La Cassazione Civile ha affermato che “in tema di responsabilità extracontrattuale per danno causato da attività pericolosa da emotrasfusione, la prova, che grava sull’attore danneggiato, del nesso causale intercorrente tra la specifica trasfusione ed il contagio da virus HCV, può essere fornita – ove risulti provata l’idoneità di tale condotta a provocare il contagio – anche con il ricorso alle presunzioni, in difetto di predisposizione (o anche solo di produzione in giudizio), da parte della struttura sanitaria, della documentazione obbligatoria sulla tracciabilità del sangue trasfuso al singolo paziente, e ciò in applicazione del criterio della vicinanza della prova. L’applicazione dei suddetti principi, tuttavia, ha come necessario presupposto la prova, sia pure presuntiva, dell’effettuazione della trasfusione.”
FATTO E DIRITTO. La Corte d’Appello di Roma, con la sentenza n. 4316 del 2014, ha rigettato l’appello proposto da M. C., nei confronti della Regione Lazio e del Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali, avverso la sentenza resa tra le parti dal Tribunale di V.. Il Giudice di primo grado aveva rigettato la domanda proposta dalla C., volta a far accertare la propria sottoposizione ad emotrasfusione, in occasione dell’intervento chirurgico subito il 10 novembre 1977 presso il Policlinico Umberto 1. e per l’effetto ad ottenere la condanna della Regione Lazio al pagamento dell’indennizzo di cui all’art. l commi 1 e 3, della legge n. 210 del 1992, in relazione all’epatite HCV contratta a seguito dell’emotrasfusione. La Corte d’Appello ha affermato la legittimazione passiva del solo Ministero ed ha escluso la fondatezza della domanda in quanto, anche in ragione delle risultanze della CTU, mancava la prova del nesso di causalità materiale tra infezione ed emotrasfusione, della quale non vi era traccia nella documentazione formata in occasione dei ricoveri ospedalieri. 2. Per la cassazione della sentenza di appello ricorre M. C., prospettando due motivi di ricorso. 3. Resiste con controricorso il Ministero della Salute. 4. La ricorrente ha depositato memoria in prossimità dell’adunanza camerale. Considerato 1. Che con il primo motivo di ricorso è dedotto il vizio di omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, nello specifico, delle dichiarazioni rese da M. P. in merito alle emotrasfusioni subite da M. C. in occasione dell’intervento chirurgico effettuato il 10 novembre 1977. Deduce la ricorrente che la Corte d’Appello, nel disporre il rinnovo della CTU aveva assegnato al CTU lo stesso quesito formulato nel primo grado di giudizio dopo l’esperimento della prova testimoniale del M., e cioè accertare il nesso esistente tra l’intervento chirurgico, l’emotrasfusione e il contagio. Dunque, il CTU avrebbe dovuto effettuare un nuovo esame della documentazione sanitaria, alla luce della esperita prova testimoniale. Dall’elaborato del CTU, invece, risultava che lo stesso non aveva esaminato la documentazione alla luce della testimonianza suddetta. Tale criticità era stata eccepita da essa ricorrente, ma la Corte d’Appello aveva recepito le conclusioni del CTU, omettendo l’esame di un fatto decisivo per il giudizio e cioè della testimonianza del M., contraddicendo in tal modo la propria decisione sul quesito da affidare al CTU.R.G. 15290 del 2015 2. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione di norme di diritto, con particolare riferimento all’art. 115 cod. proc. civ., e all’art. 1218 cod. civ. Nella specie, essa ricorrente aveva dato la prova che, in occasione dell’intervento chirurgico di emicolectomia, drenaggio e cecostomia, effettuato il 10 novembre 1977, era stata sottoposta ad emotrasfusioni. La prova era stata fornita dalla testimonianza del marito P. M., che aveva dichiarato di ricordare che la moglie era stata sottoposta a trasfusione con sacche di sangue, e che quando era rientrata dalla sala operatoria aveva una sacca attaccata. In tutto la C. aveva fatto tre trasfusioni. Il teste ricordava che oltre alla sacca che la moglie aveva