È un giorno di dicembre, quando Andrea Rustichelli, giornalista del Tg3 Rai dopo una lunga carriera alla radio e nella carta stampata, riceve via mail l’accredito per andare in Ucraina, come inviato di guerra. Ma lui si trova in una corsia di ospedale, ricoverato per dei pesanti cicli di chemio: il cancro che lo aveva colpito anni prima si è ripresentato. Nasce così l’urgenza di un altro reportage, che racconta lo scenario della malattia e della sanità da una prospettiva speciale, quella del paziente oncologico, con il taccuino del giornalista di razza e il filtro dell’ironia e dell’introspezione. “Senza biglietto. Viaggio nella carrozza 048”, dove il numero altro non è che il codice di esenzione per la malattia oncologica, è molto di più che il racconto biografico della malattia dell’autore. È una narrazione plastica, dove i personaggi umani ma anche quelli inanimati, l’infusore, la statua di Padre Pio con cui l’autore ama chiacchierare, prendono vita: pare di vederli, di udirli, di sentirne gli odori. È, soprattutto, uno squarcio sulla malattia e sulla cura, su ciò che funziona e ciò che potrebbe migliorare: la difficile comunicazione medico-paziente, la narrazione della malattia da parte dei media, l’irrisolto rapporto tra cancro e mondo del lavoro, il tema della colpevolizzazione del paziente provocata dalle “interpretazioni psicosomatiche” del tumore. Ogni tema viene trattato senza sconti, senza giustificazioni, ma con l’urgenza giornalistica di comprendere le cause, per trovare soluzioni possibili.
“A proposito della comunicazione destinata ai malati – scrive ad esempio Rustichelli – penso che i pazienti abbiano una necessità di base: tradurre e portare nel proprio vissuto le informazioni del linguaggio medico che riguardano la loro salute, dando loro una fisionomia concreta e personale. I pazienti hanno bisogno di una narrazione immediata in cui collocarsi: la loro storia che consenta, in un tempo di sfacelo che li riduce per lo più alla reificazione della terza persona, di conservare la prima persona, “Io”. Tanto da poter rispondere a queste domande: “Che cosa mi succede?”, “Che cosa devo fare?”, “A cosa vado incontro?”.
Spesso questa esigenza primaria, da “medicina esistenziale”, capace cioè di dare del “tu” al malato, viene disattesa. I medici, salvo rari casi, non sono preparati a questo: a prendersi cura attraverso il linguaggio, non in senso banalmente consolatorio ma piuttosto attivando nell’interlocutore comprensione e partecipazione. I motivi di questa lacuna generale sono diversi. Colpa anche della routine ospedaliera e della mole di lavoro che grava sul personale sanitario. E non da ultimo va menzionato quel flagello recente che porta il nome di “medicina difensiva” (cioè la paura delle cause legali), grande sterilizzatrice nei rapporti tra curanti e curati. Ma a mancare è soprattutto una cultura, una formazione dedicata: si relega la comunicazione medico- paziente a elemento accessorio, affidato se mai alla sensibilità individuale, al buon carattere del camice bianco. Una carenza grave che, alimentando la sfiducia della gente, probabilmente contribuisce al proliferare di certa mentalità antiscientifica, mentalità del sospetto e del complotto nei confronti della medicina cosiddetta ufficiale”.
Del resto, anche la Fnomceo ha ben compreso l’importanza della comunicazione medico-paziente, tanto da dedicarvi grande spazio nel Codice deontologico in corso di revisione. Perché, come afferma Papa Francesco nella citazione che apre il libro, “Inguaribile e incurabile non sono la stessa cosa (…) Non sempre si ottiene la guarigione. Ma possiamo sempre prenderci cura del malato, accarezzare il malato”.
Autore: Ufficio Stampa FNOMCeO