Cassazione Penale Sentenza n. 31628/18 – Colpa medica – Di fronte ad una situazione di pericolo per l’integrità fisica dei paziente, il medico, titolare di una posizione di garanzia rispetto allo stesso, ha l’obbligo di procedere alle cure necessarie, predisponendo i presidi e i trattamenti atti a prevenire conseguenze pregiudizievoli o, addirittura, letali. L’ambito dell’obbligo di garanzia gravante sul medico di pronto soccorso può in generale ritenersi definito dalle specifiche competenze che sono proprie di quella branca della medicina che si definisce medicina d’emergenza o d’urgenza. In tale ambito rientrano l’esecuzione di taluni accertamenti clinici, la decisione circa le cure da prestare e l’individuazione delle prestazioni specialistiche eventualmente necessarie. Delineata entro tale ambito la posizione di garanzia del medico di pronto soccorso, la mancata prestazione di presidi terapeutici fondamentali per la vita del paziente si configura come la negligenza, l’imperizia e l’imprudenza che integrano la colpa grave, non ponendosi, pertanto, un problema di successione di leggi nel tempo.
FATTO E DIRITTO: A. S. e G. F. T., a mezzo dei rispettivi difensori, con due distinti atti, interpongono ricorso per cassazione avverso la sentenza, resa in data 8 marzo 2017, dalla Corte di appello di Napoli, sez.1, che, in riforma della sentenza del Tribunale di Avellino, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di entrambi gli imputati per intervenuta prescrizione del reato loro ascritto, confermando le statuizioni civili del primo grado di giudizio e condannando gli imputati, in solido con il responsabile civile Azienda Ospedaliera (Omissis), al pagamento delle spese sostenute nel grado dalle parti civili. Ai ricorrenti – entrambi in servizio il 9 maggio 2005, giorno del ricovero di G.D.A. – era ascritto il reato di cui agli artt. 113 e 589 cod. pen. perché il S., quale sanitario del Pronto Soccorso e il T., quale sanitario dello stesso nosocomio, per colpa ne cagionavano la morte che sopravveniva il 29 maggio 2005, presso l’Ospedale (Omissis) di ——, per grave insufficienza respiratoria conseguente a grave infezione tetanica non trattata presso l’Ospedale —— durante il primo ricovero. Gli imputati sono stati condannati (concesse le attenuanti generiche ad entrambi, il S. a mesi sei di reclusione, il T. a mesi quattro) dal Tribunale di Avellino per avere omesso i comportamenti sanitari dagli stessi dovuti in ragione della posizione di garanzia assunta nelle diverse fasi del ricovero e della dimissione di G.D.A. ivi giunta per diverse ferite da taglio all’addome e ai polsi auto inferte. Il S., medico che aveva avuto in cura la paziente al Pronto Soccorso, praticandole le medicazioni e le suture necessarie, aveva omesso di praticare la profilassi antitetanica e antibiotica ritenuta necessaria data la natura delle ferite che erano risultate profonde e sporche di terra. Al T. – che non aveva preso parte agli interventi terapeutici perché relativi ad altra branca ospedaliera e che si era attivato per ottenere un consulto psichiatrico per la ricoverata la cui condizione di depressa cronica faceva temere ulteriori atti di autolesionismo – veniva rimproverato di avere firmato la dimissione della paziente pur avendo constatato la mancata esecuzione di profilassi antitetanica. Il primo Giudice, avvalendosi anche di consulenza tecnica, aveva individuato nell’omissione della condotta doverosa la causa dell’evento. Le conclusioni del Tribunale, corroborate da numerose prove orali e documentali, hanno trovato piena condivisione da parte della Corte di appello di Napoli. L’obbligo di prevedere e prevenire un’infezione, ben ipotizzabile alla luce delle lesioni riportate, era imposto, oltre che scienza ed esperienza, anche dalla circolare della Regione Campania n. 3358 del 07/03/97 e dalla n. 16 del 11/11/96: documenti che stabiliscono che, in caso di primo intervento nei confronti di pazienti “traumatizzati”, in situazione di emergenza, non si raccoglie alcun consenso informato per l’inoculazione del siero antitetanico dovendo il diritto dispositivo, nel quale si sostanzia il consenso, soccombere al cospetto dell’urgenza di intervenire. Per quanto attiene più specificatamente alla condotta del dottor T., la Corte distrettuale evidenzia che questi consentì la dimissione (volontaria) della paziente nella medesima giornata, pur nella consapevolezza che si trattava di tagli inferti con un oggetto tagliente non identificato, in un ambiente malsano; che le ferite erano descritte in modo tale da rendere chiara la presenza di sporcizia. Egli non svolse i dovuti accertamenti in ordine alla terapia atta a prevenire un evento altamente prevedibile in base di un ordinario bagaglio di conoscenza scientifica. Entrambi, pertanto, rivestivano posizione di garanzia. Il Giudice di appello sostiene che l’elevata probabilità logica, parametro stabilito nella recente, autorevole, pronuncia delle Sezioni Unite (Sez. U., n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn