La Camera dei Deputati a fine estate ha licenziato il Disegno di legge 1771 su “Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alle terapie del dolore”. Un testo atteso da tempo risultante dalla unificazione di vari disegni di legge di entrambe le parti politiche. Sostanzialmente il testo approvato tutela il diritto del cittadino ad accedere alle cure palliative e alle terapie del dolore garantendo adeguato sostegno sanitario e socio assistenziale alla persona malata e alle famiglie.
Le cure palliative e le terapie del dolore costituiranno, secondo lo spirito della nuova legge, obiettivi prioritari del PSN e sarà previsto un finanziamento integrativo del SSN a carico dello Stato. Si procederà alla rilevazione capillare dei presidi esistenti, delle necessità territoriali regionali e alla definizione dei requisiti minimi necessari per l’accreditamento delle strutture dedicate all’assistenza dei malati in fase terminale e delle unità di cure palliative e delle terapie del dolore anche domiciliari presenti per ciascuna Regione.
Il Comitato paritetico permanente per la verifica dei LEA, infine, valuterà annualmente lo stato di attenzione della legge con particolare riguardo all’appropriatezza e all’efficienza dell’utilizzo delle risorse e alla verifica della congruità tra le prestazioni da erogare e le risorse messe a disposizione.
Fin qui i principi generali previsti dalla legge ora in discussione al Senato. Sulla legge in generale e su alcune criticità rilevate abbiamo chiesto il parere di un presidente di Ordine che è al “fronte” presso un centro della terapia del dolore all’Ospedale Civile S.S. Annunziata di Sassari. Il dottor Agostino Sussarellu, presidente – appunto – dell’Ordine di Sassari.
Presidente, intanto un giudizio generale sull’impianto della legge.
Il disegno di legge sull’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore è stato presentato ed approvato da tutte la forze politiche, e per questo semplice fatto il giudizio generale non può che essere positivo. Ciò fa sperare che effettivamente, questa volta, si riesca ad avere una normativa ufficiale.
Tale documento, che per certi versi resta un po’ nel vago, contiene sicuramente al suo interno dei punti importanti. Mi riferisco in particolare all’art. 3, nello specifico ai commi 3 – 4 – 5 i quali prevedono non solo l’obbligatorietà per le regioni di applicare la legge, ma anche, attraverso un attento monitoraggio, la possibilità che quelle inadempienti possano essere commissariate; un altro aspetto, non secondario, a cui voglio fare riferimento, è la definitiva semplificazione delle procedure relative alla ricettazione degli analgesici oppiacei. La speranza è che adesso il passaggio al Senato sia rapido e che le norme contenute nel disegno di legge diventino rapidamente attuative.
Alcune organizzazioni sostengono che la legge "non tiene adeguatamente conto della complessità delle problematiche della malattia del dolore", e che il ddl approvato focalizzi troppo l’attenzione sulle cure palliative. Che ne pensa?
Personalmente avrei preferito che le cure palliative e la terapia del dolore avessero due percorsi distinti, per evitare di perpetuare la solita confusione tra i due argomenti.
Le cure palliative sono rivolte a pazienti giunti alla fase finale della vita, la maggior parte dei quali ha bisogno anche della terapia del dolore. Rientra invece nella fase terminale solo una piccola percentuale di coloro che necessitano della terapia antalgica. Tale percentuale può essere quantificata intorno al 10–15% del totale, per il resto trattasi di pazienti affetti da malattie cronico-degenerative o, più di frequente, colpiti da affezioni che causano dolore acuto.
Nella sostanza la legge mostra i suoi limiti, legati a questa comunione, proprio nel non considerare il dolore acuto, come ad esempio, per citare alcune delle forme più conosciute, il dolore post-operatorio, i traumi, il parto.
Il dolore cronico si trasforma, secondo gli esperti, in una vera e propria malattia a sé con una compromissione della qualità della vita: è così?
Il dolore, nella sua evoluzione, se non è adeguatamente trattato si trasforma in dolore cronico. Se perdura da almeno 6 mesi si definisce, appunto, “dolore cronico” e smette di essere un sintomo per trasformarsi in un’entità a sé stante, diventa una vera e propria “malattia dolore”. Questa è fortemente invalidante, limita notevolmente il soggetto che ne è affetto, nella vita sociale, nell’attività lavorativa, nella possibilità di svago, nelle affettività. Il malato tende infatti ad isolarsi dal resto della società, quando non viene addirittura isolato dalla società stessa. Per di più, queste situazioni si ripercuotono anche sulla famiglia, causando una cascata di eventi che ne possono minare la solidità.
