Censis: il disastro della Sanità pubblica nel Sud dimenticato

Parla esplicitamente di “abbandono della Sanità pubblica” il Censis, nella sua iniziativa su “La crisi sociale del Mezzogiorno”, presentata a Roma il 19 marzo, giorno di onomastico per Giuseppe De Rita, fondatore e Presidente del Censis, ma anche per il direttore Giuseppe Roma.

E De Rita, nel riproporre, in una visione nuova, la “questione meridionale”, al tempo stesso disperata e un po’ retrò, si rifà al ‘pensiero meridiano’, individualistico ma che può diventare collettivo attraverso un sistema di relazioni che al Sud manca, assieme al senso civico, obiettivamente scarso, due fattori, questi, che, negli ultimi 30-40 anni, hanno impedito lo sviluppo del Sud. Anzi, nell’analisi di oggi, emerge drammaticamente che il divario tra il Sud e il Centro-Nord è aumentato, anziché diminuire.

Nel quadro dei macrodati economici e sociali, una parte rilevante la occupa la Sanità, assieme al Welfare (costoso e inefficace) che dovrebbe attutire il disagio sociale nelle popolazioni del Sud, disagio che aumenta con il passare degli anni.

Secondo il Censis, il Mezzogiorno vive la crisi nella crisi, e in questa crisi, l’offerta diseguale in Sanità accentua il disagio sociale. Spiega il Censis: “I piani di rientro delle regioni con disavanzo nel bilancio sanitario sono stati previsti già dal 2005 e sono diventati operativi a partire dal 2007, ma la recente contrazione della spesa per la sanità nelle regioni meno virtuose, e la critica situazione dei bilanci familiari determinano nuove problematicità e situazioni di rischio”.

Qualche dato aiuta a capire di più: “Dal 1995 al 2009 il numero assoluto di posti letto pubblici si è ridotto del 36,1% e quello dei posti letto accreditati del 22,1%, e seguendo l’obbligo di adeguare la dotazione ad uno standard medio (si e passati dal primo obiettivo di 5 PL ospedalieri – Ricovero Ordinario + Day Hospital – per mille abitanti, di cui l’1 per mille riservato a riabilitazione e lungodegenza postacuzie all’ultimo fissato a 3,7 PL per 1.000 abitanti, di cui 0,7 per riabilitazione e lungodegenza) si è arrivati nel 2009 ad una media nazionale di posti letto per 1.000 abitanti– sia in regime di degenza ordinaria che diurna – di 3,6 per mille abitanti per gli acuti e a 0,8 per i non acuti.
Tuttavia le differenze tra regioni appaiono marcate e, se e vero che, con l’unica eccezione del Molise, anche le regioni del Sud appaiono in linea, è interessante notare però come il quadro dell’offerta in questa zona risenta comunque di alcune caratteristiche peculiari. Considerando infatti la distribuzione delle strutture di ricovero pubbliche per classi di posti letto, si evince che la metà delle strutture di più ridotte dimensioni è collocata al Sud. Anche sotto il profilo gestionale, il quadro meridionale presenta una sua peculiarità, con una situazione di più consistente presenza del privato accreditato, ambito che nel tempo ha presentato una più ridotta dinamica di razionalizzazione. Al ridimensionamento della rete ospedaliera si contrappone la prospettiva di un rafforzamento della dimensione territoriale dell’offerta sanitaria, nella quale sono coinvolte una pluralità di strutture ed attività ed anche in questo caso il quadro territoriale appare molto articolato. Le strutture in cui si erogano prestazioni di specialistica ambulatoriale, di laboratorio e di diagnostica sono in prevalenza del privato accreditato soprattutto al Sud (insieme alla Lombardia e al Lazio), con la punta della Sicilia (81,4%)
”.