e altri, Rv. 26110301), è stata nel caso di specie ampiamente dimostrata. Col suo atto di ricorso, A. S. deduce manifesta illogicità della motivazione, nullità per vizio di motivazione e violazione di legge. È principio di diritto che presupposto di liceità del trattamento medico-chirurgico è rappresentato dal consenso del paziente. Non si comprende allora perché il S. avrebbe dovuto disattenderlo alla luce delle menzionate due circolari della Regione Campania, le quali non assurgono certo al rango delle norme di legge, nazionali e convenzionali. La necessità del consenso informato, così come prospettata dal ricorrente S., è del tutto inconferente al caso di specie nel quale il rimprovero mosso ad entrambi i sanitari – ciascuno rispetto agli incombenti svolti e alle rispettive fasi del ricovero e della dimissione – è di non aver praticato alla persona offesa la necessaria terapia antitetanica, comportamento doveroso che, se attuato, avrebbe evitato l’insorgenza dell’infezione per la quale la donna successivamente moriva. Esattamente la Corte di appello di Napoli afferma che la profilassi antitetanica ed antibiotica risultava necessaria proprio in considerazione della natura delle ferite, all’evidenza immediata profonde e sporche di terra, così come peraltro aveva rilevato l’ortopedico R. il quale, intervenuto su richiesta del S. per accertare eventuali lesioni tendinee, aveva consigliato di eseguire una profilassi antitetanica. In tema di consenso informato, peraltro, in linea con il principio da tempo autorevolmente espresso dalle Sezioni Unite, non integra il reato di lesioni personali, né quello di violenza privata la condotta del medico che sottoponga il paziente ad un trattamento terapeutico in relazione al quale non sia stato prestato il consenso informato, nel caso in cui questo, eseguito nel rispetto dei protocolli e delle leges artis, si sia concluso con esito fausto, essendo da esso derivato un apprezzabile miglioramento delle condizioni di salute del paziente, in riferimento anche alle eventuali alternative ipotizzabili e senza che vi fossero indicazioni contrarie da parte dello stesso. Né, al riguardo, va trascurata la circostanza che, nel caso di specie, si trattava di una situazione di emergenza in cui la paziente, per la patologia psichiatrica e per la contingenza emotiva del momento, non era condizione di esprimere alcun consenso. Di fronte ad una situazione di pericolo per l’integrità fisica dei paziente, il medico, titolare di una posizione di garanzia rispetto allo stesso, ha l’obbligo di procedere alle cure necessarie, predisponendo i presidi e i trattamenti atti a prevenire conseguenze pregiudizievoli o, addirittura, letali. L’ambito dell’obbligo di garanzia gravante sul medico di pronto soccorso può in generale ritenersi definito dalle specifiche competenze che sono proprie di quella branca della medicina che si definisce medicina d’emergenza o d’urgenza. In tale ambito rientrano l’esecuzione di taluni accertamenti clinici, la decisione circa le cure da prestare e l’individuazione delle prestazioni specialistiche eventualmente necessarie. Delineata entro tale ambito la posizione di garanzia del medico di pronto soccorso, la mancata prestazione di presidi terapeutici fondamentali per la vita del paziente si configura come la negligenza, l’imperizia e l’imprudenza che integrano la colpa grave, non ponendosi, pertanto, un problema di successione di leggi nel tempo. L’anzidetta profilassi, che avrebbe dovuto essere praticata all’atto del ricovero dal sanitario preposto – a nulla rilevando la circostanza sull’autenticità o meno della prescrizione di un trattamento antitetanico nel referto – una volta accertata la condizione di pessima igiene delle ferite, avrebbe con elevata probabilità logica evitato l’infezione e il conseguente decesso. Entrambi i medici, invece, omisero di valutare la possibilità dell’infezione tetanica la quale, tuttavia, data la condizione delle ferite, poteva dirsi assolutamente prevedibile secondo scienza ed esperienza. La sentenza impugnata, nel richiamarsi alle conclusioni cui era pervenuto il Giudice del primo grado, dà altresì ampiamente conto della sussistenza del nesso di causalità tra la condotta omissiva ascritta ai sanitari e l’evento. Detto nesso è configurabile qualora esso sia stato accertato con giudizio controfattuale che, sebbene non fondato su una legge scientifica di spiegazione di natura universale o meramente statistica – per l’assenza di una rilevazione di frequenza dei casi esaminati – ma su generalizzate massime di esperienza e del senso comune, sia stato comunque ritenuto attendibile secondo criteri di elevata credibilità razionale, in quanto fondato sulla verifica, anche empirica, ma scientificamente condotta, di tutti gli elementi di giudizio disponibili, criticamente esaminati. In conclusione, entrambi i ricorsi devono essere rigettati, con conseguente condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e alla rifusione delle spese di giudizio in favore delle parti civili.