È inutile aspettare che la Corte o la politica dicano ai medici come si dovranno comportare nel caso del suicidio assistito, siano i medici a dire alla Corte o alla politica, come loro, in scienza e coscienza cioè con raziocinio e pietà, si comporterebbero
30 APR – La Corte Costituzionale, ha chiesto al Parlamento di esaminare la questione del reato di istigazione o aiuto al suicidio (art. 580 del Codice penale), al fine di dare una risposta moderna, con una eventuale iniziativa legislativa, ai casi limite, che coinvolgono malati e medici nella nostra società, decisamente fuori dell’orizzonte deontologico ordinario della medicina.
Nel caso, in cui il Parlamento, non fosse in grado, nei tempi assegnati, di assolvere al proprio compito la Corte procederà “motu proprio” alla definizione di una disciplina giuridica appropriata.
Adeguamento deontologico
Due situazioni possibili:
– la prima, secondo me quella più probabile, suppone che il Parlamento non sarà in grado di rispondere, entro il limite di tempo assegnato, all’invito della Corte, che per questo si vedrà costretta a decidere per conto suo, la questione orientata, in qualche modo, a creare condizioni per la de-colpevolizzazione di chi, in modo del tutto ausiliario, rispetto al suicidio assistito e quindi in casi disperati, vi concorre;
– la seconda, anche se meno probabile, riguarda la possibilità che il Parlamento non decida in proposito e che la Corte confermi in attesa di una futura deliberazione parlamentare in qualche modo l’art 580 del codice penale, limitandosi a delle puntualizzazioni e a delle aperture.
In entrambi i casi, alla medicina, ai medici e più esattamente alla loro deontologia, si pone un problema in più che finisce dentro la “questione medica”: quello di essere comunque coerenti con ciò che cambia quindi:
– eventualmente con i principi della Costituzione,
– con le coscienze che evolvono in questa società.
In entrambi i casi, per la Fnomceo si porrebbe un inedito problema di adeguamento deontologico.
Non basta aggiungere un articolo in più
La lettera di risposta del presidente Anelli (QS 24 aprile 2019) al prof. Mori, (QS 18 aprile 2019) a proposito delle questioni sollevate dalla Corte costituzionale (articolo 580 del cp), si chiude con una affermazione chiara: “la nuova deontologia medica, così come nel passato, non potrà che essere coerente con i principi stabiliti dalla nostra Carta Costituzionale”
Mal’eventuale adeguamento deontologico, per trovare la coerenza di cui parla il presidente Anelli, non è una passeggiata e giustamente la Fnomceo ha il dovere di andare con i piedi di piombo e di sollecitare un dibattito molto serio, perché è vero che i medici sono coinvolti in prima persona nella morte disperata dei loro malati, ma la questione non può essere scaricata solo sulle loro coscienze.
Alla fine, alla luce di nuove sfide morali, si tratta di rinnovare una sorta di “contratto sociale” tra medicina e società, nella quale ci si accorda su come procedere, in certi casi limite, dove il suicidio assistito finisce per essere considerato plausibile, cioè accettabile sul piano deontologico e quindi tanto sul piano scientifico che morale.
A mio parere, per risolvere i problemi di coerenza, con la realtà che cambia, l’eventuale adeguamento deontologico, non può semplicemente ridursi ad ammettere la non colpevolezza del medico, o ad accettare semplicemente un principio para-eutanasico, pensando alla fine che, tutto si riduca ad aggiungere, ad un codice preesistente che fino ad ora ha difeso la vita, un articolo in più, che accetta di assistere un malato suicida. (Tesi n° 1)
L’eventuale concorso del medico al suicidio assistito implica per la complessità morale e scientifica che la questione rappresenta, quanto meno una rielaborazione deontologica più sistemica. (Tesi n° 2)
Cautele e precauzioni
Le ragioni, di una rielaborazione deontologica, più ovvie, sono che l’ammissione di una facoltà professionale, sino ad ora preclusa dalla deontologia, come quella di assistere non semplicemente chi muore (questo è sempre avvenuto) ma chi manifesta una volontà suicida intendendo la morte come una liberazione dal male, implica, nello stesso tempo, sempre:
– la definizione di garanzie volte a proteggere questa società dall’abuso possibile di tale facoltà,
– la definizione di garanzie volte a salvaguardare anche la coscienza del medico,
– la definizione di criteri incontrovertibili per decidere le situazioni di crisi cioè la definizione di limiti veri e propri.