attaccata quando era rientrata dalla sala operatoria, ve ne erano altre tre sul tavolo. Il suddetto teste aveva dichiarato di ricordare che il dottore che aveva effettuato l’intervento aveva detto che per quel tipo di intervento ci voleva sangue. Gli avevano, inoltre, detto che a quei tempi le trasfusioni venivano segnate sulla cartella clinica, documento che dava prova della trasfusione e dell’effettiva somministrazione. Assume la ricorrente che erano state effettuate le prove di interreazione tra i propri campioni di sangue e i flaconi n. 200255, 200251, 200274 e 200573 del Centro trasfusionale Avis, prove avvenute in costanza dell’intervento. Pur tuttavia non era stato possibile ottenere la documentazione relativa agli atti del Centro trasfusionale inerenti l’anno 1977, per verificare la sorte dei flaconi di sangue indicati nella cartella, trattandosi di dati risalenti nel tempo. Pertanto, essendosi verificato una incolpevole perdita della prova documentale (cartella clinica e scheda trasfusionale) il fatto (evento trasfusionale) poteva essere provato con qualsiasi mezzo e oggi con prova testimoniale. Doveva, inoltre, trovare applicazione il principio del più probabile che non. Il giudice del merito non aveva tenuto conto della prova testimoniale, della documentata prova di intemazione e della tipologia di intervento. Tali dati erano astrattamente idonei a provare il contagio, ragione per la quale spettava all’Amministrazione provare, ai sensi dell’art. 1218 cod. civ., che non vi era stato inadempimento o che, se sussistente, era eziologicamente irrilevante. 3. I suddetti motivi di ricorso devono essere trattati congiuntamente in ragione della loro connessione. Gli stessi sono inammissibili. 3.1. Va premesso che è applicabile alla fattispecie l’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., nel testo modificato dalla legge 7 agosto 2012 n.134 (pubblicata sulla G.U. n. 187 dell’11.8.2012), di conversione del d.l. 22 giugno 2012 n. 83, che consente di denunciare in sede di legittimità R.G. 15290 del 2015 unicamente l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti. Hanno osservato le Sezioni Unite di questa Corte (Cass., S.U., n. 19881 del 2014, e Cass.. S.U.. n. 8053 del 2014) che la ratio del recente intervento normativo è ben espressa dai lavori parlamentari lì dove si afferma che la riformulazione dell’art. 360 n. 5, cod. proc. civ., ha la finalità di evitare l’abuso dei ricorsi per cassazione basati sul vizio di motivazione, non strettamente necessitati dai precetti costituzionali, e, quindi, di supportare la funzione nomofilattica propria della Corte di cassazione, quale giudice dello ius constitutionis e non dello ius litigatoris, se non nei limiti della violazione di legge. Il vizio di motivazione, quindi, rileva solo allorquando l’anomalia si tramuta in violazione della legge costituzionale, “in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella -mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico-. nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili – e nella ‘motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile-, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza- della motivazione”, sicché quest’ultima non può essere ritenuta mancante o carente solo perché non si è dato conto di tutte le risultanze istruttorie e di tutti gli argomenti sviluppati dalla parte a sostegno della propria tesi. 3.2. La Corte d’Appello, nell’esaminare la CTU, ha dato atto delle osservazioni della ricorrente in merito al rilievo della prova testimoniale rispetto al vaglio della documentazione sanitaria, e ha affermato che nella relazione peritale il CTU aveva ben precisato che dalla cartella clinica relativa al ricovero ospedaliero della sig.ra C., presso il Policlinico Umberto I, nel 1977, risultava essere stata effettuata solo la interreazione tra il sangue della paziente e alcuni flaconi ematici, mentre non risultava che la ricorrente fosse stata sottoposta a emotrasfusioni. Nella cartella clinica relativa al ricovero intervenuto nell’anno 