Cassazione Penale Sent. n. 53992/17 – Paziente psichiatrico cagione la morte di un altro paziente – Responsabilità del personale sanitario – La Corte di Cassazione ha affermato che deve ritenersi responsabilità del medico curante attestare la non pericolosità di un paziente psichiatrico. Conseguentemente non possono ritenersi responsabili della condotta del paziente psichiatrico che cagioni la morte di un altro paziente gli infermieri e il legale rappresentante della RSA.
FATTO E DIRITTO: L.S. era accusato del delitto previsto dall’art. 591 c.p. , perché, quale amministratore unico della RSA Arka srl, aveva abbandonato gli anziani ivi ospitati, incapaci di provvedere a loro stessi, non assumendo il personale medico e specialistico necessario, consentendo che gli addetti all’assistenza svolgessero attività di operatori socio sanitari per la quale non erano abilitati, garantendo la presenza in orario notturno di soli due infermieri professionali. La Corte di assise di Catania l’aveva ritenuto però colpevole del delitto di abbandono di incapaci non per le carenze del personale della struttura ma perché L. non aveva dato disposizioni al personale di assicurarsi che il ricoverato Pi.Se. non corresse pericoli a causa delle condotte a suo danno di un’altra ricoverata, M.G.. Una condotta contestatagli in fatto nel corso del dibattimento. P.V. e Sa.Ig. erano accusati del delitto previsto dall’art. 591 c.p. (così modificata l’originaria imputazione di omicidio colposo), perché, quali infermieri professionali in servizio presso la medesima RSA la notte dei fatti, abbandonavano il ricoverato Pi.Se., incapace di provvedere a se stesso, determinando così una situazione di pericolo tale per cui il medesimo veniva colpito in varie parti del corpo da un’altra ricoverata, M.G., anch’essa incapace, riportando lesioni che ne causavano la morte. La Corte di Cassazione ha evidenziato che la struttura non potesse ricoverare pazienti psichiatrici non compensati, non avendo la specifica e necessaria autorizzazione a farlo e non avendo personale specializzato. Così che, quando i pazienti ricoverati mostravano segni di squilibrio, l’unica soluzione possibile (adottata per la M. dopo i fatti) era quella di trasferirli in un’altra struttura, idonea a prestare quelle particolari cure. La Corte ha rilevato, poi, come agli imputati – il legale rappresentante della RSA (competente sulla amministrazione della stessa ma non certo sulla diagnosi degli stati morbosi dei pazienti) ed i due infermieri del turno di notte (chiamati ad eseguire le eventuali disposizioni dei medici ma non certo ad effettuare diagnosi o a programmare cure o a disporre trasferimenti) – potevano, al più, essere venuti a conoscenza degli alterchi fra M. e Pi. come voci correnti nella struttura (una voce fra le tante) e non come una situazione che necessitava del loro intervento o della loro sorveglianza. Non potevano così essere consapevoli dello stato di pericolo reale o potenziale che il Pi. correva, perché il permanente ricovero nella RSA della M., che non dipendeva da una loro valutazione ma atteneva alla responsabilità del medico curante, ne attestava, appunto, la non pericolosità