A proposito di Pet Therapy

L’interazione uomo animale non è una scoperta degli ultimi anni. Già  agli inizi degli anni ‘60, il neuropsichiatra infantile Boris Levinson enunciava nel libro The dog as co-therapist la teoria  secondo cui il medico poteva interpretare scientificamente i risultati positivi, ottenuti della psicoterapia nella cura dell’autismo infantile, in presenza di animali. Fu ancora Levinson che ebbe modo di documentare successivamente il modo con cui l’animale fungeva da “ponte” e  da “mediatore” tra il sanitario e il paziente, fornendo al paziente la motivazione a partecipare attivamente al processo terapeutico stesso col costituirsi di un’alleanza terapeutica.

Il rapporto con l’animale rendeva, per esempio, possibile al bambino problematico proiettare all’esterno il proprio mondo interiore che difficilmente poteva esprimersi e contemporaneamente era occasione di scambio e di gioco rendendo  l’ incontro terapeutico  tra i due  più piacevole.

La presenza di un animale è  in grado di modificare ogni contesto in diverse patologie; oggi conosciamo molto bene cosa significhi l’interazione dell’ambiente  con la patologia e i riflessi del decorso patologico modificati dall’ambiente in cui la malattia si sviluppa e progredisce. Spostare l’attenzione dell’individuo verso il mondo esterno ne riduce le emozioni personali, crea un avvicinamento tra le persone ed un incremento di aspettative positive verso gli altri. È questa la sintesi del ruolo terapeutico animale ed è  quello che sostiene l’americana  Barbara Lee Fredrickson, professore  di psicologia, con la sua teoria “the Broaden-and-Build of Positive Emotions”.

Il termine Pet Therapy non è quindi una terapia a sé stante, ma una co-terapia che affianca una terapia tradizionale in corso e in quanto tale  è riconosciuta  dal nostro codice  deontologico dall’articolo 13 e 15.

Lo scopo che si prefigge è quello di facilitare l’approccio medico e terapeutico delle varie figure sanitarie e riabilitative proprio nei casi in cui il paziente non dimostra collaborazione spontanea, perché i risultati di tante esperienze confermano che la presenza di un animale può rappresentare un valore aggiunto all’educazione e al tipo di esperienze che intendiamo far vivere ai nostri pazienti,  piccoli e grandi  che siano,  e  soprattutto se problematici.
Un animale educa alla “diversità”, perché è la dimostrazione vivente che non esistiamo soltanto noi umani, ma che esistono altri esseri viventi e senzienti che meritano rispetto e che sono in grado di offrirci molto dal punto di vista affettivo.

In questa considerazione troviamo tutto il pensiero di Peter Singer, uno dei pensatori contemporanei più importanti nel campo dell’etica e al centro di dibattiti che spesso hanno incrinato le certezze morali dell’uomo occidentale e messo pericolosamente in crisi la “vecchia etica”. Di lui conosciamo le posizioni scomode quale profeta della liberazione animale, nonostante le sue riflessioni non si fermino ai diritti degli animali ma abbraccino ampie problematiche che vanno dal rispetto per l’ambiente, alla cattiva distribuzione della ricchezza, alla responsabilità dei paesi ricchi verso il Terzo Mondo; un articolato sistema di pensiero sicuramente tra i più innovativi e coraggiosi del nostro tempo.

Gli esseri umani, per Peter Singer, non sono gli unici capaci di provare sofferenza o dolore ma questo status  è comune con la maggior parte degli animali non umani, molti dei quali sono in grado di provare anche forme di sofferenza che vanno al di là di quella fisica; basti pensare all’angoscia di una mamma separata dai suoi piccoli, alla noia e alla rabbia dell’esser chiusi in una stretta gabbia. È proprio la capacità di soffrire, che porta  il filosofo  Singer alla convinzione che ogni essere senziente, umano e non, abbia diritto ad un’equa considerazione morale, perché il bene di ciascun individuo non è di maggiore importanza del bene di ogni altro individuo e tutti gli esseri in questo universo, umani o non umani, hanno il diritto di essere trattati nel rispetto dei loro interessi.

Sono diverse le conseguenze a cui conducono le riflessioni di Singer: dalla  condanna della vivisezione allo sfruttamento degli animali. È proprio quest’ultimo aspetto che merita una specifica riflessione nella Pet Therapy.    Penso che sia importante innanzitutto capire che non stiamo offrendo un animale alla persona umana malata. Il termine “offrire” ci richiama a concetti di  discriminazione, di selezione, di tipologia animale senza preoccuparsi affatto  della reazione dell’animale-soggetto. Non è il contatto fisico il “primum movens” terapeutico, anche se importante; la Pet Therapy non si concretizza con la carezza o il  semplice tatto del pelo, della pelliccia o della pelle morbida.   

Il concetto di Pet Therapy deve saper riconoscere l’autonomia dell’animale per le sue capacità emotive e relazionali; non un mezzo terapeutico ma un co- terapeuta in grado di lavorare in team con gli altri sanitari. La vera efficacia della Pet Therapy sta nella relazione che significa reciprocità, nel senso che l’uomo e l’animale entrano in comunicazione circolare e se l’animale è presente e felice di essere in quella relazione, lo saprà esprimere col linguaggio non verbale che, sappiamo dalla psicologia, rappresenta il 90 per cento della comunicazione in generale.

È proprio questo scambio che agisce sul mondo emotivo del paziente, apportando beneficio, perché si va a costituire tra l’animale e il paziente un canale di comunicazione che non è più verbale ma fatto di sensazioni  e di contatto fisico, un rapporto che non è sottoposto a pregiudizi e che è piena accettazione l’uno dell’altro come, da  tempo, propugna Peter Singer.

Autore: Redazione FNOMCeO

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