E’ ripresa la fuga per andare a curarsi nel Centro-Nord

Nelle regioni dove si sono sommati gli effetti dei piani di rientro e della spending review, la percezione che i cittadini hanno dei servizi sanitari non raggiunge la sufficienza e il giudizio è ancora più negativo nella prospettiva futura. “Il giudizio su quanto e avvenuto negli ultimi anni si inasprisce passando dal Nord al Sud della penisola: a Nord Ovest e il 7,5% dei cittadini intervistati che giudica in peggioramento il livello dei servizi sanitari, l’8,7% al Nord est, ben il 25,6% al Centro e, la quota piu alta nel confronto, il 32,1% al Sud e alle Isole”. Nella prospettiva futura, “quasi il 45% dei rispondenti del Centro (su cui pesa la situazione del Lazio in piano di rientro), e il 38% circa degli intervistati del Sud guarda con pessimismo all’ipotesi di un sistema sanitario migliore, a fronte del 25,9% di intervistati nel Nord-Ovest e del 26,8% del Nord-Est”.

Come si vede, al Sud la situazione è tragica, al punto che sono ripresi i cosiddetti viaggi della speranza verso le regioni del Centro-Nord, con un aumento considerevole delle intenzionalità di fuga anche nei prossimi anni: “Le regioni in cui si è rivelata più forte la propensione alla fuga dal proprio servizio sanitario regionale (se si esclude l’esperienza di una regione frontaliera come la Valle d’Aosta) sono proprio quelle meridionali e prima di tutte la Calabria, ma in quasi tutte le regioni del Sud, nel confronto tra il 2002 ed il 2010, le esperienze di mobilità appaiono in crescita”.

Le motivazioni che spingono i cittadini del Sud verso il Centro-Nord sono inquietanti: scarsa fiducia nelle Istituzioni, sanitarie e non solo, scarsa fiducia nelle possibilità di cura, mentre aumenta il ricorso al privato, nonché alla prassi di pagarsi di tasca propria prestazioni sanitarie, analisi, farmaci. Nel Sud più povero, il 63 per cento della popolazione propende verso l’out of pocket, mentre nel Nord più ricco la percentuale scende al 53 per cento. Caso emblematico di proporzioni inverse, dove il disastro dell’abbandono della sanità pubblica si perpetua indisturbato nel tempo. Nel Sud, ancora più che al Nord, resta invariato il problema delle lunghe liste di attesa, altro motivo per propendere verso il privato con l’impoverimento della risposta pubblica.

Al Sud ci sono più anziani, perché i giovani sono scappati

Dal 1964, il Censis ci ha abituato non solo a darci i dati, ma a compiere uno sforzo di interpretazione. Spiega De Rita: “Nel nome stesso abbiamo voluto marcare la differenza: Centro studi investimenti sociali. E anche in questa nostra iniziativa sulla “questione meridionale”, affermiamo oggi che solo con investimenti sociali mirati ci può essere la speranza di far uscire il Mezzogiorno dal guado. In questi anni, ho attraversato il Mezzogiorno e ho collezionato soltanto delusioni, speriamo di non aggiungerne un’altra”. Di che parla De Rita? Di un altro fenomeno tipico del Sud dove si invecchia meno rispetto al Nord, perché si muore prima, anche se negli ultimi dieci anni l’indice di invecchiamento è aumentato del 2,4 per cento rispetto al 2,3 del Nord-Ovest, all’1,7 del Centro e all’1,6 del Nord-Est.

L’indice di vecchiaia è invece aumentato al Sud del 30 per cento, rispetto al 5,2 per cento del Nord-Ovest, al 7 per cento del Centro e -1 per cento al Nord-Est. Ma, in questa altalena di paradossi, si scopre che “la longevità della popolazione sta accelerando nelle regioni meridionali perché aumenta il peso relativo dei longevi rispetto alle altre classi di età. Ecco perche va ribadito che se i dati indicano che la longevità oggi non è il fenomeno prevalente nel contesto socioeconomico e istituzionale del Meridione rispetto al peso che ha nelle altre aree geografiche italiane, tuttavia lo sta diventando molto velocemente come dimostrano inequivocabilmente i trend”. In altre parole, il rapporto tra popolazione anziana e popolazione giovanile al Sud ha il segno + semplicemente perché in questo rapporto ci sono più anziani rispetto ai giovani, perché i giovani nel frattempo sono scappati e continuano a emigrare dal Sud, e dalla Calabria in particolare, verso altre regioni e verso altri Paesi europei e nel mondo. In termini di macrodati, il Censis spiega: “Il Mezzogiorno si sta ‘rinsecchendo’. Un prolungato immobilismo strutturale sta ora producendo conseguenze molto negative sul piano sociale, sui comportamenti individuali e collettivi. Negli anni della crisi (2007-2012) e diminuita la popolazione totale di 239mila residenti, perdendo più di 400mila giovani fra 19 e 35 anni, mentre la tendenza è all’incremento della longevità e quindi della popolazione anziana”.

