Consiglio di Stato Sezione Terza SENT. N. 06963/2020 – Certificazioni sanitarie

Il Consiglio di Stato ha affermato che “le certificazioni mediche sono atti connotati da discrezionalità tecnica, basati su nozioni scientifiche e su dati di esperienza tecnica, con conseguente insindacabilità degli stessi, innanzitutto da parte dell’Amministrazione datrice di lavoro, fatta eccezione per le ipotesi di manifesta irragionevolezza, di palese travisamento dei fatti, di omessa considerazione di circostanze di fatto rilevanti, nonché di scorrettezza dei criteri tecnici e del procedimento.”

FATTO E DIRITTO 1. Il signor -OMISSIS- è un Vigile del Fuoco in servizio presso il Comando provinciale dei Vigili del Fuoco di P.. Sin dal 2005, in occasione degli accertamenti sanitari per il rinnovo biennale del “libretto individuale sanitario e di rischio”, l’Ufficio Sanitario della R.F.I. s.p.a. di F. ha riscontrato nei suoi confronti un eccesso ponderale e una riduzione del visus naturale e, dal 2007, è stata, altresì, individuata la perforazione del timpano destro, con percezione della voce a 4 metri ed ipercolesterolemia. Nonostante tali riscontri, l’interessato è sempre stato giudicato idoneo al servizio operativo. Nell’aprile 2011 la patologia all’orecchio, sfociata in otite purulenta, ha comportato un intervento di ricostruzione del timpano e, nelle more dell’operazione, il signor -OMISSIS- è stato dichiarato idoneo al solo servizio logistico. Solo in data 4 luglio 2011, dopo un periodo di sospensione per non idoneità, è stato nuovamente dichiarato idoneo al servizio operativo. Si sono susseguiti ulteriori accertamenti sanitari che hanno avuto come esito, talvolta, la declaratoria di idoneità al servizio non operativo (condizione protrattasi dall’accertamento del 10 ottobre 2012 fino al 26 novembre 2012) e, talaltra, la non idoneità al servizio (condizione protrattasi dall’accertamento del 27 novembre 2012 al 20 maggio 2013). In data 4 marzo 2013 il signor -OMISSIS- è stato sottoposto ad intervento di angioplastica e il successivo 13 marzo ha chiesto il riconoscimento della causa di servizio per le patologie all’orecchio e al cuore. Si sono a ciò susseguiti svariati accertamenti sanitari, che hanno dichiarato la non idoneità temporanea al servizio d’istituto. In particolare, nell’accertamento del 22 marzo 2013, il Sanitario del Comando Provinciale dei Vigili del Fuoco ha certificato la dipendenza da causa di servizio delle patologie riscontrate. 2. Con ricorso proposto innanzi al Tar B. il signor -OMISSIS- ha impugnato, tra l’altro, gli accertamenti sanitari con cui è stata disposta e reiterata la sua sospensione dal servizio per inidoneità temporanea al servizio d’istituto e ha dedotto la violazione dell’art. 2087 cod.civ., in quanto l’Amministrazione non avrebbe tutelato l’integrità fisica del ricorrente, adibendolo a mansioni incompatibili con le patologie accusate.

3. Con sentenza -OMISSIS- dell’8 luglio 2015 il Tar B. ha dichiarato il ricorso in parte inammissibile e in parte infondato. In particolare, quanto alla dedotta violazione del citato art. 2087 cod. civ., il primo giudice l’ha ritenuta generica e infondata, dal momento che il ricorrente non avrebbe provato l’esistenza del danno, la nocività dell’ambiente di lavoro e il nesso causale tra l’uno e l’altra.

4. La citata sentenza -OMISSIS- dell’8 luglio 2015 è stata impugnata dal signor -OMISSIS- con appello notificato il 8 febbraio 2016 e depositato il successivo 8 marzo, dichiarando di voler coltivare il gravame esclusivamente per la richiesta di risarcimento dei danni, previo riconoscimento dell’illegittimità e/o illiceità del comportamento della Pubblica amministrazione che lo ha adibito a mansioni operative, nonostante le patologie riscontrate e certificate.