Già ora:
– non sono infrequenti i casi di cronaca, nei quali certi operatori diventano, in ragione di inconfessabili impulsi di morte, dei giustizieri implacabili, nei confronti di malati giudicati inguaribili,
– abbiamo problemi di “medicina impossibile” (Callhan 2000),
– abbiamo a che fare con difficili decisioni morali legate sempre più ai limiti e ai problemi economici della medicina, in nome dell’appropriatezza c’è il rischio di giustificare molte nefandezze.
Coerenza
Il problema, che la Corte ci ha di fatto posto e che vorrei schematizzare fino alla brutalità, è il seguente: in che modo un codice deontologico, che fino ad ora, ha obbligato un medico a difendere la vita dalla morte naturale, può autorizzarlo a favorire, anche se in modo del tutto ausiliario,la volontà suicida di un malato alla ricerca di una morte volontaria e liberatrice?
Il problema se riprendiamo il concetto di “coerenza,” a cui si riferisce il presidente Anelli, diventa il seguente: in che modo la deontologia si sforza di essere coerente con una normativa che depenalizza il concorso ausiliario del medico al suicidio assistito e comunque con una società che, pur in casi limite e limitati, manifesta paradossalmente attraverso concetti quali “libertà” e “dignità, la necessità di governare la propria morte e la propria disperazione.
Per rispondere giova ricordare che il concetto di “coerenza” sul piano strettamente deontologico significa due cose:
– intima connessione e interdipendenza tra principi diversi (vita, libertà, dignità),
– assenza di contraddizioni tra valori e disvalori (vita, libertà, dignità e morte).
In medicina, quindi fuori ed oltre da qualsiasi teoresi teologica, la vita biologica è un valore e la morte biologica è il suo contraddittorio. Dire che la morte, in caso di volontà suicidaria, è una risorsa, o una liberazione, non significa che la morte sul piano ontologico, diventa un valore biologico come la vita, ma semplicemente che un “non valore”, quale è la morte biologica, diventa paradossalmente una risorsa.
Per la Corte, che dovrà decidere, il problema più grande sarà molto probabilmente l’interdipendenza tra principi (dignità libertà vita morte) ma per la deontologia che dovrà, rispetto ad essa, essere coerente, il problema più grande, resta definire i rapporti tra valori e disvalori, cioè governare una contraddizione quella tra la vita e la morte.
Compossibilità
Per il codice deontologico, al fine di governare delle contraddizioni, una strada possibile è creare una relazione di compossibilità tra valori e disvalori, in modo da assicurare loro, un contesto normativo, nel quale sia il “valore” della vita che il “non valore” della morte, possano semplicemente coesistere. La coesistenza, in questo caso, vale, dal punto di vista logico, come una non contraddizione. (Tesi n° 3)
Se restiamo sul piano deontologico, la soluzione al problema posto dall’art 580 del codice penale, auspicata dalla Corte, non può essere tecnica e meno che mai può riguardare semplicemente la liceità di quello che può o non può fare un medico, ma chiama in causa una precisa riorganizzazione logica della deontologia che richiamando sia il prezioso lavoro di Trento che le 100 tesi, definisco “compossibilità”. (Tesi n° 4)
La compossibilità, a proposito di rapporti tra il medico e un malato volontariamente suicidario, sostiene che il principio della vita e il principio della morte in medicina, possono essere compossibili, nello stesso codice deontologico, solo se tra loro si creano condizioni normative di coesistenza. La coesistenza vale come non contraddizione e quindi come complementarietà. (Tesi n° 5)
La vita e la morte pur essendo per la medicina positivista, la prima un valore, e la seconda un disvalore, sono proposizioni di fatto inter-dipendenti e per questo necessariamente tra loro complementari.