Il Sud rinsecchito, con 300 mila posti di lavoro in meno

Il Censis conferma così, dati alla mano, l’intuizione di qualche anno fa, contenuta nel bel libro di Francesco Saverio Alessio ed Emiliano Morrone “La società sparente” con riferimento alla Calabria, dove, più che in altre regioni del Sud, la crisi si è avvolta nella crisi generale del Paese e nella crisi mondiale: “Anche nella decrescita, il Mezzogiorno ha allargato la propria distanza dal resto del Paese, con una flessione del prodotto interno lordo di quasi il 10% tra il 2007 ed il 2012, a fronte di un già grave e preoccupante -6% registrato nelle regioni del Centro-Nord. Più in generale, la bassa crescita del nostro Paese è fortemente influenzata dal dualismo territoriale. L’Italia appare, fra i grandi sistemi dell’Euro Zona, quello dove più rilevanti sono le diseguaglianze territoriali. In termini di prodotto pro-capite, infatti, il Centro Nord, con 31.124 € per abitante, è vicino ai valori dei Paesi più ricchi come la Germania, dove il Pil pro-capite e di 31.703 €. Mentre i livelli di reddito del Mezzogiorno sono comparabili e inferiori a quelli della Grecia (il Sud ha meno di 18mila € per abitante, la Grecia 18.500 €)”.

Basterebbe questo dato per capire che il divario tra il Sud e il Centro-Nord è aumentato, ma altri dati sono egualmente eloquenti: “Dall’avvio della crisi, nel 2008, ad oggi il Mezzogiorno ha perso più di 300.000 posti di lavoro, circa il 60% del totale dell’occupazione persa in Italia. Il Sud paga dunque la parte più alta di un costo già insopportabile per il Paese e si conferma come un territorio di emarginazione di alcune categorie sociali, come i giovani e le donne. Un terzo dei giovani tra i 15 ed i 29 anni non riesce a trovare un’occupazione (in Italia il tasso di disoccupazione giovanile e del 25%), se poi oltre ad essere giovani si è donne, la disoccupazione sale al 40%. Il tasso di disoccupazione femminile totale è del 19% a fronte di un valore medio nazionale dell’11%. I disoccupati con laurea sono in Italia il 6,7% a fronte del 10% nel Mezzogiorno, a riprova di un sistema impermeabile a qualunque forma di evoluzione dell’offerta di lavoro”.

In più, con l’accentuazione di diseguaglianze sociali e di opportunità: “Nel Mezzogiorno sono a rischio di povertà 39 famiglie su 100 a fronte di una media nazionale del 24,6%. Il persistere di meccanismi clientelari, di circuiti di potere impermeabili alla società civile e la diffusione di intermediazioni improprie nella gestione dei finanziamenti pubblici contribuiscono ad alimentare ulteriormente le distanze sociali impedendo il dispiegarsi di normali processi di sviluppo”.

Per il Censis, se ne può uscire soltanto se si costruisce un futuro oltre le lamentele sul deficit, pur se il Mezzogiorno oggi è “fragile, con consolidate presenze criminali, con gap socioeconomci rispetto al Centro-Nord”, pur se forti deficit caratterizzano non solo la Sanità e il Welfare, ma anche la scuola, l’Università, le infrastrutture, pur se continua la dispersione e la sottoutilizzazione dei fondi europei. Ma la via d’uscita è nelle derive lunghe, nell’andare oltre l’ansia del momento, oltre gli interventi dettati da emergenze vere o presunte, com’è stato negli ultimi 30-40 anni.