In particolare, il Tar avrebbe errato nel dichiarare generica e infondata tale censura, dal momento che, sin dal 2007, l’Amministrazione era a conoscenza delle patologie di cui soffriva e, nonostante ciò, ha continuato a destinarlo a mansioni operative. Il danno sarebbe consistito nella necessità della ricostruzione del timpano e dell’angioplastica; la nocività dell’ambiente di lavoro sarebbe consistita nell’esposizione alle condizioni meteorologiche – qualunque esse siano – e ai rumori di ogni tipo, come il suono della sirena; il nesso tra questi due elementi sarebbe in re ipsa e, comunque, sarebbe stato certificato dal Sanitario del Comando Provinciale dei Vigili del Fuoco nell’accertamento del 22 marzo 2013. 5. Si sono costituiti in giudizio il Dipartimento dei Vigili del Fuoco, del Soccorso Pubblico e della Difesa Civile, Comando Provinciale dei Vigili del Fuoco di P., il Ministero dell’Economia e delle Finanze e il Ministero della Difesa, con atto di mero stile. 6. Si è costituito in giudizio il Ministero dell’Interno, sostenendo l’infondatezza dell’appello. 7. Alla pubblica udienza del giorno 11 novembre 2020, tenutasi in videoconferenza con collegamento da remoto ai sensi dell’art. 25, d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, la causa è stata trattenuta in decisione.