La coesistenza come assenza di contraddizioni
Si faccia attenzione a non scambiare “compossibilità” con “compatibilità” cioè se consideriamo, l’opposizione valore/non valore, l’assenza di contraddizioni con l’adattamento reciproco.
Per la medicina positivistica, ribadisco, il principio biologico della vita e quello biologico della morte, dal punto di vista logico non sono compatibili, l’uno esclude l’altro. Essi al massimo possono semplicemente coesistere uno come il contraddittorio dell’altro. Quindi essere compossibili. Il sole e la luna coesistono ma nessuno di noi direbbe che il giorno è la contraddizione della notte. Meglio dire che il giorno e la notte sono compossibili. Cioè coesistono senza contraddizioni.
Ma coesistere senza contraddizioni, sul piano pratico, in un caso di suicidio assistito, per un medico, significa che non si tratta semplicemente di adattare:
– la morale, la scienza, la medicina alla società che cambia,
– di rendere compatibile una vecchia medicina con una nuova società,
– di rendere compatibile una vecchia professione con un malato nuovo…
…ma di trovare, anche inventare se è il caso, le condizioni culturali e normative giuste in ragione delle quali far coesistere, in una certa società, e rispetto ad una certa medicina, la morale, la scienza e la persona. (Tesi n° 6).
Far coesistere valori diversi e soprattutto valori e disvalori in una deontologia come quella medica, non è facile, specie se questa ha alle spalle una storia millenaria, dei principi fondanti orientati ovviamente ai valori e non ai disvalori, non semplici da reinterpretare, e inverosimili gradi di complessità. Ma questa è la sfida.
Vorrei, in sostanza, che ci si rendesse conto che, il tema posto dalla Corte Costituzionale, per i medici non è facilmente risolvibile, né semplicemente gestibile, magari con un gesto di buona volontà o invocando la laicità della scienza, cioè scrivendo un articolo in più.
Il paradigma e l’eccezione
Io penso che:
– il principio ippocratico storico alla base della deontologia medica che obbliga il medico a non favorire la morte, quindi al rispetto della vita, per essere compossibile, nei casi di suicidio assistito, non necessariamente debba essere ridiscusso ma al contrario debba essere confermato come tale cioè come un fondamentale principio regolativo (Tesi n° 7);
– di fronte alle nuove complessità sociali di questa società il codice debba definire nei confronti di questo principio ippocratico, delle eccezioni ma semplicemente perché queste sono una realtà innegabile. Queste eccezioni che riguardano la morte volontaria del malato, non possono essere negate dall’applicazione di un principio generale della vita, privo di equità. (Tesi n° 8);
– le eccezioni debbono essere fondamentalmente spiegate con un principio di pietà e di compassione nel senso di ammettere anche a livello della scienza un principio di comprensione e di solidarietà che non si appiattisca o si riduca alle verità razionali (Tesi n° 9).
Aristotele concepisce l’equità (epieíkeia) come la “forma di giustizia che va al di lá della legge scritta” quale punto dove si può trovare una “proporzione” in relazione al bene comune e a quell’individuale tra i soggetti coinvolti nell’azione.
Faccio notare che il concetto di “proporzionalità delle cure” in deontologia è un concetto fondamentale. Insomma l’equità rende più giusta la legge generale rendendola applicabile al particolare. Se la legge generale non fosse applicabile al caso particolare essa sarebbe paradossalmente ingiusta. L’equità quindi la pietà, si basa sulla possibilità di considerare il caso particolare una eccezione. L’equità e la pietà sono le basi della compossibilità.
