Se a sbagliare è il paziente

Secondo uno studio pubblicato su Clinical Toxicology, il numero di errori commessi dai pazienti nell’assunzione dei farmaci, con conseguenze clinicamente significative, è in aumento. (Lo studio, condotto da ricercatori affiliati a centri di ricerca e cliniche universitarie di Columbus, in Ohio, si può leggere integralmente qui, mentre su NPR se ne può leggere una sintesi, qui).

I dati analizzati dai ricercatori sono quelli raccolti tra il 2000 e il 2012 dal National Poison Data System, un database gestito dall’American Association of Poison Control Centers (vedi), ente che monitora e supporta l’attività dei 55 centri deputati alla sorveglianza e alla prevenzione dei casi di intossicazione in territorio statunitense.

Il numero di errori segnalato, e preso in esame, ammonta complessivamente a oltre 67.000. Gli errori più comuni commessi dai pazienti consistono nell’aver assunto il farmaco in dosi errate e nell’aver confuso il medicinale con un omologo apparente (è il caso dei ‘LASA’ – Look Alike/Sound Alike – farmaci che tendono a essere scambiati con altri per l’analogia fonetica nel nome o per la somiglianza grafica delle confezioni). Nell’arco di tempo considerato, le ‘sviste’ che rientrano in questa casistica sono più che raddoppiate, passando da poco più di 3.000 a oltre 6.800. Tra i farmaci più di frequente coinvolti, prevalgono quelli prescritti per i disturbi cardiovascolari (20,6% dei casi), seguiti da analgesici (12%), terapie ormonali (11%), sedativi e antipsicotici (9,6%), e antidepressivi (8,6%).

Come ricorda la Food and Drug Administration, le cause di questo tipo di errore possono essere molteplici (vedi), ma è possibile ipotizzare specifiche ragioni in relazione ai trend crescenti? Secondo l’autrice principale dello studio, ricercatrice presso il Nationwide Children’s Hospital di Columbus, è ragionevole pensare che l’aumento nel numero degli errori sia parallelo a quello delle prescrizioni, che a loro volta rispecchiano l’incremento di diagnosi delle rispettive patologie associate. L’American Association of Poison Control Centers sottolinea che i dati, con ogni probabilità, sono sottostimati: in genere “ci si concentra sugli errori clinici commessi dal personale medico nelle strutture ospedaliere – ha commentato un ex presidente dell’organizzazione – lasciando del tutto in secondo piano ciò che succede a casa”.

Uno studio inglese di qualche anno fa evidenzia del resto come il ruolo del paziente nella gestione della terapia farmacologica in contesto domiciliare (a partire dall’autovalutazione del caso, dal modo in cui ne riferisce al medico, dalle ragioni per cui, al contrario, decidesse di non riferirlo o non fosse in grado di farlo) si inserisce in un territorio della ricerca molto complesso e poco esplorato (vedi).

Di Sara Boggio
www.torinomedica.com

Autore: Redazione FNOMCeO

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