Cassazione Civile Sentenza n. 6449/19 – Consenso informato – La Corte di Cassazione ha affermato che la necessità di un consenso informato da parte del paziente è desumibile dai principi generali dell’ordinamento, senza che sia necessaria una qualche previsione specifica.
FATTO E DIRITTO: G. L.G. convenne in giudizio, davanti al Tribunale di Napoli, l’Università degli studi di Roma (Omissis) e il dott. S. T., chiedendo che fossero condannati in solido al risarcimento dei danni conseguenti alla non corretta esecuzione di un intervento chirurgico da lui subito, lamentando tra l’altro di non essere stato adeguatamente informato delle possibili conseguenze negative dell’intervento stesso. Si costituirono in giudizio sia l’Università che L. B., quale erede universale del defunto dott. T., proponendo varie eccezioni preliminari e chiedendo, nel merito, il rigetto della domanda. Dichiarata l’incompetenza per territorio in relazione alla domanda contro il professionista ed espletata una c.t.u., il Tribunale accolse la domanda nei confronti dell’Università, che condannò al pagamento della somma di euro 561.726,47, con il carico delle spese di giudizio. La pronuncia è stata impugnata dall’Università in via principale e dal L. G. in via incidentale, e la Corte d’appello di Napoli, con sentenza del 13 aprile 2017, ha rigettato l’appello principale, ha accolto quello incidentale in ordine alla rivalutazione ed agli interessi ed ha condannato l’Università al pagamento delle conseguenti somme oltre che delle ulteriori spese del grado. Ha osservato la Corte territoriale, per quanto di interesse in questa sede, che la lamentata mancanza di un consenso informato da parte del paziente non era stata contestata dalla parte convenuta in primo grado, sicché il punto non era da ritenere soggetto ad onere di prova. Solo in sede di appello l’Università aveva dedotto che il L. G. era stato, a SUO tempo, adeguatamente informato dei rischi dell’intervento, ma tale deduzione è stata ritenuta dalla Corte di merito insufficiente, posto che si fondava su una deposizione (quella della madre del paziente) talmente generica che non consentiva di comprendere quali informazioni fossero state realmente fornite al L. G. Per cui, essendo derivate dall’intervento conseguenze dannose (nonostante l’accertata correttezza del suo svolgimento), la mancanza di prova del consenso era da ritenere elemento sufficiente a confermare la sentenza di condanna emessa dal Tribunale. 3. Contro la sentenza della Corte d’appello di Napoli ricorre l’Università degli studi di Roma (Omissis) con atto affidato ad un solo motivo. Resiste G. L. G. con controricorso. Il ricorso è stato avviato alla trattazione in camera di consiglio, sussistendo le condizioni di cui agli artt. 375, 376 e 380-bis cod. proc. civ., ed entrambe le parti hanno depositato memorie. Con l’unico motivo di ricorso si lamenta, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione di legge in ordine al contenuto del consenso informato. Con una prima parte della censura la ricorrente sostiene che la sentenza avrebbe fatto erronea applicazione delle regole sul consenso informato, applicando retroattivamente le norme dell’art. 1, comma 2, lettera c), della legge 30 luglio 1998, n. 281, e dell’art. 5 della Ric. 2017 n. 15688 sez. M3 – ud. 22-11-2018 -3- Convenzione di Oviedo del 4 aprile 1997, ratificata con la legge 28 marzo 2001, n. 145, in relazione ad una fattispecie verificatasi in epoca precedente. Con una seconda parte della censura si contesta la sentenza in punto di fatto, sul rilievo che vi sarebbe agli atti la prova dell’esistenza di un valido consenso informato. Osserva la Corte che la censura, che presenta evidenti profili di inammissibilità, è comunque priva di fondamento. La doglianza, infatti, non contesta in alcun modo l’affermazione della sentenza in esame secondo cui la mancanza del consenso informato doveva essere data per pacifica in assenza di contestazioni nel giudizio di primo grado; e nulla dice il ricorso sul fatto che il profilo dell’esistenza del consenso fu sollevato per la prima volta in appello. Ciò posto, la censura di pretesa applicazione retroattiva delle norme suindicate è destituita di fondamento, perché, come correttamente ha rilevato la Corte d’appello, la necessità di un consenso informato era desumibile dai principi generali dell’ordinamento, senza che fosse necessaria una qualche previsione specifica (v., sul punto, già la sentenza 25 novembre 1994, n. 10014). Quanto alla seconda parte della censura, si tratta di una doglianza inammissibile, posto che la Corte d’appello ha valutato la deposizione testimoniale e l’ha ritenuta insufficiente a supportare la tesi dell’appellante, per cui il tornare sulla questione si risolve in modo evidente nel tentativo di sollecitare in questa sede un diverso e non consentito esame del merito. 2. Il ricorso, pertanto, è rigettato. A tale esito segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate ai sensi del d.m. 10 marzo 2014, n.55, da distrarre in favore del difensore che si è dichiarato antistatario. Ric. 2017 n. 15688 sez. M3 – ud. 22-11-2018 -4- L’Università ricorrente va anche condannata, in accoglimento della richiesta del difensore del controricorrente, al pagamento di un’ulteriore somma di euro 1.000 ai sensi dell’art. 385, quarto comma, cod. proc. civ., applicabile nella fattispecie ratione temporis. Pur sussistendo le condizioni di cui all’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, tale obbligo non sussiste, in considerazione della natura di parte pubblica della ricorrente. La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione