Una delle domande più sciocche, tra le miriadi di dissennate questioni poste dai nostri ineffabili mass media, spesso al primo che passa, è quella rivolta a qualche politico di mezza età: si farebbe visitare da un urologo femmina? Ricorda la tipica battuta della vecchia zia: “vuoi più bene al babbo o alla mamma?” cui il vispo pargoletto di solito dignitosamente evita di rispondere. Chiunque darebbe ovviamente la risposta giusta: vorrei, se mai ne avessi bisogno, essere visitato da un urologo bravo, attento, umano, aggiornato, uomo o donna che sia.
Da oltre un decennio si laureano in medicina nelle Università italiane circa il 55% di donne e, in media, il loro voto di laurea è di un punto superiore a quello dei colleghi uomini. Anche la iscrizione alle diverse specialità è cambiata e oggi le donne sono presenti in tutte le branche della medicina, non soltanto in quelle tradizionali, pediatria e ginecologia, ma anche nelle specialità chirurgiche, compresa appunto la citata urologia. Le donne ormai sono quasi la maggioranza nella medicina generale.
Di fatto la professione medica, da molti secoli appannaggio del sesso maschile, si avvia a diventare prevalentemente femminile. Si calcola che entro dieci, al massimo quindici anni, il numero delle donne iscritte all’Ordine sarà superiore a quello degli uomini. Questo fatto porterà qualche cambiamento? Difficile prevederlo, anche se la maggior presenza femminile potrebbe migliorare l’aderenza ai precetti di empatia e di disponibilità all’aiuto propri del codice deontologico
Il problema è che la medicina, se vuol essere esercitata a buon livello, esige intelligenza, energia e tempo disponibile. E indubbio che l’intelligenza e l’energia sono equidistribuite tra uomini e donne e ogni diversa affermazione rientra nel razzismo maschilista, purtroppo ancora vivente e sano. Allora la vera questione riguarda il tempo. Le donne si iscrivono alla Facoltà in percentuale maggiore che gli uomini e si laureano addirittura meglio. Ciò significa semplicemente che l’uguaglianza dei punti di partenza (fondamento di ogni società democratica) è garantita alle giovani donne, che non soltanto possono accedere alla Facoltà, ma, mentre studiano, sono esentate dai lavori domestici o da qualsivoglia altro lavoro. Hanno insomma le stesse possibilità di fruire di tempo libero per lo studio degli studenti maschi e le sanno sfruttare.
Poi tutto cambia. Se osserviamo le stesse persone dopo quindici o venti anni ci accorgiamo che i posti di rilievo sono quasi tutti occupati da uomini. Ben poche sono le donne professore ordinario o direttore di dipartimento o apicale in qualche unità operativa ospedaliera. Insomma qualcosa nel meccanismo della progressione in carriera si è inceppato. Il rapporto tra uomini e donne nei “posti di comando” è di dieci a uno a favore del genere maschile, mentre il numero di laureate è maggiore di quello dei colleghi.
Perché ciò accade sembra facile a comprendere. Tra i venticinque e i quaranta anni le donne fanno figli e, generalmente, si spendono di più dei padri per accudirli. Da un lato nessuno vuol interrompere la catena dei viventi, cessando dal generare figli, dall’altro in una società democratica l’uguaglianza dei punti di partenza deve sempre essere garantita. La nostra Costituzione è esplicita: l’articolo 3 “riconosce a tutti i cittadini pari dignità sociale senza distinzione di sesso, mentre è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto l’uguaglianza e la libertà dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”.
La conclusione è semplice. Lasciamo le dispute ideologiche a chi se ne diletta e preoccupiamoci di applicare le regole democratiche che sovrintendono (o dovrebbero) alla convivenza civile. Il compito più concreto oggi è di creare le condizioni per cui le donne possano attraversare l’epoca della crescita dei figli con il minor danno possibile sul piano del lavoro. Dagli asili nido alle provvidenze per le famiglie (sposate o no che siano) alla tutela contrattuale del posto di lavoro, ancora molta strada è da percorrere perché la Costituzione trovi reale attuazione. Perché non creare in ogni ASL un congruo numero di asili nido per il personale dipendente e convenzionato?
Tutto ciò non solamente è giusto sul piano etico e politico, ma è anche utile, perché di fronte a una medicina che cambia così radicalmente l’apporto innovativo e pragmatico delle donne medico può essere di grande aiuto per tutti.
Autore: Redazione FNOMCeO