Il principio di compossibilità e di pietà, quindi, può essere riassunto, deontologicamente, in un principio logico e morale:
– l’eccezione conferma la regola nei casi non previsti (Exceptio probat regulam in casibus non exceptis). Cioè di norma il codice resta pro-vita, in casi straordinari il codice prevede l’eccezione pro-morte. L’eccezione pro-morte per compossibilità conferma il valore regolativo della regola pro-vita;
– l’eccezione come atto di pietà annulla la possibile contraddizione tra principi diversi e tra valori e disvalori. (Tesi n° 10).
Nelle scienze esatte, l’eccezione, non conferma la regola ma la smentisce, nelle altre scienze soprattutto quelle che appartengono all’ambito giuridico, l’eccezione al contrario conferma la regola anzi senza eccezione spesso la regola sarebbe inapplicabile. La pietà spiega più di ogni altra cosa l’eccezione.
Eccezione pietà e autonomia
L’eccezione fa emergere, in tutta la sua forza, l’eccedenza della realtà del malato, sulla norma deontologica che, per propria natura, non può contenerla tutta, nella sua interezza e nella sua complessità. Il malato, per quanto una norma deontologica si sforzi di rappresentarlo, resta in certi casi, soprattutto quelli estremi, non rappresentabile e poco rappresentabile.
Se è così non resta altro che affidare all’autonomia della pietà del medico la decisione circa l’eccezione da dichiarare, in modo da consentirgli, di integrare ad hoc la norma deontologica di riferimento. Ma anche questo, sempre sul piano deontologico, non è una cosa semplice. (Tesi n° 11).
Carl Smith (Teologia politica 2007) sull’eccezione scrive: “Sovrano è colui che decide sullo stato di eccezione nel senso che decide che sussiste lo stato di eccezione e, secondariamente, che decide “cosa si debba fare per superarlo”.
Vale a dire: sovrano è chi decide sullo stato di eccezione e nello stato di eccezione.
Il concetto di “sovrano”, nel caso della citazione, vale come autorità politica riconosciuta, ma a livello deontologico, di fronte ad un caso di suicidio assistito, i sovrani sono due: il malato e il medico. Il primo che esprime una volontà di morte il secondo che deve decidere la pietà necessaria per soccorrerlo.
L’esistenza di due sovrani comporta non secondari problemi deontologici:
– come può un medico concorrere ad assistere un malato suicidario al di fuori ed oltre una pregressa relazione terapeutica, cioè come può un medico decidere se concorrere o meno con la pietà se non conosce la situazione attraverso soprattutto una relazione di cura?
– Come può decidere un medico di concorrere con la propria pietà se non a partire da una sua autonomia morale?
Personalmente ritengo, come il presidente Anelli, che l’eccezione alla regola paradigmatica, è possibile solo se si prevede il rispetto della possibilità per il medico di ricorrere all’obiezione di coscienza. Se non ci fosse questa condizione il “sovrano” sarebbe solo il malato e il medico sarebbe poco più poco meno un mero boia esecutore come se, a sua volta, non avesse nessuna coscienza e quindi nessuna pietà. Questo, per evidente ragioni, non può essere postulato (Tesi n° 12).
Alla fine, se si tratta di definire un accordo di compossibilità, tra scienza e pietà, questo non può che riguardare le coscienze assunte nella loro piena autonomia morale (Tesi n° 13).
Eccezione e casi
La definizione di “eccezione” in genere si ferma alla prima parte “l’eccezione conferma la regola” trascurando la seconda parte “nei casi non previsti”. Lo spirito di questa definizione è che la regola vale normalmente sulla realtà prevedibile, mentre l’eccezione, per forza, vale su quella non prevedibile.
