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Censis: l’Italia che non investe nel futuro

Se 50 anni vi sembran pochi… Vent’anni fa il Censis pubblicò un libro che raccoglieva le considerazioni generali dei suoi Rapporti precedenti e dette proprio questo titolo, allora: Se trent’anni vi sembran pochi…
E così, ne sono passati altri venti. Ogni anno, il primo venerdì del mese di dicembre, Giuseppe De Rita, fondatore e presidente della Fondazione Censis, ha presentato il Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese. E lo ha fatto sempre nella sede istituzionale, nel Parlamentino del CNEL, Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, in viale David Lubin, a Roma. Come tutti gli anni, il Parlamentino anche questo venerdì era stracolmo, così le sale attigue: un pubblico silenzioso e attento ha seguito gli interventi di De Rita e di Massimiliano Valerii, direttore del Censis. Il “popolo del Censis” anche quest’anno si è ritrovato, ad ascoltare l’annuncio di De Rita: “Questo è il mio ultimo Rapporto. Dopo 50 anni ho ritenuto giusto così. Abbiamo lavorato bene,  e bene lavoreranno quelli che verranno dopo”. Un clima di mestizia e di malinconia si percepiva nella sala, un annuncio di cui molti di noi sapevano, ma una cosa è saperlo, altra cosa è vivere il momento in cui la cosa accade. La commozione, nel Parlamentino del CNEL, era diffusa nell’aria che si respirava.

Ma l’intervento di De Rita è stato incentrato sul presente, con inevitabili riferimenti alla storia dei Rapporti Censis, a partire dal primo Rapporto, anno 1966, redatto su incarico proprio del CNEL.
L’autocoscienza collettiva è stata sempre alla base dei nostri Rapporti. Senza autocoscienza la società non va avanti”, ha esordito De Rita. “In questi anni abbiamo fatto fenomenologia del sociale, non economia, non sociologia, non ideologia”. L’intuizione del Censis sull’economia sommersa degli anni ’60 e ’70, il disincanto rispetto alla fase dei primi anni ’90 quando suonava “la malinconica pianola del cambiamento” con l’avvento della cosiddetta seconda Repubblica (che forse non è mai nata, disse proprio il Censis, a un certo punto), per arrivare a oggi, in questa Italia che conferma l’intuizione dello scorso anno: “forse il resto ci salverà”.

Il resto è tutto ciò che non rientra nella narrazione ufficiale, e che però esiste, come esisteva il sommerso degli anni ’60 e ’70, mentre oggi è ripreso il sommerso, ma completamente differente rispetto ad allora. Oggi il sommerso tende a consolidare il reddito, non l’economia reale come allora, ma per capire occorre scavare nella società e individuare in quel resto le energie per reagire alla crisi economica e non solo. “C’è in giro la non volontà di leggere la realtà, invece noi vogliamo continuare a studiare per capire”, dice De Rita, domandandosi: ma dov’è il resto? Il resto è nel lusso e nel made in Italy che regge ancora oggi; il resto è nell’enogastronomia; il resto è nelle apparecchiature e nei macchinari; il resto è nelle famiglie. Nella continuità, continua a funzionare la famiglia, con il suo risparmio ed altro. Sostiene De Rita: “La continuità c’è, è come l’aria, come l’acqua, ma non è continuismo mediocre. Nella continuità, questo è un Paese che regge perché regge il corpo sociale. Il corpo è reggersi, come diceva Merleau Ponty. Noi ruminiamo, e così il Paese tende a cicatrizzare le ferite”.

Ma ci sono tre faglie che è difficile cicatrizzare: la Brexit, che ci coglie sprovveduti, che riduce la nostra identità europea, che fa emergere il localismo e il provincialismo; poi il terremoto, quest’ultimo nel Centro Italia che dà la sensazione che l’Appennino può essere abbandonato a se stesso; poi c’è la divaricazione tra élite e popolo, al limite della frattura. Il potere prescinde dal corpo sociale, ormai sono due mondi che non ragionano tra loro e si accusano reciprocamente di populismo, ma se saltano le giunture tra potere politico e popolo, salta tutto. I politici non orientano il popolo, ma tendono a somigliargli. Il populismo è fatto anche di linguaggio dispregiativo reciproco. Come uscirne? Recuperando il terreno della ragionevolezza per sanare la rottura tra potere e popolo. Fin qui De Rita.

