Cassazione Penale Sentenza n. 822/18 – Responsabilità medica – La Corte territoriale aveva individuato nell’operato dell’imputata, psicoterapeuta, profili di colpa, riconducibili ad imprudenza, negligenza e imperizia, per non avere adottato, nello svolgimento della sua attività professionale di psicoterapeuta del bambino, una metodologia adeguata e corretta, né sotto il profilo tecnico-psicologico, né sotto quello deontologico-professionale. La Corte di Cassazione ha affermato che pure dovendosi ritenere dimostrata l’esistenza di evidenti errori nella terapia praticata dalla ricorrente, risultano fondate le censure difensive nella parte in cui si riferiscono alla incertezza con cui risultano trattati in sentenza gli aspetti riguardanti la diagnosi precisa della malattia insorta nella persona offesa e la sua durata. Secondo il costante orientamento della Corte, in tema di lesioni personali, costituisce “malattia” qualsiasi alterazione anatomica o funzionale dell’organismo, ancorché localizzata, destinata a perdurare fino a quando sia in atto il suddetto processo di alterazione. La Corte di Cassazione ha pertanto demandato al giudice civile il compimento delle indagini e degli approfondimenti , riguardanti la precisa patologia da cui è risultato affetto il minore dopo l’intervento terapeutico effettuato da C.F. e la durata di tale malattia.
FATTO E DIRITTO: Con sentenza del 4/3/2016, la Corte di appello di Venezia, in riforma della sentenza emessa in data 16/2/2006 dal Tribunale di Verona, dichiarava non doversi procedere nei confronti di C.F., per essere, il reato di lesioni colpose a lei ascritto, estinto per intervenuta prescrizione. Confermava nel resto l’appellata sentenza, quanto alla condanna al risarcimento dei danni causati alla parte civile, L.R., da liquidarsi in separata sede. Condannava altresì l’imputata al pagamento delle spese processuali sostenute dalla parte civile nel grado d’appello. A carico della imputata, psicoterapeuta, era stata elevata imputazione di lesioni colpose gravissime in danno del minore L.J., rappresentate da forme di disturbo mentale con alterazioni a livello funzionale e comportamentale. Si individuavano, nel suo operato, profili di colpa, riconducibili ad imprudenza, negligenza e imperizia, per non avere adottato, nello svolgimento della sua attività professionale di psicoterapeuta del bambino, una metodologia adeguata e corretta, né sotto il profilo tecnico-psicologico, né sotto quello deontologico-professionale.In particolare, si addebitava alla imputata: di avere assecondato ed avallato le finalità perseguite dalla madre del minore, S.B., di allontanamento della figura paterna dalla vita del bambino; di avere praticato una terapia errata; di non avere tenuto conto della patologia sofferta dalla S., committente dell’incarico, nella quale era riconoscibile, all’evidenza, una sindrome di alienazione parentale. L’imputata ha proposto ricorso per cassazione. Secondo la prospettazione difensiva, mancherebbe l’indicazione della malattia che la ricorrente avrebbe cagionato nel minore. La enunciazione contenuta nella imputazione, che si riferisce a “forme di disturbo mentale con alterazioni a livello funzionale e comportamentale” non costituirebbe diagnosi di una malattia e, pertanto, non consentirebbe di individuare il fatto storico rispetto al quale la imputata è chiamata ad esercitare il diritto di difesa. La Corte territoriale ha analizzato le testimonianze dei numerosi specialisti che si sono occupati a vario titolo del caso in esame (assistenti sociali e periti nominati in diversi giudizi), evidenziando come tutti costoro, erano addivenuti alla medesima conclusione di ritenere che la imputata avesse, nel suo operato, violato le regole deontologiche ed intrapreso scelte terapeutiche errate, dando per scontato che il minore avesse subito un abuso sessuale ad opera del padre, sebbene altre ipotesi, poste a fondamento del malessere del bambino, emergessero chiaramente dal contesto nel quale lo stesso era vissuto. Condividendo la conclusione cui era giunto il perito nominato dal Tribunale e, alla luce di tutte le altre prove raccolte, ha individuato, nella condotta serbata dalla imputata, i profili di responsabilità della colpa elevati nella contestazione, ritenendo provato che: la psicoterapeuta era incorsa in errori metodologici gravi, consistiti nel praticare sul minore una terapia inadeguata e dannosa; aveva agito sul piccolo paziente alimentando il conflitto con il padre; non si era attivata per curare la tendenza marcata del bambino a confondere il piano della realtà con quello della immaginazione e ad abbandonarsi a fantasie distruttive. La Corte di Cassazione ha rilevato che la Corte territoriale ed il giudice di primo grado, nella disamina dei fatti, non abbiano offerto una compiuta risposta in ordine alla precisa diagnosi della malattia sofferta dal minore ed alla sua durata. Pure avendo ricostruito in modo dettagliato lo sviluppo della vicenda ed individuato i diversi errori nei quali era incorsa la imputata durante la terapia praticata, non hanno precisato: il grado di incidenza di tali errori sulla già conclamata patologia sofferta dal piccolo paziente; la precisa diagnosi della malattia insorta nel minore in seguito all’intervento della psicoterapeuta; la prevedibile durata della malattia stessa, in relazione alla contestazione elevata a carico della ricorrente, a cui è stato addebitato di avere causato nel minore una lesione gravissima. Secondo il costante orientamento della Corte , in tema di lesioni personali, costituisce “malattia” qualsiasi alterazione anatomica o funzionale dell’organismo, ancorché localizzata, destinata a perdurare fino a quando sia in atto il suddetto processo di alterazione. Essa può riguardare sia la sfera fisica della persona, sia quella psichica. Il concetto di lesione coinvolgente la sfera psichica della persona, ha trovato luogo nella giurisprudenza di legittimità con riferimento all’art. 582 c.p. , dove è espressamente richiamato il concetto di malattia “nella mente”. Si afferma, secondo la definizione tradizionalmente fornita dalla giurisprudenza della Corte di legittimità che la malattia nella mente è quella che comporta non soltanto offuscamento o disordine, ma anche indebolimento, eccitamento, depressione o inerzia dell’attività psichica, con effetto permanente o temporaneo. La nozione di lesione gravissima si ricava dall’art. 583 c.p. , dove, in termini definitori, detta lesione è collegata alla insorgenza di una malattia certamente o probabilmente insanabile. Pertanto, la malattia da ritenersi insanabile è quella che ha attitudine a non essere reversibile ed a permanere per tutta la vita con una possibilità di guarigione molto remota o nulla. Dalla motivazione della sentenza impugnata non si evince con chiarezza la definizione della patologia da cui è risultato affetto il minore in seguito alla terapia praticata dalla C.. Invero, la Corte territoriale, nei passaggi sopra richiamati, non definisce la patologia psichica o psichiatrica insorta nel minore e, quanto alla sua durata, si esprime in termini dubitativi, affermando come il comportamento della imputata abbia “compromesso, forse irrimediabilmente, la possibilità di regresso e, in ultima istanza, di guarigione” della persona offesa. Pure dovendosi ritenere dimostrata l’esistenza di evidenti errori nella terapia praticata dalla ricorrente, risultano fondate le censure difensive nella parte in cui si riferiscono alla incertezza con cui risultano trattati in sentenza gli aspetti riguardanti la diagnosi precisa della malattia insorta nella persona offesa e la sua durata. E’ demandato al giudice civile il compimento delle indagini e degli approfondimenti sopra indicati, riguardanti la precisa patologia da cui è risultato affetto il minore dopo l’intervento terapeutico effettuato da C.F. e la durata di tale malattia).