La Corte di Cassazione ha evidenziato che “il medico apicale “delegante” non si libera completamente della propria originaria posizione di garanzia, conservando una posizione di vigilanza, indirizzo e controllo sull’operato dei delegati” affermando ulteriormente che ci sarebbe un “potere – dovere in capo al dirigente medico in posizione apicale di dettare direttive generiche e specifiche, di vigilare e di verificare l’attività autonoma e delegata dei medici addetti alla struttura, ed infine il potere residuale di avocare a sé la gestione dei singoli pazienti.
FATTO E DIRITTO 1. Con ordinanza resa il 16 maggio 2019, il Tribunale di R. C., in parziale accoglimento dell’appello proposto dal Pubblico ministero avverso il provvedimento di rigetto di richiesta di misura interdittiva emesso dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di L., ha applicato a D. C. la misura della sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio o servizio, per la durata di sei mesi, in relazione a un’imputazione provvisoria di omicidio colposo in regime di cooperazione colposa con altri indagati. Al C., medico ospedaliero, nella sua qualità di Direttore della SOC di Pneumologia dell’Ospedale di L., si addebita di avere fornito un contributo eziologicamente rilevante al decesso di G. G., correlato ai molteplici errori diagnostici e terapeutici, analiticamente indicati nell’imputazione provvisoria riportata nell’ordinanza, attribuiti ai dottori G. C., D. N., A. S. e G. V. (dirigenti medici assegnati alla suddetta Struttura) nella gestione del sunnominato paziente, che era stato ricoverato presso il suddetto Presidio ospedaliero in quanto affetto da broncopolmonite dal 24 gennaio al 4 febbraio 2018, data in cui il G. decedeva per il sopraggiungere di uno shock settico. Si imputa in particolare al C. di non avere esercitato le proprie funzioni di indirizzo e di vigilanza sulle prestazioni dei medici da lui dipendenti, omettendo di impartire direttive e istruzioni terapeutiche adeguate al caso concreto e non controllando l’attuazione delle stesse, di tal che le suddette condotte omissive, secondo l’assunto accusatorio, non avrebbero impedito la commissione dei richiamati errori diagnostico-terapeutici ed avrebbero così avuto un effetto concausale nel prodursi dell’evento mortale. Nello sviluppo della motivazione dell’ordinanza emessa ex art. 310 cod. proc. pen., il Tribunale del Riesame dà atto che il G.i.p., nel provvedimento appellato, aveva bensì riconosciuto la sussistenza di un quadro indiziario grave a carico del C., che aveva omesso di impartire disposizioni organizzative e che durante il ricovero del G. era stato presente in reparto nei giorni 25 e 31 gennaio e 1 febbraio (ciò che gli avrebbe consentito di effettuare i necessari controlli sul quadro diagnostico-terapeutico del paziente); ma aveva escluso la configurabilità di esigenze cautelari, evidenziando da un lato la natura colposa dell’addebito (che, letta unitamente all’incensuratezza dell’imputato, renderebbe il fatto meno sintomatico di una personalità incline a delinquere), dall’altro il fatto che l’applicazione della misura interdittiva nel caso di specie finirebbe per assumere una valenza sanzionatoria, atteggiandosi a strumento d’impulso di un’attività amministrativa, così che detta misura ne risulterebbe snaturata nella sua funzione cautelare. Di contro, secondo il Tribunale del Riesame, le esigenze cautelari sono sussistenti e tali da evidenziare un pericolo di reiterazione di delitti della stessa indole di quello per cui si procede, ravvisabile nel fatto che a carico del C. vi era già stata un’analoga richiesta di misura cautelare interdittiva in relazione ad un caso analogo e che nei confronti dello stesso indagato penderebbero diversi procedimenti penali relativi all’esercizio delle sue funzioni: ciò che evidenzia la pericolosità del prevenuto, anche in relazione alla prossimità temporale dei fatti e all’assenza di un vaglio critico circa la correttezza del proprio operato. 2. Avverso la prefata ordinanza ricorre il C., con atto articolato in tre motivi di lagnanza. A detti motivi si é poi aggiunto un motivo nuovo, depositato in data 22 novembre 2019. 