Cassazione Penale Sentenza n.25976/18 – Esercizio dell’attività intramoenia – Risponde di peculato il medico che svolga all’interno di un ospedale attività libero-professionale intramuraria senza la relativa autorizzazione, appropriandosi dell’intero corrispettivo versato dai pazienti, senza provvedere al versamento della quota prevista dalla legge (pari al 52% della tariffa applicata) e rilasciare apposita fattura, né indirizzare i pazienti medesimi presso il competente ufficio cassa dell’azienda. Non è necessaria l’esistenza di una formale ed espressa autorizzazione all’esercizio dell’attività intramoenia da parte dell’ospedale, essendo sufficiente, per la configurabilità del peculato, la presenza di una disponibilità anche di fatto del bene oggetto dell’appropriazione (il compenso delle visite mediche) in forza di un collegamento che pure deve esservi con l’esercizio delle funzioni pubblicistiche, nella specie ravvisato nel rapporto contrattuale instaurato dal ricorrente con l’ospedale e nel dato oggettivamente dirimente della conoscenza da parte dell’ospedale del continuativo esercizio dell’attività libero-professionale svolta all’interno dell’unità ospedaliera ove lo stesso prestava servizio.
FATTO E DIRITTO: Con sentenza n. 35219 in data 28/04/2017, la Suprema Corte di Cassazione, sesta sezione penale, annullava la sentenza pronunciata dalla Corte di appello di Palermo in data 27/06/2016 che aveva condannato A. C. alla pena, condizionalmente sospesa, di anni due di reclusione per diverse ipotesi di reato di peculato, limitatamente alla determinazione della durata dell’interdizione dai pubblici uffici, rinviando per nuovo giudizio sul punto ad altra sezione della Corte di appello di Palermo, con rigetto nel resto del ricorso proposto nell’interesse di A. C.. Avverso la sentenza n. 35219/2017, nell’interesse di A. C., viene proposto ricorso ex art. 625 bis cod. proc. pen. in presenza di lamentati errori percettivi che avevano esercitato un’influenza decisiva sul processo decisorio e tali da comportare l’adozione di una decisione diversa da quella che sarebbe stata legittimamente adottata senza di essi. Il dottor C., medico cardiologo assunto a tempo pieno e con impegno esclusivo presso l’ospedale Civico di (Omissis), è stato ritenuto responsabile del reato di cui all’art. 314 cod. pen. perché, svolgendo all’interno del citato ospedale, attività libero-professionale intramuraria senza la relativa autorizzazione, nelle date del 08/10/2007, 29/10/2007, 17/10/2007, 22/10/2007, 05/11/2007 e 26/11/2007, si appropriava dell’intero corrispettivo versato dai pazienti, senza provvedere al versamento della quota prevista dalla legge (pari al 52% della tariffa applicata) e rilasciare apposita fattura, né indirizzare i pazienti medesimi presso il competente ufficio cassa dell’azienda. Con il ricorso in cassazione, il C. aveva dedotto che, senza una formale autorizzazione dell’ospedale, l’attività libero professionale abusivamente espletata era da qualificarsi illegittima e, conseguentemente, il ricorrente non avrebbe dovuto rispondere di peculato in quanto lo stesso aveva ricevuto il denaro da quei pazienti, a titolo di onorario, per una prestazione espletata illegittimamente. La Suprema Corte aveva ritenuto non necessaria l’esistenza di una formale ed espressa autorizzazione all’esercizio dell’attività intramoenia da parte dell’ospedale, essendo sufficiente, per la configurabilità del peculato, la presenza di una disponibilità anche di fatto del bene oggetto dell’appropriazione (il compenso delle visite mediche) in forza di un collegamento che pure deve esservi con l’esercizio delle funzioni pubblicistiche, nella specie ravvisato nel rapporto contrattuale instaurato dal ricorrente con l’ospedale e nel dato oggettivamente dirimente della conoscenza da parte dell’ospedale del continuativo esercizio dell’attività libero- professionale svolta all’interno dell’unità ospedaliera ove lo stesso prestava servizio. In buona sostanza, nel caso in esame, si sostiene conclusivamente che se l’Ospedale Civico era venuto a conoscenza dell’attività libero-professionale intramuraria del dottor C. il 21/02/2008, appariva evidente come la struttura sanitaria fosse all’oscuro del fatto che il ricorrente avesse svolto, in epoca precedente a quella data, attività intramoenia. Il dato in parola – che il ricorrente fa assurgere ad elemento di valutazione decisivo ai fini della conferma del giudizio di penale responsabilità – non si rivela affatto come tale nella sentenza impugnata dove, in ogni caso, il percorso argomentativo ivi svolto tiene conto di tutta una serie di ulteriori (e diversi) elementi probatori (contenuto delle intercettazioni ambientali presso lo studio ospedaliero in uso al collega dottor M., attività di pedinamento dei pazienti, dichiarazioni rese da questi ultimi, controlli effettuati presso la direzione sanitaria dell’Ospedale Civico al fine di verificare eventuali pagamenti presso i servizi di cassa dell’amministrazione), di per sé ampiamente sufficienti a giustificare le conclusioni assunte dai giudici di merito: l’esercizio da parte del C. di un’attività libero-professionale inframuraria svolta in modo tale da appropriarsi dell’intero corrispettivo richiesto e corrisposto dai pazienti, senza provvedere al versamento della quota prevista dalla legge (pari al 52% della tariffa applicata) e rilasciare apposita fattura, né indirizzare i pazienti medesimi presso il competente ufficio cassa dell’azienda ospedaliera. Peraltro, il provvedimento impugnato, dopo aver aderito alla distinzione tra attività intramuraria semplice e quella “allargata” e tra quest’ultima e l’attività extramuraria, ha precisato come tale linea di demarcazione comporti “erronee conseguenze lì dove pretende di trarne implicazioni contrastanti con il fatto – dai giudici di merito accertato alla luce delle fonti documentali puntualmente illustrate in motivazione, oltre che delle dichiarazioni rese dal M. e dei riscontri al riguardo acquisiti dalle stesse dichiarazioni rese dai pazienti oggetto delle visite specialistiche – che egli ha sempre svolto … attività intramoenia di duplice tipo (meramente interna e allargata), visitando presso le strutture ospedaliere numerosi pazienti e percependone i compensi che poi ha indebitamente trattenuto senza provvedere al versamento delle quote di spettanza all’amministrazione ospedaliera”. Il ricorso è manifestamente infondato e, come tale, inammissibile.