Nello specifico dell’Italia del Rapporto Censis è entrato Massimiliano Valerii: “Solo conferme, pochi figli, poca crescita, Italia senza proiezione nel futuro. Un’Italia rentier, che non investe sul futuro. Si gonfia la bolla del risparmio senza investimenti nel futuro, qualcosa come 114,3 miliardi di euro di risparmio. L’incidenza del 6 per cento degli investimenti è bassa, a livello del dopoguerra. Dopo il jobs act, si sono registrati 274 mila occupati, 21% a tempo indeterminato, 63% determinato, con l’esplosione dei vaucer. In Italia, cresce di poco l’occupazione, ma a bassa produttività, con lo svuotamento delle figure intermedie e operaie”.
La società italiana, dice il Censis, registra un KO dei giovani, che sono più poveri dei padri e dei nonni. I giovani hanno oggi un reddito inferiore del 25 per cento rispetto a 25 anni fa. Si è ampliato il divario tra giovani e resto della popolazione. Questo fenomeno crea insicurezza, ecco perché cresce il cash, con la tendenza a incrementare il proprio risparmio senza alcuna idea di investimento nel futuro.

Valerii spiega poi come l’Italia si posiziona nella globalizzazione mondiale. Hanno vinto i flussi internazionali: i flussi dell’Expo; quelli del turismo; quelli digitali; quelli migratori. Se si pensa al digitale, l’aumento esponenziale dei computer e degli smartphone è la cifra della società della disintermediazione, è la nostra era bio-mediatica.  Nel quotidiano, poi, c’è il tema della relazionalità, con fenomeni di reversione ma al tempo stesso di generosità diffusa (si pensi alla partecipazione dei cittadini in sostegno delle popolazioni colpite dal terremoto) in una società che è caratterizzata da single e da genitori soli, spesso anziani, e comunque soli.
Valerii spiega infine il problema dei problemi della società italiana di questi anni: la divaricazione tra élite e popolo sempre più forte, con l’89 per cento degli italiani che esprime un giudizio negativo sui politici e fa registrare il rovescio del sogno europeista. “È saltato il palinsesto del senso collettivo”, sintetizza Valerii.

Com’è noto, il Rapporto Censis è complesso, denso di considerazioni, di interpretazioni dei fenomeni sociali e ricco di dati. Va letto, va studiato, va tenuto a memoria, va consultato nel corso di un anno, in attesa del Rapporto dell’anno successivo, un Rapporto che non è mai inferiore alle 500 pagine. Si possono estrapolare singoli dati, particolari, ma invece abbiamo preferito dare un quadro complessivo della società italiana, oggi, quando il Censis è categorico nell’affermare che nella divaricazione tra potere e popolo, dilaga da tutt’e due le parti il populismo, riaffermando però il ruolo centrale delle Istituzioni. Occorre ripartire da lì, dalle Istituzioni, per uscire dalla crisi. Scrive il Censis: “Senza la sponda attiva delle Istituzioni, la dialettica sociale si inceppa; il potere politico e il corpo sociale non comunicano; coltivano il proprio destino in una ridda di reciproche delegittimazioni, prevalentemente mediatiche e intrise di rancoroso narcisismo”.

Il rilancio della funzione delle Istituzioni è l’idea del Censis per uscire dalla crisi economica, sociale e istituzionale di questi anni. Infatti, nel delineare la situazione della società italiana oggi, scrive il Censis: “La storia ci ricorda che la società italiana è stata pensata all’inizio e compiuta nel tempo dal faticoso quotidiano operare dell’apparato istituzionale, statale e periferico. Forse è il tempo per il mondo politico e il corpo sociale di ricambiare un po’ di quella carica di futuro, provvedendo con coraggio a dare un nuovo ruolo al troppo mortificato mondo delle Istituzioni. Altrimenti, quest’anno e i prossimi rimarranno, rilkianamente, da qualche parte dell’incompiuto”. Ma nel Rapporto Censis la speranza nel futuro c’è, e, proprio citando Rainer Maria Rilke, viene da dire: “Il futuro è dentro di noi, ancora prima che accada”.

Autore: Redazione FNOMCeO

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