L’eventuale incompletezza della cartella clinica è circostanza di fatto che il giudice può utilizzare per ritenere dimostrata l’esistenza di un valido nesso causale tra l’operato del medico e il danno patito dal paziente soltanto quando proprio tale incompletezza abbia reso impossibile l’accertamento del relativo nesso eziologico e il professionista abbia comunque posto in essere una condotta astrattamente idonea a provocare il danno. Il che significa che l’incompletezza della cartella incide soltanto se va ad innestarsi in un contesto specifico che è proprio la fonte della sua rilevanza. E allora, la conformazione della condotta del sanitario nel senso di astratta idoneità alla causazione dell’evento dannoso è logicamente il primo elemento da vagliare, in quanto, se, al contrario, la condotta del sanitario fosse astrattamente – id est assolutamente – inidonea a causarlo, non occorrerebbe alcuna ulteriore ricostruzione fattuale; dopo di che, se si è superato questo stadio di indagine, in secondo luogo l’incompletezza della cartella deve essere tale da impedire la ricostruzione fattuale sul piano concreto, e in particolare nel suo nucleo centrale, identificabile nella connessione materialmente eziologica fra condotta sanitaria commissiva od omissiva ed evento.
FATTI DI CAUSA 1. Con atto di citazione notificato I’l e il 3 dicembre 2008 R. S. B., L. B. e S. B. – rispettivamente vedova e figli di R. B. – convenivano davanti al Tribunale di Venezia l’Asl n. 12 e il Policlinico …. S.p.A. per ottenerne il risarcimento dei danni in relazione alla vicenda sanitaria, avvenuta tra il 2007 e il 2008 presso l’Ospedale di …. e il suddetto Policlinico, del loro congiunto, che era alla fine deceduto. Entrambi i convenuti si costituivano, resistendo. Con sentenza del 15 marzo 2013 il Tribunale condannava l’Asl al risarcimento e rigettava la domanda nei confronti del Policlinico. Avendo proposto appello principale gli S.-B. e appello incidentale la controparte condannata, divenuta nelle more Azienda ULSS n. 12 Veneziana, con sentenza del 6 luglio 2017Ia Corte d’appello di Venezia accoglieva l’appello incidentale, con conseguente rigetto di quello principale. 2. Hanno presentato ricorso gli S.-B., che poi hanno depositato pure memoria. Si è difesa con controricorso la controparte, nel frattempo divenuta Azienda ULSS n.3 Serenissima. RAGIONI DELLA DECISIONE 3. Il ricorso è articolato in quattro motivi. 3.1.1 Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli articoli 1176 e 2697 c.c. riguardo all’ipotizzata origine anteriore al ricovero del defedamento in cui era incorso R. B.: sindrome, questa, che non sarebbe stata inserita in anamnesi nella cartella clinica, per mancata presa d’atto della sua origine iatrogena, a sua volta non descritta nella cartella. Si riporta un rilievo presente nella pagina 15 della sentenza impugnata – “Io stato di defedannento non poteva che essere preesistente al ricovero” – per addurre che, invece, nell’anamnesi contenuta nella cartella clinica (viene inserita nell’argomentazione del motivo un’asserita fotocopia di parte della cartella) non risulterebbe tale preesistenza. E infatti il giudice di prime cure (si riporta pure uno stralcio che sarebbe tratto dalla sua sentenza) avrebbe affermato che dalla documentazione sanitaria non emergeva, prima dell’intervento subito da R. B. nell’Ospedale di ….. (un intervento di ernia inguinale eseguito con anestesia spinale in data 27 settembre 2007, intervento per il quale egli era stato ricoverato), “una adeguata valutazione dell’anamnesi”. La corte territoriale avrebbe acriticamente aderito al ragionamento svolto dal consulente tecnico d’ufficio, per cui nel diario clinico del 4 ottobre 2007 il paziente era stato definito defedato. Si inserisce a questo punto nella illustrazione del motivo la pretesa fotocopia di un certificato del medico di base datata 9 gennaio 2008, attestante che il 3 settembre 2007 il B. si trovava in discrete condizioni di salute, per affermare in seguito che scopo della cartella clinica sarebbe “documentare eventuali preesistenze” anche alla patologia che aveva causato il ricovero, onde, se