1. Come esposto in narrativa, è impugnata la sentenza del Tar B. -OMISSIS- dell’8 luglio 2015, con la quale è stato in parte dichiarato inammissibile e in parte respinto il ricorso proposto dal signor -OMISSIS- avverso, tra l’altro, gli accertamenti sanitari che lo avevano dichiarato temporaneamente inidoneo al servizio presso il Comando Provinciale dei Vigili del Fuoco di P. e per la condanna dell’Amministrazione intimata al risarcimento dei danni biologici e personali asseritamente patiti. Nell’atto di appello il signor -OMISSIS- circoscrive il proprio interesse alla richiesta di risarcimento danni, previo riconoscimento dell’illegittimità e/o illiceità del comportamento della Pubblica amministrazione nell’adibirlo a mansioni operative nonostante le patologie certificate. In altri termini, l’Amministrazione avrebbe violato l’art. 2087 cod. civ. perché, nonostante le patologie di cui soffriva, non lo ha adibito a mansioni non operative. Censura il solo capo 2.4. della sentenza del Tar B., che ha dichiarato inammissibile per genericità, e comunque infondato nel merito, il motivo con il quale si affermava la violazione dell’art. 2087 cod. civ.. La violazione di tale norma era stata dedotta per l’illiceità del comportamento serbato dall’Amministrazione “che, nonostante la conoscenza piena delle patologie, lo ha comunque adibito per anni al duro servizio operativo, non consentendogli di curarsi”. Afferma l’appellante che la propria condizione fisica era tale da non richiedere alcuna specifica prova e che era evidente il nesso causale tra l’ordinaria attività di Vigile del Fuoco alla quale era addetto e l’aggravarsi della propria condizione fisica. 2. L’appello non è suscettibile di positiva valutazione. Premessa l’applicabilità dell’art. 2087 cod. civ. al rapporto di lavoro pubblico e al personale militare (ex multis Cons. St., sez. IV, 30 ottobre 2018, n. 6166), va ricordato che l’obbligo di proteggere la sfera psicofisica e morale del lavoratore trova autonomo fondamento nella predetta norma, che impone al datore di lavoro di adottare tutte “le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. L’incorporazione dell’obbligo di sicurezza all’interno della struttura del rapporto obbligatorio non rappresenta una mera enclave della responsabilità aquiliana nel territorio della responsabilità contrattuale, relegata sul piano del non facere. È fonte, invece, di obblighi positivi (e non solo di mera astensione) del datore di lavoro, con possibilità per il prestatore di eccepirne – e provarne – l’inadempimento e di rifiutare la prestazione pericolosa (art. 1460 cod. civ.). Come, infatti, chiarito dalla Corte di cassazione (sez. lav. 13 agosto 2008, n. 21590; id. 4 febbraio 2016, n. 2209 e id., ord. 8 ottobre 2018, n. 24742; 17 febbraio 2009, n. 3786) e dal giudice amministrativo (Cons. St., sez. V, 8 luglio 2019, n. 4782), la responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 cod. civ. è di carattere contrattuale, atteso che il contenuto del contratto individuale di lavoro risulta integrato per legge, ai sensi dell’art. 1374 cod. civ., dalla disposizione che impone l’obbligo di sicurezza e lo inserisce nel sinallagma contrattuale. L’art. 2087 cod. civ. è, infatti, il portato di diritto positivo degli obblighi di protezione incombenti sul datore di lavoro, sia esso pubblico che privato: la tutela dell’integrità fisica e della personalità morale del prestatore di lavoro si traduce, dunque, nell’assunzione di obblighi di protezione, autonomi ed accessori alla prestazione, la cui violazione, oltre a dover coerentemente essere ascritta alla responsabilità contrattuale del datore di lavoro, prescinde dall’esatta esecuzione della prestazione principale. Corollario obbligato di tale premessa è che il riparto degli oneri probatori nella domanda di danno da infortunio sul lavoro si pone negli stessi termini dell’art. 1218 cod. civ. circa l’inadempimento delle obbligazioni, da ciò discendendo che il lavoratore, il quale agisca per il riconoscimento del danno differenziale da infortunio sul lavoro o malattia professionale, deve allegare e provare l’esistenza dell’obbligazione lavorativa e del danno nonchè il nesso causale tra quest’ultimo e la prestazione, mentre il datore di lavoro deve provare la dipendenza del danno da causa a lui non imputabile e, cioè, di aver adempiuto interamente all’obbligo di sicurezza, apprestando tutte le misure per evitare il danno. La giurisprudenza ha ancora chiarito che la responsabilità del datore di lavoro non costituisce un’ipotesi di responsabilità oggettiva, ovvero che prescinde dall’elemento soggettivo del dolo o della colpa del datore di lavoro. In particolare, da ultimo la Cassazione, con ordinanza del 26 luglio 2019, n. 20366, ha ribadito il perimetro di operatività della responsabilità contrattuale del datore di lavoro ex art. 2087 cod. civ. sottolineando che il mero fatto che il lavoratore abbia riportato lesioni in occasione dello svolgimento della propria attività non determina di per sé l’addebito delle conseguenze dannose al datore di lavoro, essendo necessaria la prova, tra l’altro, della nocività dell’ambiente di lavoro (tra le tante Cass. 8 ottobre 2018, n. 24742); la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento (Cass. 29 gennaio 2013, n. 2038). Ne consegue che incombe sul lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonchè il nesso tra l’uno e l’altro, e solo se il lavoratore abbia fornito la prova di tali circostanze sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia o l’infortunio non siano ricollegabili alla inosservanza di tali obblighi (Cass. 8 ottobre 2018, n. 24742). Diversamente, il datore di lavoro sarebbe responsabile per qualunque evento lesivo patito dal dipendente, anche se imprevedibile e inevitabile. 