Cassazione Penale Sentenza n. 412/19 – Responsabilità medica – La Corte ha chiarito che le linee guida costituiscono sapere scientifico e tecnologico codificato, potendo costituire un’utile guida per orientare agevolmente, in modo efficiente ed appropriato, le decisioni terapeutiche. La Corte ha affermato che l’errore medico può cadere sulla scelta delle linee guida ovvero nella fase esecutiva delle raccomandazioni contenute nelle linee guida adeguate al caso di specie; con la precisazione che, in tale ultima ipotesi, l’esercente la professione sanitaria risponde per morte o lesioni personali derivanti dall’esercizio di attività medico chirurgica, se l’evento si è verificato per colpa grave da imperizia nell’esecuzione di raccomandazioni di linee guida o buone pratiche clinico-assistenziali adeguate, tenuto conto del grado di rischio da gestire e delle speciali difficoltà dell’atto medico.
FATTO E DIRITTO: La Corte di Appello di Salerno ha confermato la sentenza di condanna resa dal Tribunale di Salerno in data 18.04.2016 nei confronti di B. N., L. S. e D.S. R., in riferimento al delitto di omicidio colposo, in danno del paziente G. E.. In assunto accusatorio, D.S. e L., rispettivamente operatore ed aiuto e B., quale anestesista rianimatore, cagionavano la morte del G., sottoposto ad intervento chirurgico di innesti ossei con impianti in titanio. In particolare, gli imputati avrebbero omesso di procedere alla estubazione protetta del paziente così da ridurre al minimo il rischio di spasmi glottidei da risveglio, a fronte di intervento eseguito in anestesia totale di lunga durata con prolungata apertura della bocca; e, all’insorgenza di spasmi glottidei, omettevano di eseguire una corretta tracheotomia chirurgica ed eseguivano una inidonea incisione alla base dell’epiglottide, a monte della sede del fenomeno ostruttivo, di talché rendevano inevitabile la morte del G. per asfissia, intervenuta durante il trasporto in ambulanza dalla clinica al Pronto Soccorso dell’Ospedale di Cava de’ Tirreni. Fatto del 4.05.2008. La Corte di Appello condivideva le valutazioni espresse dal Tribunale, basate sulla relazione dei due consulenti tecnici del pubblico ministero; il Collegio rigettava la richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale funzionale all’espletamento di perizia per accertare le cause della morte del G.. La Corte di merito rilevava che l’attività istruttoria già espletata aveva chiarito l’intera vicenda, di talché non erano necessari ulteriori approfondimenti. Avverso la richiamata sentenza della Corte di Appello ha proposto ricorso per cassazione B. N., a mezzo del difensore. La Suprema Corte ha evidenziato, sul piano metodologico, che qualsiasi lettura della rilevanza dei saperi di scienze diverse da quella giuridica, utilizzabili nel processo penale, non può avere l’esito di accreditare l’esistenza, nella regolazione processuale vigente, di un sistema di prova legale, che limiti la libera formazione del convincimento del giudice; che il ricorso a competenze specialistiche con l’obiettivo di integrare i saperi del giudice, rispetto a fatti che impongono metodologie di individuazione, qualificazione e ricognizione eccedenti i saperi dell’uomo comune, si sviluppa mediante una procedimentalizzazione di atti (conferimento dell’incarico a periti e consulenti, formulazione dei relativi quesiti, escussione degli esperti in dibattimento) ad impulso del giudicante e a formazione progressiva; e che la valutazione di legittimità, sulla soluzione degli interrogativi causali imposti dalla concretezza del caso giudicato, riguarda la correttezza e conformità alle regole della logica dimostrativa dell’opinione espressa dal giudice di merito, quale approdo della sintesi critica del giudizio. Tuttavia, la perizia rappresenta un indispensabile strumento euristico, nei casi ove l’accertamento dei termini di fatto della vicenda oggetto del giudizio imponga l’utilizzo di saperi extragiuridici e, in particolare, qualora si registrino difformi opinioni, espresse dai diversi consulenti tecnici di parte intervenuti nel processo, di talché al giudice è chiesto di effettuare una valutazione ponderata che involge la stessa validità dei diversi metodi scientifici in campo. Suole affermarsi che al giudice è attribuito il ruolo di peritus peritorum. In realtà, detta locuzione, secondo le indicazioni di ordine metodologico espresse dalla giurisprudenza sopra richiamata, non autorizza affatto il giudicante ad intraprendere un percorso avulso dal sapere scientifico, né a sostituirsi agli esperti ignorando byri i contributi conoscitivi di matrice tecnico-scientifica. Il ruolo di peritus peritorum impone, di converso, al giudice a individuare, con l’aiuto dell’esperto, il sapere accreditato che può orientare la decisione. Il giudice, cioè, deve esaminare le basi fattuali sulle quali le argomentazioni del perito sono state condotte; l’ampiezza, la rigorosità e l’oggettività della ricerca; l’attitudine esplicativa dell’elaborazione teorica nonché il grado di consenso che le tesi sostenute dall’esperto raccolgono nell’ambito della comunità scientifica (Sez. 4, n. 18678 del 14-3-2012, Rv. 252621). E di tale indagine il giudice è chiamato a dar conto in motivazione. In particolare, nei casi caratterizzati da contrapposte teorie scientifiche, con antagoniste ricadute sulla interpretazione dei dati fattuali disponibili, il giudice deve fornire una razionale giustificazione dell’apprezzamento compiuto e delle ragioni per le quali ha opinato per la maggiore affidabilità di una determinata scuola di pensiero, rispetto ad un’altra. Le svolte considerazioni, di ordine generale, sul governo giudiziale della prova scientifica, trovano specifica declinazione nel settore della responsabilità sanitaria e, in