non vengono rilevate nella cartella, dovrebbe presumersi che non sussistano. Si asserisce poi che nella responsabilità medica si condanna il medico per un nesso di causalità “presunto”, nel senso che, se l’incertezza deriva dalla incompletezza di cartella clinica, il medico è responsabile qualora la sua condotta sia astrattamente idonea a causare il danno; ciò in riferimento alla responsabilità aquiliana. La corte territoriale sarebbe andata in contrasto con quello che sarebbe insegnamento della giurisprudenza di legittimità, laddove invece avrebbe presunto che la malattia che avrebbe portato alla immobilizzazione del B. fosse una malattia preesistente e non iatrogena “solo perché la cartella clinica non ne fa menzione prima del suo riscontro sintomatico con la visita fisiatrica del 4 ottobre”. Avrebbe dovuto confrontarsi quel che constatò il fisiatra con il certificato del medico di famiglia di cui sopra; e questo non costituirebbe una censura di fatto, bensì la denuncia d’un errore logico in cui sarebbe incorsa la corte territoriale nell’affermare preesistente al ricovero la patologia. Il comportamento dei medici o degli anestesisti o degli infermieri nell’operazione o nel periodo posteriore avrebbe quindi determinato la causa del defedamento, rimasta ignota perché non descritta (sarebbe avvenuta o per lesioni nell’anestesia o per lesioni neurologiche chirurgiche o per “caduta ad opera degli infermieri”), per cui si dovrebbe presumere il nesso causale se sussiste un difetto nella cartella clinica. 3.1.2 Il motivo, quindi, mette in discussione l’accertamento della causa del defedamento che avrebbe investito il B., imperniandosi peraltro sulla pretesa incompletezza della cartella clinica, evidentemente quella dell’Ospedale di … in quanto, come si è visto, la censura prende le mosse da una frase estrapolata dalla motivazione della sentenza impugnata sul collocamento temporale della sindrome quale preesistente al primo ricovero, avvenuto nel suddetto ospedale. In effetti la giurisprudenza di questa Suprema Corte è ormai stabilizzata nell’attribuire una incidenza, quanto alla ricostruzione delle vicende sanitarie ai fini di evincerne la sussistenza o meno di responsabilità dei sanitari stessi o della struttura, alla cartella clinica,incidenza tuttavia che non conduce automaticamente all’adempimento dell’onere probatorio da parte di chi adduce essere danneggiato. In tal senso, da ultimo, Cass. sez. 3, 21 novembre 2017 n. 27561 ha ribadito proprio che “l’eventuale incompletezza della cartella clinica è circostanza di fatto che il giudice può utilizzare per ritenere dimostrata l’esistenza di un valido nesso causale tra l’operato del medico e il danno patito dal paziente soltanto quando proprio tale incompletezza abbia reso impossibile l’accertamento del relativo nesso eziologico e il professionista abbia comunque posto in essere una condotta astrattamente idonea a provocare il danno” (così v. pure Cass.4 sez. 3, 12 giugno 2015 n. 12218). Il che significa che l’incompletezza della cartella incide soltanto se va ad innestarsi in un contesto specifico che è proprio la fonte della sua rilevanza. E allora, la conformazione della condotta del sanitario nel senso di astratta idoneità alla causazione dell’evento dannoso è logicamente il primo elemento da vagliare, in quanto, se, al contrario, la condotta del sanitario fosse astrattamente – id est assolutamente – inidonea a causarlo, non occorrerebbe alcuna ulteriore ricostruzione fattuale; dopo di che, se si è superato questo stadio di indagine, in secondo luogo l’incompletezza della cartella deve essere tale da impedire la ricostruzione fattuale sul piano concreto, e in particolare nel suo nucleo centrale, identificabile nella connessione materialmente eziologica fra condotta sanitaria commissiva od omissiva ed evento. Sotto quest’ultimo profilo, la valenza della incompletezza della cartella si pone, attraverso il mezzo presuntivo – su cui, a ben guardare, si riflette in concreto il principio della prossimità della prova -, a favore di chi adduce di essere stato danneggiato, giacché diversamente l’incompletezza verrebbe a giovare proprio