Ma se questo vale per un “sovrano” inteso in senso politico quello che ha a che fare con calamità inattese, guerre, emergenze varie, non vale in medicina dove il “caso” da governare, con l’eccezione, può essere prevedibile e quindi descrivibile.
Questo significa che l’eccezione paradigmatica in medicina deve valere nel senso seguente: “l’eccezione conferma la regola ma solo nei casi previsti”.
Cioè il riconoscimento dell’eccezione in medicina implica la definizione dell’eccezione stessa, anzi non può esserci eccezione deontologica senza una sua preventiva descrizione cioè senza un accordo preventivo. L’eccezione in medicina, quindi, è tale se viene descritta e consensualmente definita (Tesi n°14).
Questo non ha necessariamente un significato restrittivo ma ha un significato di:
– ulteriore tutela deontologica nel senso di garantire il più possibile il malato e il medico nella interpretazione e nel governo morale di una eccezione,
– sottolineare ulteriormente il valore della relazione di pietà tra una persona (il medico) verso un’altra persona (il malato) quindi non più tra un medico e la malattia.
Si definisce “eccezione” un caso che non rientra più nei parametri della cura ma che rientra in quelli che consensualmente si possono definire eccezioni (Tesi n°15).
E’ del tutto evidente che l’intera problematica delle Dat e del consenso informato (legge n°219) trova, nella fattispecie del malato suicidario, per disperazione, la sua massima espressione.
Sedazione profonda come accanimento terapeutico
Sino ad ora le ragioni deontologiche che si sono opposte alla possibilità di assecondare la volontà di un malato suicidario, quella per intenderci che si rifà ai principi di auto-determinazione, dignità e libertà dell’uomo, fanno tutte riferimento all’eliminazione del dolore attraverso la sedazione profonda. La logica è chiara: se elimino il dolore, la dignità del malato è salvaguardata, per cui non è necessario in nessun modo adottare strategie suicidarie.
Questa visione palliativista e biologista, sconta una visione piuttosto riduzionista della dignità e della libertà del malato e del concetto di vita di una persona. In realtà la perdita della dignità e della libertà per un malato spesso dipendono semplicemente da una perdita totale della autonomia, dalla perdita di funzioni importanti, cioè dalla privazione certo di alcune attribuzione biologiche ma anche dalla privazione di quelle più semplicemente esistenziali.
Cioè la perdita della dignità di un malato oltre il dolore, procede con la perdita crescente della sua umanità, della sua relazionalità, della sua condizione di persona (Tesi 16).
Se per dignità intendiamo un predicato ontologico fondamentale dell’essere “persona” quando la persona regredisce a pura biologia mantenuta in vita in modo solo tecnologico, la dignità non c’è più.
Che la sedazione continua e profonda sia un trattamento che non porta alla morte è vero, ma è altrettanto vero che essa prefigura di fatto una condizione di premorte, determinata dalla perdita della coscienza. La perdita della coscienza biologicamente non equivale alla morte ma dal punto di vista morale sì.
Il problema nuovo, quindi, che sorge è quello che chi non ha coscienza non ha il problema della dignità perché non è in grado di percepirne la mancanza (Tesi 17).
A questo punto non ha senso una sedazione profonda se essa annulla la dignità attraverso l’annullamento della coscienza.
La sedazione profonda, quindi potrebbe configurarsi come una forma di accanimento terapeutico ed entrare in contraddizione con quel gruppo di articoli del codice deontologico (art 16/17/18/19) volti a garantire una proporzionalità tra trattamenti benefici e utilità attese.
La sedazione continua e profonda toglie il dolore, è vero, ma proprio perché annulla la coscienza non può essere invocata né come “un miglioramento della qualità della vita” del malato, né come un mezzo attraverso il quale “procurare un concreto beneficio clinico alla persona”.
Nel caso in cui la sedazione profonda entrasse in contraddizione con l’attuale codice deontologico questa sarebbe una giustificazione forte che avvalorerebbe il ruolo dell’eccezione (Tesi 18).
