Rapporto –spiega De Rita- troverete le risposte su come l’Italia ha reagito all’ultima crisi: non con il superamento della precedente logica interpretativa, ma con la sua caratteristica di società testardamente replicante. Il modello italiano si conferma essere quello degli anni ’70: coesione sociale nelle mini-realtà, la famiglia che resiste, fatalmente siamo gli stessi di prima, mentre, di fronte alla crisi dello scorso anno, si pensava ‘non saremo mai più come prima’. Ma così non è andata e ci confermiamo essere sempre gli stessi. Sta qui il senso della lunga deriva. Ci sono stati eventi, momenti, ma lì sono finiti”.

Si aggirano solo ombre, nel vuoto della politica
Nella società replicante, De Rita individua tre punti critici: “1) Non ci basta più sapere quel che è successo, c’è l’ansia di sapere che succederà dopo, in una sorta di apnea, nella quale la replica può non bastare. 2) Anche rispetto all’ultima crisi, non c’è stata una reazione diversa. Replicanti e solo replicanti. L’anno scorso ci pareva di essere in una nuova metamorfosi, ma ‘accompagnare’ il modello italiano poi non ha consentito la metamorfosi. Gli unici segnali di cambiamento vengono dalla ristrutturazione forte del terziario e anche questa sarà una deriva di lungo periodo. Sta cambiando la leadership che torna alle imprese, non più intellettuali e politici. 3) Ormai gli interessi si rappresentano direttamente, non più collettivamente negli organismi deputati a ciò. Viene meno la mediazione, spariscono soggetti intermedi, sempre più in crisi, e questo fenomeno distrugge la politica”.
E in questo scenario, non se la passa bene nemmeno la rappresentatività della società nel suo insieme, “schiacciata dalle opinioni”, perché “siamo governati dal gioco degli opinionisti. L’opinione –spiega De Rita- finisce anche per eliminare il valore dell’evento. Non hai più l’alimentazione della politica. Se tutto è gossip, se tutto è opinionismo, non fai più politica. Il Paese si regge ormai sull’opinionismo diffuso, mentre la dimensione della politica non ha più la rappresentanza degli interessi. Si aggirano solo ombre, nel vuoto della politica”. Un vuoto di Politica con la ‘P’ maiuscola che ci fa interrogare sulle possibilità reali di governare la complessità della società italiana. Questo Paese ce la farà a ripartire?
In contemporanea con il rapporto Censis, venerdì 4 dicembre andavano in onda le cosiddette rivelazioni del pentito Spatuzza sui rapporti mafia-politica. “Un giornalista mi ha detto che Spatuzza batte il Censis 5 a 0”, ha ironizzato De Rita sull’impatto che i due eventi avrebbero avuto sui giornali del giorno dopo.
E, certo, non in maniera così chiara come oggi, ma già lo scorso anno qualche segnale in tal senso già c’era, se lo stesso De Rita sintetizzava così il precedente Rapporto: “Volontà e orgoglio per recuperare soggettività storica, ma vagonata di energie del passato non esiste più”. E un altro anno è passato senza che dalla politica sia venuto un sussulto, uno scatto per sospingere in avanti Istituzioni e società italiana.