a colui che, inadempiendo al proprio obbligo di diligenza (Cass. sez. 3, 18 settembre 2009 n. 20101 precisa che “il medico ha l’obbligo di controllare la competenza e l’esattezza delle cartelle cliniche e dei relativi referti allegati, la cui violazione comporta la configurazione di un difetto di diligenza rispetto alla previsione generale contenuta nell’art. 1176, comma secondo, cod. civ. e, quindi, un inesatto adempimento della sua corrispondente prestazione professionale”; conformi, p. es., Cass. sez. 3, 26 gennaio 2010 n. 1538 e Cass. sez. 3, 5 luglio 2004 n. 12273), tale incompletezza ha creato. Sempre tra gli arresti recenti, quindi, Cass. sez. 3, 31 marzo 2016 n. 6209 insegna che “la difettosa tenuta della cartella clinica da parte dei sanitari non può pregiudicare sul piano probatorio il paziente, cui anzi, in ossequio al principio di vicinanza della prova, è dato ricorrere a presunzioni se sia impossibile la prova diretta a causa del comportamento della parte contro la quale doveva dimostrarsi il fatto invocato. Tali principi operano non solo ai fini dell’accertamento dell’eventuale colpa del medico, ma anche in relazione alla stessa individuazione del nesso eziologico fra la sua condotta e le conseguenze dannose subite dal paziente”; e sulla stessa linea si collocano Cass. sez. 3, 27 aprile 2010 n. 10060, Cass. sez. 3, 26 gennaio 2010 n. 1538, Cass. sez. 3, 21 luglio 2003 n. 11316. 3.1.3 Tanto chiarito alla luce della giurisprudenza meno risalente e comunque, si ripete, definibile consolidata, deve altresì rilevarsi che il motivo non è però pertinente con il thema decidendum conformato dagli stessi attuali ricorrenti con le loro azioni risarcitorie. I congiunti del B., infatti, illustrando nel ricorso la vicenda processuale, danno atto di avere identificato nel loro atto introduttivo come fonte di responsabilità dei soggetti convenuti davanti al Tribunale, a proposito appunto della vicenda sanitaria del congiunto, non la causazione della patologia del B., bensì il preteso difetto di assistenza in ordine alle conseguenze della patologia stessa, fondandosi appunto sulla doglianza che le piaghe da decubito derivate dalla c.d. sindrome da allettamento patita dal B. non sarebbero state fronteggiate in modo idoneo e giungendo poi anche a prospettare che tali devastanti piaghe da decubito fossero state infine la causa della morte del loro congiunto; e ciò è confermato in modo inequivoco dall’avere gli attuali ricorrenti incentrato la doglianza soprattutto (anche se non solo) sull’asserita carenza/inadeguatezza del trattamento infermieristico. Infatti, nella premessa del ricorso (pagina 3), dall’atto di citazione che ha avviato il giudizio in primo grado viene riportato quanto segue: “Quale che sia il nesso eziologico tra il trattamento operatorio o anestesiologico e l’esito successivo, si deve tenere presente il dato oggettivo dell’immobilizzazione … indipendentemente dalla circostanza che la stessa possa avere avuto origine iatrogena … per evento attinente l’atto chirurgico o l’anestesia, o fosse dovuta a cause naturali. L’immobilizzazione fin dal primo ricovero cominciò a produrre i suoi naturali effetti, che potevano e, quindi, dovevano, essere evitati solo con una assidua assistenza infermieristica e che perciò devono considerarsi conseguenza diretta di carenze nell’assistenza infermieristica”. Sempre per quanto emerge dalla premessa del ricorso, in seguito l’atto di citazione aveva affiancato all’asserita carenza di assistenza infermieristica il disinteresse che avrebbero avuto i medici in ordine alla questione del decubito. Così si afferma (pagina 4 del ricorso), dopo un riferimento al diario infermieristico, che “il diario medico sembra essere totalmente disinteressato agli aspetti cutanei e nulla registra salvo quanto incidentalmente segnalato nella lettera di dimissione”; poi si adduce chiaramente (ancora traendo ciò dall’atto di citazione, a pagina 6 del ricorso) che il problema è stato “il progressivo aggravamento di una sindrome da allettamento” con piaghe da decubito; e quindi si riporta ancora dall’atto di citazione (ricorso, pagina 7) l’asserto che “quale fosse stata l’origine della immobilizzazione … se anche non vi fosse stata un’attività iatrogena che avesse causato la paralisi agli arti inferiori, la constatazione della scarsa mobilità e dell’iniziale sindrome da allettamento avrebbe dovuto determinare l’attivazione di interventi … nemmeno tentati”. E infine la premessa del ricorso (a pagina 8) attinge a memoria depositata ex articolo 183 c.p.c. dagli attuali ricorrenti, nella quale ancora si adduce che “si tratta di pura e semplice conseguenza di scarsa cura infermieristica”, a prescindere dalla condizione del B. prima dell’operazione. Il motivo, dunque, introduce una questione nuova, per cui patisce inevitabile inammissibilità. 3.2.1 II secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’articolo 112 c.p. quanto all’omesso esame di un’autonoma “domanda di primo grado” di risarcimento del danno per omessa prevenzione e omesso contrasto della “sindrome da allettamento”(piaghe da decubito). Si riportano le conclusioni di primo grado – ove si sarebbe chiesto anche l’accertamento della responsabilità della causazione della sindrome da allettamento con conseguente condanna al risarcimento – e si adduce di avere “ripetuto” la domanda nel secondo motivo d’appello, riportandone uno stralcio in cui si sarebbe affermato che la sindrome da allettamento sarebbe stata di origine nosocomiale per “inadeguata assistenza medica ed infermieristica”. Vi è pure trascritta un’ordinanza del giudice istruttore di primo grado con cui vengono chiesti chiarimenti al consulente tecnico d’ufficio. Si sostiene poi che vi sarebbe stata una prima domanda, autonoma da una domanda successiva – quella di accertamento che per l’aggravamento di tale sindrome avvenne la morte del B. -. Tale prima domanda non sarebbe stata esaminata dalla corte territoriale, che avrebbe rigettato senza rilevare tale autonomia. A questa domanda autonoma corrisponderebbe comunque nella motivazione della sentenza solo un accenno implicito a pagina 14, laddove si affermerebbe che, nei chiarimenti forniti in primo grado, il consulente tecnico d’ufficio, pur avendo dato atto della denutrizione e della disidratazione in cui si trovava il B., avrebbe ritenuto non addebitabile ai convenuti “carenza assistenziale sotto tale profilo”. Sempre a pagina 14, la corte territoriale rileverebbe inoltre che il B. non poteva essere tenuto in ospedale per trattamento di tipo infermieristico – come qualificato dagli stessi attori -, e quindi erogabile a domicilio; pertanto non avrebbe esaminato la domanda relativa a “contrazione, aggravamento e mancata guarigione” della sindrome da allettamento, con violazione dell’articolo 112 c.p.c. La corte territoriale, in effetti, dimostrerebbe di non avere svolto “attenta lettura” della consulenza tecnica d’ufficio, perché si riferirebbe soltanto alla pagina 38 della consulenza, laddove questa comincia ad occuparsi della questione dieci pagine prima (cioè dalla pagina 28). Si riporta quel che sarebbe il testo della consulenza tecnica al riguardo (nelle pagine 38-43 del ricorso), ribadendo infine che la domanda in questione non sarebbe stata esaminata. 3.2.2 In primo luogo deve rilevarsi che, alla luce di quanto la premessa del ricorso ha riportato a proposito del contenuto dell’atto introduttivo, come si è riassunto in relazione alla prima censura del ricorso, questa ulteriore censura deve essere interpretata nel senso che la prima domanda, ovvero quella che sarebbe stata oggetto di omessa pronuncia, non includeva la causazione della sindrome da allettamento, bensì atteneva al mancato contrasto a questa sindrome, così da renderne possibile l’aggravamento e impossibile invece la guarigione. Si tratta, dunque, ancora del trattamento infermieristico in primo luogo e, in secondo luogo, medico a fronte dell’insorgenza delle piaghe da decubito: trattamenti che, ad avviso del ricorrente, avrebbero integrato inadempimento, in ultima analisi, degli obblighi sanitari. Esistono effettivamente due domande (si veda la pagina 34 del ricorso, che trova conferma anche nel contenuto della sentenza del Tribunale): la prima, appunto, relativa alla causazione