La Cassazione ha affermato “l’esclusione di un nesso causale tra quell’attività professionale e la complessiva finale patologia, come residuata e caratterizzata da una eziopatologia multifattoriale per la presenza di una pluralità di fattori predisponenti e perpetuanti, nella quale il pure imperito trattamento riabilitativo non ha avuto altro ruolo se non quello di uno dei possibili fattori scatenanti.”
FATTO E DIRITTO. La domanda risarcitoria per responsabilità professionale medica proposta da S. Z. davanti al Tribunale di F. – con atto di citazione notificato il 23/11/2004 ed all’esito di accertamento tecnico preventivo – contro gli odontoiatri S. M. ed E. St. fu, espletata anche una consulenza tecnica di ufficio, accolta limitatamente ad un’inabilità temporanea parziale dovuta all’erroneità dei trattamenti intrapresi per la cura della patologia preesistente e poi esitata in un disordine cranio mandibolare da sublussazione anteriore e irriducibile dei menischi, collasso posteriore del morso e conseguenti sintomatologia algica cronica e importanti deficit funzionali; l’appello principale della danneggiata – a cui favore il primo giudice aveva liquidato € 15.000 oltre accessori e spese – e quelli incidentali dei professionisti sono stati respinti dalla corte territoriale, la quale ha condiviso la valutazione del c.t.u. di insussistenza di un nesso causale tra la patologia residuata in capo alla Z. e le pratiche mediche poste in essere dalle sue controparti, solo riconoscendone l’imprudenza e l’imperizia nella tentata riabilitazione per il periodo di circa due anni di durata delle cure da loro prestate; per la cassazione di tale sentenza, pubblicata il 16/01/2018 col n. 144, ricorre, con atto articolato su cinque motivi e notificato a partire dal 12/07/2018, S. Z.; degli intimati notifica a mezzo p.e.c. controricorso lo S., mentre il M. non espleta qui attività difensiva; e, per l’adunanza camerale del 17/03/2020, rifissata al 26/06/2020, le parti producono memorie ai sensi del penultimo periodo dell’art. 380-bis.1 cod. proc. civ., come Ric. 2018 n. 22965 sez. 53 – ud. 26-06-2020 -2- inserito dal comma 1, lett. f), dell’art. 1-bis d.l. 31 agosto 2016, n. 168, conv. con modif. dalla I. 25 ottobre 2016, n. 197; considerato che il ricorso non può trovare accoglimento; in particolare, col primo motivo, formulato ai sensi del n. 5 dell’art. 360 cod. proc. civ., la ricorrente si duole del mancato accoglimento dell’istanza di rinnovazione della c.t.u., anche sotto il profilo della manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione sul punto, per essere stata comunque riconosciuta alla maldestra terapia riabilitativa posta in essere il ruolo di un fattore scatenante e poi negato un suo ruolo almeno concausale; tale motivo è inammissibile, perché non identifica nemmeno le ragioni che avrebbero dovuto sorreggere la rinnovazione della c.t.u. nei termini in cui erano stati dedotti con l’appello e, dunque, non individua il fatto su cui si sarebbe omesso l’esame a la motivazione; e tanto esime dal rilievo della sua infondatezza, perché la corte territoriale ha chiaramente riferito i danni, di cui ha riconosciuto la risarcibilità a carico dei professionisti, proprio ed appunto all’imperita estrinsecazione dell’attività professionale nel periodo di tentata terapia riabilitativa, ma poi ampiamente motivando, in condivisione dei risultati e degli apprezzamenti del consulente tecnico di ufficio, sull’esclusione di un nesso causale tra quell’attività professionale e la complessiva finale patologia, come residuata e caratterizzata da una eziopatologia multifattoriale per la presenza di una pluralità di fattori predisponenti e perpetuanti, nella quale il pure imperito trattamento riabilitativo non ha avuto altro ruolo se non quello di uno dei possibili fattori scatenanti; in tal modo è in fatto accertata, senza alcuno dei gravissimi vizi motivazionali soli a rilevare dopo Cass. Sez. U. 8053 del 2014, l’assenza di un collegamento causale tra condotta dei sanitari e danni permanenti non riconosciuti appunto come risarcibili, in Ric. 2018 n. 22965 sez. 53 – ud. 26-06-2020 -3- quanto postumi permanenti diversi e ulteriori rispetto alla patologia durante la protratta e pure imperita terapia riabilitativa; col secondo motivo la ricorrente lamenta, invocando il n. 5 dell’art. 360 cod. proc. civ., l’«avvallo tautologico» delle conclusioni del c.t.u., oltre che l’omesso esame della documentazione medica anche sotto il profilo del travisamento dei fatti, o dell’illogicità o mera apparenza della motivazione; anche tale motivo è inammissibile, prima che infondato, poiché non identifica il motivo di appello nei termini in cui era