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Informazione, responsabilità e autonomia: tre parole chiave per la professione

Anche quest’anno quindi il tema scelto affonda nelle problematiche sanitarie della popolazione in particolare il rapporto tra informazione e salute: “esiste una nuova e positiva capacità di accumulare notizie – continua Giacomo Caudo – ma spesso le notizie non sono veicolate nella maniera giusta e questo può portare a conflittualità e ad una gestione difensivistica della medicina.”

La prima parte del Convegno ha quindi proposto una serie di interventi sulla questione, sempre aperta, del rapporto tra eccesso mediatico e casi di così detta malasanità, che spesso si rilevano infondati ad un successivo approfondimento giudiziario. Il SSN si colloca al secondo posto per qualità dell’assistenza e l’Italia si posiziona molto bene nella classifica che valuta l’aspettativa di vita. Sembra che nel nostro Paese, pur con differenze geografiche rilevanti, sia la più lunga. Due dati positivi che attestano un’eccellenza. Ma allora come mai la percezione che gli italiani hanno del loro servizio sanitario sfiora livelli di scarsa considerazione quando non di totale sfiducia?
"Il cittadino oggi – ricorda Sara Biraghi- condirettore del Tempo – ha una percezione negativa che rende asimmetrico il rapporto tra sanità reale e percepita: un’ asimmetria “nera” che livella verso il basso. Una volta noi giornalisti portavamo in tasca le famigerate tre s  (sesso-sangue-soldi). Oggi si sta imponendo quella più importante: la Sanità, quasi sempre raccontata non per i casi di eccellenza in ambito clinico e di ricerca, ma per fatti di cronaca che solleticano le emozioni negative della gente, la paura, la sfiducia, l’isolamento. 
E’ chiaro che il giornalista non può rinunciare al diritto di cronaca, ma nemmeno attenersi al bollettino medico, cioè ad una versione istituzionale della notizia che metta d’accordo tutti. Oggi però il problema della comunicazione sulla salute, un settore difficile che dovrebbe essere sostenuto da molta formazione professionale, è la profonda confusione dei ruoli. Chi è la vittima e chi il carnefice? Per un giornalismo che è difficile definire tale ciò che conta è l’emozione della vittima e il linciaggio del carnefice, anche là dove questo comporti un cattivo servizio offerto ai cittadini. Una volta gli ospedali erano come conventi, blindati, e quasi sacri – continua Sara Biraghi. Oggi è il contrario, all’eccesso: porte aperte, facilità di interpretazione, poco controllo sulle notizie e velocità incontrollabile dei mezzi di comunicazione. Tutto ciò compromette la qualità dell’informazione perché i professionisti del settore non riescono a tenere il ritmo di strumenti mediatici molto veloci, che bruciano immediatamente la notizia nell’atto della sua emissione, generando forse un po’ di frustrazione e certamente anche il tentativo di recuperarla per altre vie, con stili diversi, talvolta improvvisati.  Questo compromesso, tra velocità e narrazione, non è semplice da tenere a bada per un ambito dove la prima regola di comportamento dovrebbe sempre essere maneggiare con cura. E allora si profila il vero attore di questo cortocircuito professionale: il demansionamento. 
E non è un problema della medicina, cioè di una categoria – ricorda Caudo- ma del Paese. Se non c’è qualifica o non c’è proporzione tra qualifica e mansione, il risultato non può che essere un incremento di arene giudiziarie, risposte difensivistiche e aumento vertiginoso dei costi di gestione della salute.
La seconda parte del Convegno è stata infatti dedicata ad una tavola rotonda sul tema specifico delle competenze, della responsabilità del medico e della gestione dell’assistenza: si sono confrontati tra gli altri il Presidente FNOMCeO Roberta Chersevani, Ivan Cavicchi dell’Università Tor Vergata, e il Presidente Cao Giuseppe Renzo.
 "Il tema dell’autonomia e responsabilità del medico è all’ordine del giorno – ricorda il Presidente Chersevani. Ma in questo dibattuto che ci coinvolge tutti non bisogna dimenticare l’aspetto più importante: la tutela della persona assistita. Cioè il rischio è di rimanere imbrigliati in tecnicismi lessicali o concettuali dimenticando che è la salute dei cittadini ad essere l’obiettivo principale della nostra professione. E’ su questo che dobbiamo spendere una comunicazione efficace e un’informazione trasparente che arrivi soprattutto ai più giovani"
Ma se livelli di professionalità superiori vengono appaltati a professioni inferiori qual è il risultato? Bisognerebbe chiederlo soprattutto ai pazienti e ai cittadini – risponde  Caudo. Infatti è a loro che dobbiamo rendere conto di fronte ad una economizzazione della medicina che rende la sanità un’azienda e la cura uno slalom al risparmio. Dare la migliore cura possibile significa esercitare al massimo grado la professione o attenersi ai parametri, spesso ambigui, dell’appropriatezza? Se il medico di oggi è dispendioso la soluzione sembra ridimensionare e demansionare…afferma Ivan Cavicchi. 
" Ma l’atto medico, conclude Caudo, non è far di conto". Per questo non possiamo che essere tutti concordi nella valutazione negativa di una politica che fa della figura del medico un’approssimazione.
Un comma 566 che non ha futuro – secondo Cavicchi. "Ma il problema non si risolverà perché le sue radici sono altrove: quello che è veramente in discussione è l’autonomia. Se non c’è autonomia non c’è il medico. 
La facile, e spesso capziosa confusione di autonomia con arbitrio non tiene conto di quanta complessità sostanzi la medicina, che non può risolversi in linea guida o protocolli. Ed è infatti solo l’autonomia a poter governare la complessità – continua Cavicchi. In questa querelle è il linguaggio a venirci in aiuto, là dove risulta chiaro che il medico è innanzitutto un locutore, e un allocutore, cioè il suo atto medico è in primis un atto linguistico che produce fatti e conseguenze, all’interno di una relazione, cioè di un coinvolgimento a due. Ed è proprio nella svolta linguistica della medicina, nel ‘900, che si annida lo stretto rapporto tra atto e responsabilità: è del medico la responsabilità della sua funzione, a partire dall’origine della relazione di cura, cioè la parola. Per tale ragione dovremmo parlare di più di linguaggio e non di comunicazione, riconsiderando come in un contesto di bulimia comunicativa, in cui le informazioni sono facilmente accessibili  e i media catalizzano i processi di saturazione d’informazione, i pazienti, oggi esigenti, richiedono una sempre maggiore qualità della relazione. E allora se sai usare il linguaggio, e soprattutto lo sai interpretare, il rapporto di cura sarà fondato in primis su un riconoscimento reciproco, su un affidamento di responsabilità che non può essere risolto nelle linee guida. E se la responsabilità e la relazione stanno nell’atto, demansionare significa svuotare il senso dell’agire medico"

Autore: Redazione FNOMCeO

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