di “malattia ingravescente … dal ricovero per l’intervento fino alla morte, consistente nella progressiva devastazione della pelle e nella sindrome da allettamento e nelle malattie generali che l’hanno colpito di conseguenza”, per cui si chiede condanna al risarcimento del danno biologico e del danno morale “che hanno colpito il signor B.”, nonché al risarcimento del danno morale subito dai congiunti; e la seconda, relativa all’accertamento che il B. sarebbe deceduto per l’aggravamento di tale malattia, con conseguente condanna al risarcimento del danno patito dai congiunti. Si tratta, quindi, di due domande distinte, anche se la seconda è logicamente uno sviluppo degli eventi dannosi posti a base della prima. La mancata pronuncia sulla prima domanda, ovvero la violazione dell’articolo 112 c.p.c., non sussiste. Invero, anche se la motivazione della sentenza impugnata ad un certo punto sembra fondere la risposta alla prima domanda con la risposta alla seconda domanda – il che peraltro difficilmente sarebbe stato del tutto inevitabile, proprio perché la seconda domanda, come si è appena rilevato, si basa sullo sviluppo dei fatti della prima -, non è sostenibile che la prima domanda non sia stata esaminata, come, a ben guardare, riconosce, almeno in parte, lo stesso motivo in esame laddove riporta passi della motivazione della sentenza ad essa relativi. In quella che nella sentenza viene numerata come pagina 10 (per avere erroneamente pretermesso la corte territoriale di numerare le pagine dell’intestazione e delle conclusioni delle parti), il giudice d’appello afferma che “circa l’assistenza” (espressione sintetica, ma inequivocamente riferita all’assistenza all’allettato per le piaghe da decubito) dalla pagina 35 della consulenza tecnica d’ufficio emerge (la corte territoriale, in verità, impropriamente afferma che il consulente “ha accertato”) che “l’assistenza terapeutico/riabilitativa posta in essere negli ospedali … e da parte del Servizio Infermieristico dell’ULSS 12 non è suscettibile di alcun rilievo critico”; e nella pagina seguente il giudice d’appello fa poi riferimento a chiarimenti resi dal consulente tecnico d’ufficio coinvolgenti gli elementi della denutrizione, disidratazione e immobilizzazione. Dopodiché la corte territoriale argomenta pure sulla durata del ricovero all’Ospedale di …. e sul fatto che proprio per la sua condizione il paziente fu inviato al Policlinico ….. anziché a casa. Non è quindi sostenibile – a prescindere, è ovvio, dal contenuto della pronuncia, che d’altronde si è arrestato nello stadio fattuale, non direttamente sindacabile dal giudice di legittimità – che la Corte d’appello sia incorsa in violazione dell’articolo 112 c.p.c. non pronunciandosi sulla prima domanda. Il motivo, pertanto, risulta infondato. 3.3.1 Il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli articoli 1176, 1218 e 1228 c.c. riguardo “l’ipotizzata inesigibilità di un comportamento clinico di efficiente prevenzione e contrasto” della sindrome da allettamento. Si riproducono fotografie del B. che sarebbero state scattate dai congiunti dopo la sua ultima dimissione, e si argomenta nel senso che le piaghe da decubito da cui era affetto denuncerebbero l’inadeguata assistenza infermieristica. Si riportano pure passi tratti da quella che il ricorso definisce pagina 14 della sentenza impugnata – in realtà, pagina 11, per omessa numerazione delle prime tre pagine come sopra rilevato -, ponendovi letteralmente a fianco, come nello schema di un bilancio, le critiche ad essi mosse dagli ricorrenti (pagine 46-48 del ricorso) e successivamente quelle che vengono definite pagine 39-31 (sic) della consulenza tecnica d’ufficio, per ribadire che il B. sarebbe stato dimesso senza essere guarito pur costituendo la sindrome da allettamento una malattia. 3.3.2 Si tratta, evidentemente, di un motivo inammissibile, poiché persegue dal giudice di legittimità una revisione sotto il profilo del merito del contenuto della sentenza impugnata. Il ricorso per cassazione non dà luogo ad un terzo grado di giudizio nel senso pieno del termine, bensì genera un controllo tassativamente delimitato, che non consente di riaprire l’accertamento fattuale come invece – nei limiti del devoluto, ovvero di quanto gli è denunciato dall’appellante – può e deve fare il giudice d’appello. 