2.1. Con il primo motivo il deducente denuncia violazione dell’art. 310 cod. proc. pen., in relazione al particolare atteggiarsi dell’effetto devolutivo nel procedimento d’appello cautelare: effetto devolutivo che, nella specie, non é pieno, ma é parziale, ossia delimitato alla materia portata all’esame del giudice dell’impugnazione e, al più, alle parti che, benché non attinte dal gravame, sono tuttavia così intimamente connesse a quelle censurate da renderne logicamente impossibile una loro considerazione isolata; ma non può comprendere le questioni non sviluppate dalla parte impugnante e, per ciò che in particolare qui interessa, le esigenze di cautela. Da ciò consegue secondo il ricorrente l’inammissibilità dell’appello, che era stata eccepita dalla difesa e che non é stata dichiarata dal Collegio adito. 2.2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al quadro indiziario. Dopo avere richiamato le censure mosse al C. sul piano dei gravi indizi di colpevolezza, confermate dal Tribunale del Riesame, il deducente sottolinea che la sua presenza in reparto nei giorni 25/1, 31/1 e 1/2 non gli aveva consentito di verificare le condizioni del paziente perché nessuno dei medici coinvolti nella vicenda (come dagli stessi confermato agli inquirenti) ebbe mai a riferire al C. alcuna delle criticità relative al ricovero del G.; ed infatti il C. non venne mai in contatto con il paziente. Quanto alle regole cautelari che il C. avrebbe violato come primario, il richiamo giurisprudenziale contenuto nell’ordinanza impugnata offre, in realtà, un quadro ben diverso rispetto a quello fatto proprio dal Collegio adìto, atteso che in quell’occasione (Sez. 4, sentenza n. 18334/2018) la Suprema Corte aveva escluso la penale responsabilità del primario che – come nel caso del C. – aveva affidato il paziente alle cure dei medici subordinati, senza mai visitarlo e senza mai essere coinvolto direttamente nella gestione del caso clinico; perciò, sempre secondo la Suprema Corte, non sussisteva in quel caso (come non sussiste nel C.) alcuna ipotesi di culpa in vigilando. Non può esigersi dal primario ospedaliero, conclude il ricorrente, l’assunzione in carico della cura di tutti i malati, né un obbligo di controllo nei confronti dei medici subordinati tale da non consentire alcun margine di affidamento sulla correttezza del loro operato. 2.3. Con il terzo motivo di ricorso si denuncia vizio di motivazione in relazione alle esigenze cautelari. Il deducente evidenzia che, erroneamente, il Tribunale del Riesame ha fatto riferimento a una precedente richiesta cautelare a carico del C. per un caso analogo (in danno del paziente R. C.), senza considerare che in relazione a tale vicenda il G.i.p. procedente ha rigettato la richiesta del P.M. per carenza del quadro indiziario; e, quanto ai procedimenti penali a carico del C. e che, secondo il Collegio adìto, sarebbero relativi all’esercizio delle sue funzioni (e che in realtà si riferirebbero a vicende affatto diverse da quella per cui si procede), il deducente allega il certificato dei carichi pendenti relativo all’indagato, da cui si ricava che il C. é stato prosciolto da tutti gli addebiti perché il fatto non sussiste; l’unico fatto per il quale egli si trova tuttora sottoposto ad indagini é quello relativo all’ipotesi di omicidio colposo in danno del R., per la quale però, come si é visto, non é stato ravvisato dal G.i.p. il requisito della gravità indiziaria ai fini dell’applicazione di misura cautelare. 2.4. Nel motivo nuovo da ultimo depositato, che riprende alcuni argomenti trattati nel secondo motivo principale, il ricorrente lamenta violazione di legge e vizio di motivazione in riferimento all’esigibilità della condotta ritenuta doverosa da parte del direttore di una struttura sanitaria complessa, quale era il C.: a sostegno vengono richiamate alcune fonti normative e alcuni precedenti giurisprudenziali, riferiti anche ai criteri di attribuzione della responsabilità e delle posizioni di garanzia nell’ambito dell’équipe medica, con particolare riguardo al soggetto apicale dell’équipe. 