1978, non risultavano effettuate né prove di interreazione, né emotrasfusioni. Mancavano, quindi, elementi probatori a conferma delle emotrasfusioni e quindi all’effettivo contatto della ricorrente con la fonte del contagio dal virus dell’epatite C. Dunque, la Corte d’Appello ha affermato che il CTU con chiarezza ed esaustivamente aveva esaminato tutta la documentazione relativa alla paziente e di fatto aveva risposto alle osservazioni effettuate dalla stessa. La motivazione della sentenza della Corte d’Appello precisa che il CTU ha esaminato la cartella clinica della C., che secondo la stessa testimonianza resa dal marito costituiva il documento su cui dovevano essere segnate le trasfusioni.RG. 15290 del 2015 Pertanto, la mancanza della documentazione prospettata dalla ricorrente, in assenza di una adeguata contestazione di tale statuizione, va riferita alla sorte dei flaconi oggetto delle prove di interreazione, rispetto ai quali, tuttavia, mancando l’annotazione dell’effettuazione di trasfusioni nella cartella clinica della C., manca il necessario presupposto presuntivo di una somministrazione alla paziente. Giova ricordare, in proposito che questa Corte (Cass., n. 5961 del 2016) ha sì affermato che in tema di responsabilità extracontrattuale per danno causato da attività pericolosa da emotrasfusione, la prova, che grava sull’attore danneggiato, del nesso causale intercorrente tra la specifica trasfusione ed il contagio da virus HCV, può essere fornita – ove risulti provata l’idoneità di tale condotta a provocare il contagio – anche con il ricorso alle presunzioni, in difetto di predisposizione (o anche solo di produzione in giudizio), da parte della struttura sanitaria, della documentazione obbligatoria sulla tracciabilità del sangue trasfuso al singolo paziente, e ciò in applicazione del criterio della vicinanza della prova. L’applicazione dei suddetti principi, tuttavia, ha come necessario presupposto la prova, sia pure presuntiva, dell’effettuazione della trasfusione, circostanza che nella specie non risultava dalla cartella clinica, e rispetto alla quale il contenuto della prova per testi è stato ritenuto dalla Corte d’Appello non decisivo in relazione alle risultanze della documentazione sanitaria. La giurisprudenza di questa Corte ha affermato che, ai fini del sorgere del diritto all’indennizzo previsto in favore di coloro che presentino danni irreversibili derivanti da epatiti post- trasfusionali dall’art. 1, comma terzo, della legge 25 febbraio 1992, n. 210, la prova a carico dell’interessato ha ad oggetto l’effettuazione della terapia trasfusionale, il verificarsi dei danni anzidetti e il nesso causale tra i primi e la seconda, da valutarsi secondo un criterio di ragionevole probabilità scientifica (cfr., Cass., n. 27471 del 2017). La Corte d’Appello ha, quindi, condiviso le conclusioni del CTU, riconoscendole frutto di rigoroso accertamento logico-scientifico, coerenti con i risultati delle indagini svolte, sorrette da corretta motivazione ed immuni da vizi logici, di fatto non infirmate da contrarie affermazioni delle parti. di cui comunque il CTU aveva dimostrato di tenere conto. La ricorrente, quindi, con entrambe le censure prospettate, sia pure invocando formalmente con il primo motivo il vizio di omesso esame e con il secondo motivo il vizio di violazione di legge, sollecita una nuova valutazione delle complessive risultanze istruttorie e documentali rispetto a quella effettuata dalla Corte d’Appello, che non può trovare ingresso in sede di legittimità per le ragioni sopra esposte, ed è pertanto inammissibile. 4. Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. 5. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.R.G. 15290 del 2015 6. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto. PQM La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in euro 4.000,00, per compensi professionali, oltre spese prenotate a debito. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto. Così deciso in Roma, nella adunanza camerale del 15 ottobre 2020.