3.4.1 n quarto motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli articoli 2697, 1218 e 1228 c.c. per non essere stato riconosciuto il nesso causale tra le piaghe di decubito, lo shock settico e la morte del B.. In contrasto con quanto avrebbe affermato la corte territoriale (a pagina 14 della sentenza impugnata, secondo i ricorrenti; rectius, a pagina 11) la consulenza tecnica d’ufficio non sarebbe stata categorica nell’affermare che le piaghe da decubito non avrebbero avuto “un ruolo” nella causazione della morte del B.. Si riporta, in particolare, un passo della relazione della consulenza (che sarebbe tratto dalla sua pagina 35) e lo si commenta per dedurne che non sarebbe certo che il B. morì per shock settico derivante da estesissime piaghe da decubito in quanto l’ospedale avrebbe “accuratamente” evitato di “fare diagnosi”; e il consulente tecnico rileverebbe altresì l’impossibilità di effettuare una diagnosi certa quale conseguenza della mancanza di autopsia. Pertanto mancherebbe la prova del nesso causale nella responsabilità contrattuale “per carenze diagnostiche del debitore” e per omesso esame necessario per la certezza diagnostica. Nella responsabilità contrattuale l’onere della prova spetterebbe all’inadempiente, e il criterio di “vicinanza” alla prova consentirebbe di “risolvere le questioni di nesso causale” come insegna la giurisprudenza di questa Suprema Corte, anche con l’intervento nomofilattico di S.U. n. 577/2008. Infatti dall’articolo 1218 c.c. si dovrebbe desumere che l’unica prova liberatoria, gravante sul debitore inadempiente, è l’impossibilità oggettiva della prestazione. Per il corretto riparto dell’onere della prova nel caso di incertezza di causa della morte, l’incertezza avrebbe dovuto gravare sul debitore, che avrebbe dovuto tenere la cartella clinica in modo tale da impedire l’insorgenza di dubbi; inoltre il riparto dell’onere della prova porrebbe la responsabilità a carico dell’ospedale perché l’incertezza sulla causa della morte deriverebbe dalla mancata autopsia. 3.4.2 Assorbente ogni questione di diritto suscitata dal motivo è il rilievo che questo si fonda su una asserita mancanza di certezza della causa della morte del B.. In realtà, pur con una motivazione assai scarna, la corte territoriale manifesta inequivocamente di ritenere certa l’origine del decesso: afferma infatti a pagina 11 della motivazione della sentenza impugnata che dalla consulenza tecnica d’ufficio, “congruamente motivata sulla base di una accurata analisi di tutti gli elementi disponibili”, emerge che “causa della morte non fu un’infezione delle piaghe da allettamento … bensì uno scompenso cardiocircolatorio acuto e conseguente edema polmonare”. Dunque, il giudice d’appello ha espletato il suo accertamento fattuale, e il ricorso per cassazione non genera, come già sopra si evidenziava, un terzo grado di merito. Il motivo, quindi, non può condurre oltre – le argomentazioni relative al riparto dell’onere probatorio avrebbero rilievo soltanto se, appunto, il giudice non avesse accertato la causa della morte -, ma deve attestarsi sulla censura che muove all’accertamento del giudice d’appello. Non condividere un accertamento fattuale, d’altronde, non consente di trasformare un accertamento in una manifestazione di dubbio. Il giudice d’appello ha dichiarato con certezza quale ha ritenuto essere stata la causa del decesso del B.; tentare di inficiare il suo accertamento, sul presupposto che non sia fondato/definitivo, conduce anche questo motivo alla inammissibilità. 4. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato, sussistendo peraltro le ragioni per compensare integralmente le spese, vista la peculiarità del caso e l’assoluta difformità delle valutazioni effettuate nelle due sentenze di merito. Sussistono ex articolo 13, comma 1 quater, d.p.r. 115/2012 i presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo. P.Q.M. Rigetta il ricorso compensando le spese processuali.