1. Il primo motivo di ricorso é manifestamente infondato. E’ infatti necessario muovere dal principio in base al quale, in tema di misure cautelari personali, l’impugnazione del pubblico ministero avverso il provvedimento di diniego di emissione dell’ordinanza cautelare per l’insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza devolve al giudice di appello la verifica di tutte le condizioni richieste per l’adozione delle misure cautelari e dunque questi, qualora intenda accogliere l’impugnazione, é tenuto a pronunziarsi anche in ordine alla configurabilità delle esigenze cautelari non considerate dal primo giudice (Sez. 6, Sentenza n. 17749 del 01/03/2017, Friggi, Rv. 269853; Sez. 6, Sentenza n. 10032 del 03/02/2010, Picchi e altri, Rv. 246283). Nella specie tale principio vale a fortiori, giacché il G.i.p., nella primigenia ordinanza, aveva riconosciuto la sussistenza del quadro indiziario ed aveva invece escluso la sussistenza delle esigenze cautelari; di tal che il Pubblico ministero, nel proporre appello, non poteva che censurare proprio quest’ultima decisione, con argomenti che l’ordinanza del Tribunale del Riesame oggi gravata enuncia in modo adeguato, riconoscendone la fondatezza, e che comunque risultano caratterizzati dalla necessaria specificità. 2. Può dirsi infondato, quanto meno allo stato, il secondo motivo di ricorso, relativo al quadro indiziario; e, con esso, si ritiene infondato anche il motivo nuovo. Stando alle circostanze di fatto accertate nel giudizio cautelare, risulta che il C. non aveva adeguatamente programmato il lavoro dei collaboratori e non aveva controllato l’ottemperanza ai criteri di organizzazione e di assegnazione a sé o ad altri medici dei pazienti ricoverati (ciò che, secondo il Collegio adito, sarebbe stato del resto confermato dallo stesso C. in sede di interrogatorio), omettendo in specie di adempiere agli obblighi sia di indirizzo terapeutico, sia di verifica e vigilanza sulle prestazioni di diagnosi e cura affidate ai medici da lui delegati. Sul punto, non colgono nel segno le censure del ricorrente in ordine al fatto che egli era stato presente in reparto unicamente nei giorni 25 e 31 gennaio e 10 febbraio 2018, atteso che in quei giorni egli – come correttamente osservato dal Tribunale del Riesame – avrebbe potuto e dovuto ottemperare ai compiti di verifica e di vigilanza a lui affidati. Né coglie nel segno quanto rilevato dal ricorrente in riferimento ai riconoscimenti professionali a lui attribuiti sul piano delle capacità organizzative, essendo necessario accertare se tali capacità fossero state dimostrate in occasione della vicenda per cui é giudizio, ciò che sembra escluso sulla base degli atti. É lo stesso percorso argomentativo della sentenza Sez. 4, n. 18334 del 21/06/2017, dep. 2018, De Luca, evocata tanto dal Tribunale del Riesame quanto dal ricorrente, a precisare – richiamando altra precedente giurisprudenza – che «il medico in posizione apicale con l’assegnazione dei pazienti opera una vera e propria «delega di funzioni impeditive dell’evento» in capo al medico in posizione subalterna (Sez. IV, 28 giugno 2007, n. 39609, Rv. 237832, in cui si legge che gli obblighi di garanzia connessi all’esercizio della organizzazione ospedaliera consentono al medico in posizione apicale di trasferire al medico subordinato funzioni mediche di alta specializzazione o la direzione di intere strutture semplici (con riferimento al medico in posizione intermedia) oppure la cura di singoli pazienti ricoverati nella struttura (con riferimento al medico in posizione iniziale). Ovviamente anche attraverso detta delega il medico apicale “delegante” non si libera completamente della propria originaria posizione di garanzia, conservando una posizione di vigilanza, indirizzo e controllo sull’operato dei delegati. Obbligo di garanzia che si traduce, in definitiva, nella verifica del corretto espletamento delle funzioni delegate e nella facoltà di esercitare il residuale potere di avocazione alla propria diretta responsabilità di uno specifico caso clinico». E’, poi, la stessa sentenza n.18334/2018 a chiarire che la responsabilità del primario ospedaliero é esclusa «allorché il medico apicale abbia correttamente svolto i propri compiti di organizzazione, direzione, coordinamento e controllo e, ciononostante, si verifichi un evento infausto causato da un medico della propria struttura»; con ciò implicitamente affermando a contrario che la responsabilità é ipotizzabile allorché il medico apicale non abbia svolto in modo adeguato quei compiti. Ma, ancor più chiaramente – e facendo specifico riferimento alle regole cautelari ricavabili dall’ordinamento ospedaliero vigente – si esprime in proposito Sez. 4, Sentenza n. 47145 del 29/09/2005, Sciortino e altri, Rv. 232843, laddove afferma che il dirigente medico ospedaliero é