Risistemare la deontologia: la proposta di Trento
Il principio sovrano del paradigma ippocratico per un medico è “di non compiere mai atti finalizzati a provocare la morte”. Da questo principio discendono quelli del codice deontologico citati che prescrivono il dovere di un medico ad astenersi da trattamenti finalizzati a provocare la morte ecc. Tutto questo, quali elementi fondamentali del paradigma, vanno riconfermati salvo le eccezioni descritte in modo specifico.
Ma come fare? Serve una deontologia che sia ripensata alla luce della logica della compossibilità per assumere l’eventualità e l’eccezione come nuovi principi ordinatori (Tesi 19).
L’unica proposta di deontologia sino ad ora avanzata che contempla queste cose è la proposta di Trento.
Ribadiamo, che:
– non basta a modello invariato di deontologia, aggiungere un articolo o modificare semplicemente quelli che vietano espressamente di procurare la morte del malato,
– serve ricontestualizzare un apparato concettuale quindi un paradigma coerente in grado di essere a sua volta coerente con le nuove sfide di questa società.
La proposta di Trento, per limitarci all’eccezione, ci spiega come sia necessario introdurre delle norme che garantiscano delle estensioni dell’autonomia del medico, perché, checché se ne dica, l’eccezione, di cui abbiamo parlato sino ad ora, implica una estensione del potere decisionale del medico dalla vita alla morte, cioè per essere pratici, da un limite si passa ad una possibilità. Questa possibilità deve essere descritta con un apparato concettuale coerente (Tesi 20).
Solo per fare qualche esempio, la proposta di Trento prevede:
– accanto al principio di “legalità” quello di “liceità”,
– accanto al comportamento “atteso” del medico quello “consentito”,
– accanto al principio “prescrittivo” (si fa solo quello che è espressamente consentito) il principio “proscrittivo” (si può fare a certe condizioni ciò che non è espressamente vietato),
– la possibilità di derogare dalle norme canoniche e le giustificazioni necessarie per derogare.
E’ evidente che “l’eccezione” rientra nell’ambito concettuale della liceità, del consentito, del proscritttivo, della deroga.
Ma c’è di più, Trento, ridefinendo la deontologia, non più come regole che definiscono condotte professionali pre-costituibili e pre-definibili, ma come regole che ridefiniscono sul campo i modi di essere del medico dedotti a partire da una idea rinnovata di malato (singolare, complesso, contingente, ecc.) introduce un capitolo, del tutto inedito, sulle “modalità epistemiche” che ricordo definiscono il modo di essere medico difronte:
– a ciò che è necessario fare,
– possibile fare,
– realistico fare…
…per giungere a ricavarne almeno tre fondamentali modi di essere del medico:
– corrispondente alla malattia,
– coerente con il malato,
– pragmatico con il risultato.
E’ del tutto evidente che la mia teoria di base, vale a dire la conferma del paradigma ippocratico attraverso l’eccezione, rientra in ciò che per un medico è possibile, pragmatico, realistico fare, davanti a un preciso malato. (Tesi 21)
Conclusione
La Fnomceo considerando tutto, cioè la scarsa probabilità di avere una soluzione parlamentare e l’alta probabilità che la Corte decida sui problemi del suicidio assistito, farebbe bene:
– ad esprimere autonomamente un proprio pensiero,
– a offrire alla Corte la propria elaborazione deontologica,
– a ridefinire ma per davvero il modello di deontologia alla luce delle sfide del terzo millennio.
Tesi 22: è inutile aspettare che la Corte o la politica dicano ai medici come si dovranno comportare nel caso del suicidio assistito, siano i medici a dire alla Corte o alla politica, come loro, in scienza e coscienza cioè con raziocinio e pietà, si comporterebbero.
Ivan Cavicchi
Pubblicato su QuotidianoSanità
Autore: Redazione