3. Con riferimento al caso in esame, che prende le mosse da una serie di certificazioni sanitarie di volta in volta intervenute sullo stato fisico del dipendente, giova premettere che le certificazioni mediche sono atti connotati da discrezionalità tecnica, basati su nozioni scientifiche e su dati di esperienza tecnica, con conseguente insindacabilità degli stessi, innanzitutto da parte dell’Amministrazione datrice di lavoro, fatta eccezione per le ipotesi di manifesta irragionevolezza, di palese travisamento dei fatti, di omessa considerazione di circostanze di fatto rilevanti, nonché di scorrettezza dei criteri tecnici e del procedimento. Nella specie, l’Amministrazione si è sempre attenuta alle prescrizioni mediche le quali, prima del 2011, avevano avuto come esito l’idoneità al servizio del dipendente, con un giudizio che – come si è detto – resta fuori dal sindacato sia dell’Amministrazione che del giudice amministrativo, essendo frutto di nozioni scientifiche e di valutazioni tecnico-discrezionali che non possono essere messe in discussione, se non in caso di manifesta irragionevolezza o di palese travisamento di fatti, circostanze che non ricorrono nel caso di specie. Data la premessa, consegue che ciò che potrebbe essere sindacato sarebbe soltanto un comportamento dell’Amministrazione irrispettoso delle risultanze sanitarie, nella specie non configurabile, essendosi la stessa sempre attenuta alle prescrizioni del competente organo sanitario, adibendo il dipendente, quando il giudizio medico è stato espresso nel senso della inidoneità al servizio operativo, anche a mansioni logistiche, come avvenuto nell’aprile 2011, nelle more dell’intervento chirurgico di ricostruzione del timpano. Giova aggiungere che se il danno asseritamente patito fosse riferito all’aver subito l’intervento di ricostruzione del timpano e all’angioplastica, la nocività dell’ambiente sarebbe fatta discendere da elementi a dir poco generici quali “l’assoluta esposizione alle condizioni meteorologiche – qualunque esse siano – ai rumori di ogni tipo (dalle sirene in poi), e altro in una situazione normalmente fisicamente e psicologicamente stressante”. Tale argomentazione proverebbe troppo e non potrebbe certamente far ritenere sussistente la nocività dell’ambiente lavorativo, essendo carente nell’allegazione dei fatti e delle circostanze che dimostrino concretamente che il dipendente sia stato esposto a ritmi o mansioni particolarmente gravose e usuranti, che abbiano potuto in qualche modo influire in modo peggiorativo sul suo stato di salute. Anche l’imprescindibile prova della sussistenza del nesso causale non è stata fornita. Ed invero, questa non può certamente essere in re ipsa né fondarsi sul solo accertamento medico del 22 marzo 2013, con il quale il Sanitario del Comando Provinciale dei Vigili del Fuoco ha certificato la dipendenza da causa di servizio delle patologie riscontrate. A tale riguardo, la giurisprudenza ha chiarito che la dipendenza della malattia del lavoratore da una ‘causa di servizio’ non implica, né può far presumere, che l’evento dannoso sia derivato dalle condizioni di insicurezza dell’ambiente di lavoro, essendo possibile che la patologia accertata debba essere collegata alla qualità intrinsecamente usurante della ordinaria prestazione lavorativa ed al logoramento dell’organismo del dipendente esposto ad un lavoro impegnativo per un lasso di tempo più o meno lungo. In detto ultimo caso si resta al di fuori dell’ambito dell’art. 2087 cod.civ., che riguarda una responsabilità contrattuale ancorata a criteri probabilistici e non solo possibilistici (Cass. civ., sez. lav., 24 ottobre 2017, n. 25151). 4. Per le ragioni sopra esposte l’appello deve essere respinto. La natura della vicenda contenziosa, giustifica la compensazione delle spese. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Compensa tra le parti in causa le spese e gli onorari del presente grado di giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (e degli articoli 5 e 6 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016), a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità della parte appellante. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 11 novembre 2020, tenutasi in videoconferenza con collegamento da remoto ai sensi dell’art. 25, d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, con l’intervento dei magistrati:

M. L., Presidente M. N., Consigliere S. S., Consigliere G. F., Consigliere, Estensore R. S., Consigliere. L’ESTENSORE IL PRESIDENTE G. F. M. L.

Autore: Anna Macchione - Ufficio Legislativo FNOMCeO

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