titolare di una posizione di garanzia a tutela della salute dei pazienti affidati alla struttura, perché i decreti legislativi n. 502 del 1992 e n. 229 del 1999 di modifica dell’ordinamento interno dei servizi ospedalieri hanno attenuato la forza del vincolo gerarchico con i medici che con lui collaborano, ma non hanno eliminato il potere – dovere in capo al dirigente medico in posizione apicale di dettare direttive generiche e specifiche, di vigilare e di verificare l’attività autonoma e delegata dei medici addetti alla struttura, ed infine il potere residuale di avocare a sé la gestione dei singoli pazienti. Sul piano del quadro normativo, peraltro, non riverbera alcun effetto sulla fattispecie in esame quanto stabilito dall’art. 590-sexies cod. pen., introdotto dall’art. 6 della legge n. 24/2017 (c.d. legge Gelli – Bianco): invero, nella specie gli addebiti mossi al C. sembrano connotarsi essenzialmente in termini di negligenza, piuttosto che di imperizia; e comunque, per quanto si é detto, non potrebbero dirsi rispettate nel caso di specie le raccomandazioni previste dalle linee guida adeguate alla specificità del caso concreto, né tanto meno le buone pratiche clinico-assistenziali. Con la conseguenza che non é ipotizzabile neppure un innalzamento della soglia di gravità della colpa penalmente rilevante rispetto agli standard ordinari. Si é peraltro detto poc’anzi che il motivo in esame risulta infondato “allo stato”, nel senso che la motivazione dell’ordinanza impugnata si sottrae alle specifiche censure mosse dal ricorrente in tale motivo, quanto meno tenuto conto della natura interinale dello scrutinio cautelare. E’ però chiaro che, una volta accertato l’ipotizzato scostamento della condotta del C. rispetto a quanto stabilito dalle regole cautelari che delineano la sua posizione di garanzia, si porrebbe l’ulteriore problema – di fatto non considerato, non solo nell’ordinanza impugnata, ma neppure nel ricorso, a parte un breve cenno nel motivo nuovo – dell’accertamento del rilievo causale attribuito alla condotta omissiva tenuta dal C. rispetto all’evento letale di cui egli, a titolo di cooperazione colposa, é chiamato a rispondere. 3. E’, invece, certamente fondato il terzo motivo di doglianza. Come correttamente posto in rilievo dal ricorrente, le esigenze cautelari correnti nel caso di specie vengono indicate dal Tribunale reggino in un rischio di reiterazione di reati della stessa indole che risulta fondato essenzialmente su alcuni precedenti storici riguardanti il C.: ossia una richiesta di misura cautelare per una vicenda descritta come analoga, occorsa nel 2017; e alcuni procedimenti penali che hanno riguardato il C. per addebiti relativi alla sua posizione professionale. E’ da tali elementi, in sostanza, che il Collegio adìto ricava gli argomenti per ravvisare nella specie la pericolosità della condotta dell’indagato, tale da rendere necessaria – in accoglimento della mozione del P.M. – l’applicazione della misura interdittiva oggetto dell’odierno ricorso. Nondimeno, il ricorrente ha dimostrato per tabulas (allegando al ricorso la necessaria documentazione) che, in relazione alla precedente richiesta cautelare, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di L. ha emesso, in data 31 luglio 2018, ordinanza di rigetto di tale richiesta, per mancanza del quadro indiziario a carico del C.; e che, per il resto, dal certificato dei carichi pendenti, alla data del 19 luglio 2019, risultano pendere a carico del prevenuto processi per reati di indole diversa da quella per cui si procede. Di tal che, per quanto attiene agli addebiti per reati della stessa indole, a parte quello per cui si procede e quello relativo alla richiesta – rigettata – di misura cautelare (per il decesso del paziente R. C.), i relativi procedimenti risultano definiti con sentenze di non luogo a procedere perché il fatto non sussiste. Non può ricavarsi da tali elementi – di fatto gli unici valorizzati dal Collegio adito sul piano delle esigenze cautelari sottese alla misura interdittiva oggetto di lagnanza, oltretutto a distanza di un arco temporale ormai non trascurabile dai fatti per cui si procede – un rischio di reiterazione di reati della medesima indole ex art. 274, comma 1, lettera c), cod. proc. pen.. 4. Conseguentemente l’ordinanza impugnata va annullata con rinvio al Tribunale di R. C. per nuovo esame.