particolare, nella valutazione dei profili di rimproverabilità colposa rinvenibili nella condotta svolta dall’esercente la professione sanitaria. Come noto, la distinzione tra culpa levis e culpa lata aveva acquisito una nuova considerazione alla luce della disposizione, in tema di responsabilità sanitaria, che era contenuta nell’oggi abrogato art. 3, comma 1, d.l. 13 settembre 2012, n. 158, convertito, con modificazioni dalla legge 8 novembre 2012, n. 189, ove era tra l’altro stabilito: “L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve”. Il tema della responsabilità dell’esercente la professione sanitaria, per i reati di omicidio colposo e di lesioni colpose, è stato poi oggetto di un ulteriore intervento normativo, con il quale il legislatore ha posto mano nuovamente alla materia della responsabilità sanitaria, anche in ambito penale. Il riferimento è alla legge 8 marzo 2017, n. 24, recante Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie; e, segnatamente, all’art. 6, della citata legge n. 24 del 2017, che ha introdotto l’art. 590-sexies cod. pen., rubricato Responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario. Le Sezioni Unite (Sez. U., sentenza n. 8770 del 21.12.2017, dep. 22.02.2018, Mariotti, Rv. 272174) ricostruendo la portata precettiva della disposizione di cui all’art. 590-sexies, cod. pen., hanno chiarito che l’errore medico può cadere sulla scelta delle linee guida ovvero nella fase esecutiva delle raccomandazioni contenute nelle linee guida adeguate al caso di specie; con la precisazione che, in tale ultima ipotesi, l’esercente la professione sanitaria risponde per morte o lesioni personali derivanti dall’esercizio di attività medico chirurgica, se l’evento si è verificato per colpa grave da imperizia nell’esecuzione di raccomandazioni di linee guida o buone pratiche clinico-assistenziali adeguate, tenuto conto del grado di rischio da gestire e delle speciali difficoltà dell’atto medico. Come si vede, secondo diritto vivente, la distinzione tra colpa lieve e colpa grave per imperizia, nell’ambito della fase esecutiva delle raccomandazioni contenute nelle linee guida che risultino adeguate al caso di specie, mantiene una sua attuale validità: ciò in quanto la colpa lieve per imperizia esecutiva, nel senso ora chiarito, delimita l’area di irresponsabilità penale del professionista sanitario. 2.3. Questa Suprema Corte aveva chiarito che le linee guida costituiscono sapere scientifico e tecnologico codificato, potendo costituire un’utile guida per orientare agevolmente, in modo efficiente ed appropriato, le decisioni terapeutiche. L’art. 5, della legge n. 24 del 2017 regola specificamente le modalità di esercizio delle professioni sanitarie, muovendo da tale alveo interpretativo. La norma stabilisce, infatti, che «Gli esercenti le professioni sanitarie …. si attengono, salve le specificità del caso concreto, alle raccomandazioni previste dalle linee guida» accreditate, espresse cioè da istituzioni individuate dal Ministero della salute. Tali linee guida sono sottoposte a verifica dell’Istituto superiore di sanità in ordine alla conformità a standard predefiniti ed alla rilevanza delle evidenze scientifiche poste a supporto delle raccomandazioni. In mancanza di tali raccomandazioni, i professionisti si attengono alle buone pratiche clinico- assistenziali. Ai fini di interesse, null’altro che rilevare che il legislatore del 2017 ha inteso costruire un sistema istituzionale, pubblicistico, di regolazione dell’attività sanitaria, che ne assicuri lo svolgimento in modo uniforme, appropriato, conforme ad evidenze scientifiche controllate. Secondo la vigente normativa il professionista sanitario è tenuto ad attenersi alle raccomandazioni, sia pure con gli adattamenti propri di ciascuna fattispecie concreta. E lo stesso professionista, per converso, ha la legittima, coerente pretesa a vedere giudicato il proprio comportamento alla stregua delle medesime direttive impostegli. Non sfugge che in tema di responsabilità medica, ai fini dell’applicazione della causa di esonero da responsabilità prevista dall’art. 3 del d.l. 13 settembre 2012, n. 158, come modificato dalla legge 8 novembre 2012, n. 189, si è affermato che è necessaria l’allegazione delle linee guida alle quali la condotta del medico si sarebbe conformata, al fine di consentire al giudice di verificare: a) la correttezza e l’accreditamento presso la comunità scientifica delle pratiche mediche indicate dalla difesa; b) l’effettiva conformità ad esse della condotta tenuta dal medico nel caso in esame (Sez. 4, Sentenza n. 21243 del 18/12/2014, dep. 21/05/2015, Rv. 263493). Il richiamato insegnamento, peraltro, deve essere contestualizzato, alla luce delle sopravvenute modifiche normative, in forza delle quali l’esercente la professione sanitaria è espressamente tenuto ad uniformarsi alle linee guida, che sono state istituzionalizzate, nelle forme sopra ricordate. Ed invero, la giurisprudenza più recente ha considerato che in tema di responsabilità degli esercenti la professione sanitaria, in base all’art. 2, quarto comma, cod. pen., la motivazione della sentenza di merito deve indicare se il caso concreto sia regolato da linee-guida o, in mancanza, da buone pratiche clinico- assistenziali, valutare il nesso di causa tenendo conto del comportamento salvifico indicato dai predetti parametri, specificare di quale forma di colpa si tratti (se di colpa generica o specifica, e se di colpa per imperizia, o per negligenza o imprudenza), appurare se ed in quale misura la condotta del sanitario si sia discostata da linee-guida o da buone pratiche clinico-assistenziali. La Corte ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata, agli effetti penali, perché il resto è estinto per prescrizione.