Ricordando Martinoli, ecco alcune cose da fare

E così non può essere più, per non andare incontro a nuovi fallimenti, a nuove delusioni. E il Censis indica alcune cose da fare: “Il problema è pensare le nuove traiettorie del welfare di comunità in un contesto socioeconomico, istituzionale e culturale che ha vissuto gli ultimi 150 anni nella condizione materiale e psicologica di chi sconta un deficit rispetto alle altre aree; contesto per il quale il welfare e diventato sostanzialmente un’agenda di strutture e servizi di offerta da finanziare per rispondere ad una costellazione di bisogni, in modo sempre meno appropriato e sempre più costoso. Questo è un dato importante: l’afflusso di risorse per il sociale al Sud-Isole non è stato e non è irrilevante, piuttosto quello che non ha funzionato e che funziona sempre meno è il value for money, cioè l’effettiva redditività socioeconomica delle risorse investite che non a caso sono sempre più diventate di reddito corrente”.

Il Censis non criminalizza il welfare del passato, che comunque è stato una piattaforma di coesione sociale, ma indica per il futuro un nuovo progetto per affrontare la longevità perché diventi una risorsa. Il Censis poi afferma che deve cambiare la logica dell’investimento sociale, non più finalizzata a colmare i deficit, ma “a promuovere l’integrazione della rete di strutture, servizi, attività, progetti nei territori per creare una filiera integrata, in grado di rispondere in modo appropriato alla molteplicità di bisogni che connotano la vita di persone anziane, soprattutto non autosufficienti, sia di mobilitare le persone, longeve e non solo, che possono contribuire alla coesione di comunità”. I Fondi di coesione comunitaria per il 2014-2020 devono essere incanalati con ritmo crescente verso l’infrastruttura sociale del nuovo welfare. Avviare infine “la sperimentazione di innovazioni sociali trasferibili e virali che mettono insieme imprese sociali che si attivano per rispondere a bisogni delle persone in difficoltà, nuove professioni sociali che creano opportunità occupazionali di qualità, nuove tecnologie Ict e di altro tipo, nuove modalità di erogare servizi e nuovi servizi da definire per contenuti e destinatari. Va dato spazio alla capacita di ridefinire l’offerta a partire dall’esigenza di riposizionarla rispetto alla domanda di una popolazione che invecchia, ma che ha anche tante energie da mettere in campo”.

Convergenti su queste proposte gli interventi di Antonio Silvano Andriani, Presidente Forum Ania-consumatori; Angelo Ferro, Presidente Fondazione Oic-Onlus; Carlo Flamment, Presidente Formez Pa; Natale Forlani, direttore generale dell’immigrazione e delle politiche di integrazione del Ministero del Lavoro; Cesare Vaciago, già direttore generale del Comune di Torino. In apertura dei lavori, De Rita ha ricordato la figura di Gino Martinoli, a cui ogni anno il Censis dedica un giorno di riflessione, questa volta sul Mezzogiorno.

E, unanime è stata la considerazione che “i temi del Mezzogiorno sono scomparsi dalle agende della politica almeno dagli anni ’80, quando si è preferito imboccare genericamente una via liberista che si è tradotta in abbandono delle emergenze sociali ed economiche, soprattutto al Sud”. Ma occorre recuperare “non con l’affanno del fare senza una visione di lungo periodo”, afferma De Rita, perché “fare del Meridione il laboratorio di un nuovo welfare di comunità può essere una grande e concreta esperienza di massa, purché ci sia la capacità di andare oltre la retorica del “deficit da colmare” e si punti sull’investimento della nuova infrastrutturazione sociale che non è una sommatoria di servizi per singole categorie, ma un reticolo integrato capace di generare in primo luogo il sale del sociale: le relazioni”.

Autore: Redazione FNOMCeO

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