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Ilaria Pagni/1: in un momento storico di grande conflittualità, un’occasione per riflettere

Ecco la prima “puntata” dell’intervista alla professoressa Ilaria Pagni sulla Conciliazione. Un’intervista che parte dalle origini della nuova normativa: stiamo per assistere al “Big Bang della Conciliazione”, alla nascita di questa rivoluzione culturale, prima ancora che giuridica.

Professoressa Pagni, da quale background scaturiscono i due provvedimenti che hanno introdotto la conciliazione obbligatoria quale strumento di risoluzione di molte controversie, in campo civilistico e commerciale?
Il tentativo obbligatorio di conciliazione era già presente in alcuni settori dell’ordinamento, dove non aveva dato buona prova di sé. Questo soprattutto per il modo in cui il legislatore lo aveva pensato, e per l’assenza di una formazione specifica nei soggetti chiamati a prestare la propria opera come conciliatori.
L’introduzione di una disciplina organica della mediazione nella controversie civili e commerciali, ad opera del D.Lgs. 28/2010, e del D.M. 180/2010, è avvenuta in attuazione della delega contenuta nella riforma del processo civile del giugno 2009, che a propria volta rinviava alla normativa comunitaria (e perciò alle indicazioni contenute nella Direttiva n. 2008/52/CE, emanata con l’obiettivo “di facilitare l’accesso alla risoluzione alternativa delle controversie e di promuovere la composizione amichevole delle medesime incoraggiando il ricorso alla mediazione e garantendo un’equilibrata relazione tra mediazione e procedimento giudiziario”).

Questa è una delle questioni di legittimità costituzionale su cui si è pronunciato recentemente il Tar del Lazio. Ci può spiegare meglio?
La disciplina del tentativo di conciliazione introdotta nel 2010 rispecchia in pieno le indicazioni della legge delega e della direttiva comunitaria. Questione diversa è se nella previsione generalizzata, per numerose materie, di un tentativo obbligatorio di conciliazione, e dunque nello specifico contenuto dell’art. 5 del D.Lgs. 28/2010, possa ravvisarsi o meno un eccesso di delega. Se un fondamento all’introduzione dell’obbligatorietà per la gran parte delle liti civili (per le liti commerciali, l’obbligatorietà è limitata a ipotesi particolari, oppure opera quando le parti prevedano una clausola contrattuale o statutaria) si possa trovare nell’art. 60 della legge di riforma del processo civile e nella Direttiva comunitaria è quanto dovrà dirci la Corte Costituzionale, alla quale la questione è stata sottoposta dalla recente ordinanza del TAR Lazio.

E che implicazioni avrà, in un senso o nell’altro, la sentenza della Corte Costituzionale?
Comunque vada a finire, il merito dell’art. 5 D.Lgs. 28/2010 è aver risvegliato l’attenzione dell’opinione pubblica sulla opportunità che, in un momento storico di elevata conflittualità e di conseguente crisi dei tempi della giustizia, le controversie siano portate davanti al giudice solo dopo un’attenta riflessione sui pro e i contro dell’azione giudiziaria. Riflessione che la mediazione, se ne viene correttamente inteso il senso e la funzione, certamente aiuta le parti della lite ad effettuare, molto più di quanto non accada finché manchi un’occasione di confronto alla presenza di un terzo imparziale, e la trattativa venga condotta soltanto tra gli avvocati che assistono le parti, e perciò in una dimensione inevitabilmente bilaterale che non sempre permette il buon esito del negoziato.

Quali sono, a suo giudizio, i punti di forza della normativa? E quali i punti deboli?
È difficile dare una risposta sintetica a queste due domande. Si può forse dire che i punti di forza stanno, da un lato, nell’attenzione messa nella formazione del mediatore, e, dall’altro, nell’aver lasciato sufficientemente libero il percorso che conduce alla conclusione dell’accordo, sottraendosi alla tentazione di ingessarlo in forme di cui non ci sarebbe stata alcuna necessità, ma, al tempo stesso, preoccupandosi di garantire alla parte che si rivolge, per scelta o per obbligo, all’organismo di conciliazione, di non perdere le utilità del processo, qualora l’accordo non sia raggiunto (consentendo, per esempio, alla “domanda”di mediazione di produrre gli stessi effetti della domanda giudiziale), e di poter contare su un verbale di conciliazione che ha una piena tenuta sul piano esecutivo, e permette di iscrivere addirittura ipoteca sui beni di colui che potrebbe volersi sottrarre all’accordo, dopo averlo concluso. Con un effetto che non si ottiene neppure nel caso di accordo raggiunto davanti ad un giudice.
I punti di debolezza stanno nella difficoltà di trovare un meccanismo che imponga anche al destinatario della domanda di mediazione di sedersi al tavolo della conciliazione (d’altra parte, il nostro è un sistema che non penalizza neppure chi rimane contumace nel processo), e nei costi del procedimento per colui che lo attiva senza la garanzia di avere, dall’altro lato del tavolo, colui col quale dovrebbe provare a raggiungere l’accordo. Costi che non sono eccessivi in sé, ma che rappresentano comunque un onere imposto ad una sola delle parti, a meno che non si seguano strade diverse: quali quelle che certi regolamenti hanno ipotizzato, per ridurre la spesa a carico di chi introduce il procedimento di mediazione, ma che rischiano di produrre l’effetto ulteriore di vanificare gli sforzi del legislatore di imporre una pausa di riflessione alle parti, prima che venga iniziata la causa; e che, perciò, sono stati censurati da una circolare del Ministero, del 4 aprile scorso, con la quale si è insistito perché, semmai, il mediatore svolga il tentativo di conciliazione anche in assenza di una delle due parti del rapporto, e formuli anche in questo caso una proposta.

Autore: Redazione FNOMCeO

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