Il disincanto verso le riforme e la crisi del regionalismo
Nelle 688 pagine del rapporto, c’è tutto l’altalenante andamento di ‘pezzi’ di economia, di politica, del mondo delle professioni, di Istituzioni, del localismo, dell’informazione. “Pezzi”, appunto, in una continua disomogeneità di situazioni, di saliscendi, di contraddizioni economiche e territoriali, di stridenti divaricazioni tra riforme annunciate, specialmente nella Pubblica amministrazione, e il disincanto rispetto alle riforme non attuate. La crisi del regionalismo e l’evaporazione della devolution della devolution stanno lì a dimostrare quanto lavoro c’è da fare per recuperare il governo dei territori e una dimensione più efficace ed efficiente dei governi locali, specialmente nei tanti ‘Mezzogiorni’ d’Italia, perennemente indietro rispetto a standard e ritmi di crescita del Centro-Nord del Paese. La ‘centratura periferica’ auspicata dieci anni fa non c’è stata.
E il disincanto degli italiani rispetto a politica, Istituzioni e ricorrenti riformismi è forse alla base della modifica dei comportamenti: la tendenza all’isolazionismo, il ritorno all’individualismo, il rifugio di molti giovani nell’Alta formazione e l’altro rifugio, di giovani e meno giovani, nel virtuale mondo di Internet e dei social network, che porta inevitabilmente a comunicare via computer e a confrontarsi sempre meno direttamente con gli interlocutori, chiunque essi siano. Avviene così che 13-14 milioni di italiani usano Facebook e oltre 20 milioni usano almeno un social network, mentre oltre 18 milioni usano You Tube. Le percentuali degli italiani che conoscono You Tube o un social network sono tutte tra il 60 e il 70 per cento della popolazione.
Questo fenomeno dell’internetnautica è assolutamente nuovo ed è penetrato velocemente e intimamente nella società italiana. La dice lunga su quello che una volta veniva definito ‘ritorno al privato’, nelle cosiddette fasi di riflusso delle aspirazioni collettive. Oggi il ‘privato’ è soltanto virtualmente pubblico, mentre la separazione tra le due dimensioni, pubblico e privato, è sempre più distanziata.
Anche questo è un fenomeno che svela la tendenza sempre più marcata della ricerca delle soluzioni individuali, da non condividere con altri, il rinchiudersi in se stessi, dietro quattro mura come barriere invalicabili: 30 milioni di italiani di ogni estrazione sociale, infatti, ricorrono alle scommesse pubbliche, settore che non risente della crisi. Ogni milanese, nel 2008, ha speso 77,8 euro per il Superenalotto, ogni romano 69,1 euro e, a seguire, spendono cifre poco più piccole gli altri abitanti di aree metropolitane, città, paesi, dal Nord al Sud dell’Italia con la bolla delle continue scommesse individuali.

Il futuro non è uno spazio vuoto dove poter andare
Non si intravede la possibilità di una ‘scossa’, al momento, di una ripresa di orgoglio individuale, con recupero di una coscienza collettiva. La tendenza alla replica di modelli già collaudati potrà avere una sua valenza positiva nel recupero dei valori che contano davvero: la legalità, il senso di appartenenza, il valore del lavoro, il valore della professione e delle professionalità da far crescere con lo studio e con l’impegno. Tra i sintomi dell’eventuale resettaggio della società italiana, il Censis ne segnala uno: “Nel mondo delle professioni, in particolare in quelle da sempre regolamentate, si va affermando un processo di concentrazione delle strutture operative”.
L’indicazione di un senso di marcia? In effetti, alcune risposte se non vengono dal mondo delle professioni intellettuali, da dove possono venire? Se le professioni intellettuali non recuperano la capacità propositiva nei loro campi di competenza e non riescono a interagire con i ‘pezzi’ rimanenti della politica che non c’è, dov’è la speranza del cambiamento? Pur in una società replicante, il Censis afferma che “chi replica non crea”, ma sostiene, al tempo stesso, che, in questo momento storico, purtroppo, “forse dovremmo capire più a fondo cosa c’è sotto la coazione a replicare, che fa del modello di sviluppo italiano esattamente il contrario di ogni forma ontologica, cioè un modello storico cresciuto dal basso, nel tempo, senza transeunti basi ideologiche e progettuali”.
Una citazione di Rainer Maria Rilke: “Questo silenzioso vento di metamorfosi, con il suo movimento lontano che passa in mezzo alle cose come se non esistessero”. Per dire che il modello italiano “è sostanzialmente restio a cedere il passo ad approcci, élite e protagonisti di più o meno alto pensiero”. Un modello che “difendendo oggi i suoi processi e le sue sfide di ristrutturazione terziaria, nel compiuto protagonismo del mondo delle imprese, nell’arricchimento dei criteri di agire gli interessi reali. Sfide certo meno appassionanti, rispetto alla retorica nostalgia dei cicli precedenti e ai richiami fondamentalisti; e sfide faticose da sostenere da un modello vocazionalmente replicante. Ma sfide storiche, poste dal tempo. Qui e adesso”.
E Giuseppe Roma ha spiegato che “la ristrutturazione del terziario sarà seguita da altri segmenti. Nei prossimi anni ci concentreremo su questo approfondimento, per capire se la società italiana sarà capace di fare l’avvenire nel presente. Perché il futuro non è uno spazio vuoto dove poter andare”. E poiché ricorrenti sono le citazioni di Rilke da parte del Censis, come non ricordare il più famoso degli aforismi del poeta e scrittore austriaco di origine boema: “Il futuro entra in noi, per trasformarsi in noi, molto prima che accada”. 

Autore: Redazione FNOMCeO

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