stato proposto e il fatto su cui si sarebbe omessa la motivazione, ma pure in quanto evoca risultanze istruttorie senza rispettare l’art. 366 n. 6 cod. proc. civ. e postula rivalutazione della quaestio facti; del resto, l’esame della consulenza tecnica vi è stato e non è quindi stato omesso, mentre il nesso causale non è stato escluso in assoluto, ma limitatamente allo stato patologico complessivamente residuato, per essere riconosciuto almeno per l’inabilità temporanea causata dall’erogazione di terapie inutili o inadeguate; mentre ogni altro argomento sull’entità o sul grado della colpa professionale non può certo ricondursi, riguardando una questione giuridica e non un fatto in senso stretto, al vizio specificamente denunciato, a parte il fatto che, escluso il nesso, il grado della colpa non rileverebbe in alcun modo; col terzo motivo la Z. denuncia «violazione e falsa applicazione degli artt. 5, 6 e 7 della legge 8/3/2017 n. 24 …, oltre che illogicità, contraddizione intrinseca e omesso esame circa un fatto rilevante»: sul punto rilevando che non erano state seguite le linee guida e comunque negando la genericità della prospettazione di una perdita di chance; il motivo è infondato, alla stregua della giurisprudenza di legittimità che ha escluso l’applicabilità retroattiva della normativa sopravvenuta e specificamente invocata dalla ricorrente (Cass.08/11/2019, n. 28811; Cass. 11/11/2019, n. 28894); e, mentre Ric. 2018 n. 22965 sez. 53 – ud. 26-06-2020 -4- sul profilo della mancata valutazione della perdita di chance il ricorso inammissibilmente manca di indicare chiaramente dove e come la relativa argomentazione sarebbe stata puntualmente sottoposta al giudice del merito, comunque è dirimente l’irrilevanza del grado della colpa una volta escluso il nesso causale; col quarto motivo la ricorrente si duole di omesso esame della documentazione medica agli atti, anche sotto il profilo di illogicità o mera apparenza o intrinseca contraddittorietà della motivazione, oltre che di omessa valutazione di fatti rilevanti, analiticamente ripercorse le prove – rubricate fino a “q” – sulla cui base ricostruire il nesso eziologico invece escluso; il motivo non può essere esaminato nel merito, tendendo a rivalutare il peso, unitario e complessivo, attribuito dal giudice del merito a ciascun elemento probatorio, ciò che implica la non qui ammessa (tanto corrispondendo a consolidato insegnamento, su cui, per tutte, v. Cass. Sez. U., n. 20412 del 2015, ove ulteriori riferimenti) pretesa di una rivalutazione del merito, neppure sussistendo alcuni dei soli gravissimi vizi motivazionali ormai censurabili in questa sede (secondo la ricostruzione adottata da questa Corte fin da Cass. Sez. U. nn. 8053, 8054 e 19881 del 2014); infine, col quinto motivo è denunciata «violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c.», poiché le spese mediche escluse dalla corte territoriale erano provate da documenti posteriori alla data di maturazione delle conclusioni istruttorie e quindi è errato escluderle perché oggetto di sola conclusione in atto di appello e carenti di allegazione in primo grado; il motivo è inammissibile, sia per radicale difetto in ricorso degli elementi in base ai quali ricostruire dove e come la relativa specifica questione processuale sarebbe stata sottoposta al giudice di appello e comunque perché nemmeno si deduce per quale motivo non si sia invocata una rimessione in termini fin dal primo grado o dalla prima Ric. 2018 n. 22965 sez. 53 – ud. 26-06-2020 -5- difesa successiva alla formazione del documento probatorio o non se ne sia impugnato un eventuale rigetto; di conseguenza, infondato almeno il terzo motivo ed inammissibili gli altri, il ricorso va rigettato, con condanna della soccombente ricorrente alle spese del giudizio di legittimità; infine, poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono i presupposti processuali (a tanto limitandosi la declaratoria di questa Corte: Cass. Sez. U.20/02/2020, n. 4315) per dare atto – ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, che ha aggiunto il comma 1-quater all’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. n. 115 del 2002 (e mancando la possibilità di valutazioni discrezionali: tra le prime: Cass. 14/03/2014, n. 5955; tra le innumerevoli altre successive: Cass. Sez. U. 27/11/2015, n. 24245) – della sussistenza dell’obbligo di versamento, in capo a parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per la stessa impugnazione; p. q. m. rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese in favore del controricorrente, liquidate in C 3.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in C 200,00 ed agli accessori di legge.