Da studi economici effettuati dagli esperti del settore sembrerebbe che il dolore costituisca causa di un elevato costo sociale pari a 3 miliardi di euro corrispondente al 2% del PIL. Cosa si può fare di fronte a questa situazione così critica?
I dati a cui lei fa riferimento derivano dalla ricerca “Pain in Europe”. Questo studio ha analizzato la diffusione del fenomeno dolore in Europa, e anche i costi sociali che sono stati tradotti in milioni di euro. In Italia il 19% della popolazione è affetta da dolore cronico, ciò significa che un italiano su cinque quotidianamente affronta questo problema.
Il soggetto che soffre per un dolore cronico non solo ha bisogno di farmaci, ma spesso si assenta dal posto di lavoro, fino ad arrivare, con l’evoluzione della patologia, all’invalidità. Il tutto si ripercuote sulle casse statali. Dalla valutazione effettuata, per la nostra nazione questo costo risulta ammontare effettivamente a 3 miliardi di euro, il 2% del PIL. Il sistema migliore per ridurre questo enorme danno economico sarebbe quello di puntare su una lotta serrata al dolore, acuto e cronico.
Purtroppo questo disegno di legge non mostra di voler andare in tale direzione, poiché, come ho già detto, non prende in considerazione il dolore acuto, ma soprattutto non mette a disposizione le risorse economiche che sarebbero necessarie.
L’accordo Stato – Regioni dello scorso 25 marzo ha tracciato quello che dovrebbe essere il futuro del trattamento del dolore nella nostra nazione, con una strutturazione di tipo “Hub and spoke” che partendo dal coinvolgimento dei Medici di Medicina Generale si articola in centri di complessità crescente. Per realizzare questo sono stati stanziati 150 milioni, una cifra irrisoria se si pensa alle enormi carenze italiane, e all’enorme lavoro che c’è da fare.
A mio parere si dovrebbero prevedere servizi di medicina del dolore presso tutti i presidi sanitari, per i quali sarebbe necessario assumere medici, infermieri e tutto il personale di supporto. Di questo non si parla da nessuna parte, anzi ricorre troppo spesso la dizione: “All’attuazione del presente articolo si provvede nei limiti delle risorse umane, strutturali e finanziarie disponibili a legislazione vigente, comunque, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”. Una dizione che mostra tutti i limiti del progetto. Ripeto: solo un forte impegno economico può portare ad una riduzione del fenomeno “Dolore” e quindi ad un risparmio importante per le finanze di una nazione.
Cosa ne pensa della semplificazione delle procedure di accesso ai medicinali impiegati nelle terapie del dolore di cui all’art. 10 del Ddl in discussione?
Il problema, tutto italiano, dello scarso utilizzo degli oppiacei riconosceva due cause principali. La prima, di tipo normativo, legata alla complessità della ricettazione, è venuta via via a mancare senza che vi sia stata una variazione significativa dell’utilizzo di questi farmaci. Ormai l’uso del ricettario ministeriale a ricalco, tanto biasimato, è limitato a pochissimi prodotti (morfina in fiale e buprenorfina in compresse), tutti gli altri oppiacei sono prescrivibili sul normale ricettario rosso.
La seconda causa, che a mio parere sarà più difficile da debellare, sta tutta nella scarsa cultura della classe medica riguardo al trattamento del dolore. Questo argomento non solo non viene trattato all’interno dei corsi di laurea (“Medicina e Chirurgia” ed “Odontoiatria”) e dei corsi di specializzazione, ma spesso, purtroppo, neppure all’interno di quelle branche che nella fattispecie maggiormente dovrebbero essere interessate e sensibilizzate al problema (“Anestesia e Rianimazione” e “Oncologia”).
Credo che un cambiamento epocale nel trattamento del dolore, in tutti i suoi aspetti, si potrà raggiungere solo con una campagna di formazione fatta a tappeto, che si rivolga a tutti i soggetti coinvolti nel processo dell’assistenza. Per intenderci, è necessario estendere la formazione non solo alla classe medica, senza esclusione di qualsivoglia specialità, ma anche a tutte le altre professioni sanitarie, e aggiungo che personalmente non escluderei neppure le figure di supporto, quali gli OSS e gli ausiliari. Per tale scopo potrebbe essere utile ricorrere all’ECM e al piano di formazione nazionale.
Il disegno di legge affronta l’argomento formazione ed ECM, ma anche su questo punto dovrebbe essere più chiaro ed esplicitare meglio tale tema. Dalla lettura dell’art. 8, sembra che la formazione sia limitata a pochi soggetti, e che, tanto per cambiare, non si preveda per essa “alcun onere aggiuntivo“.
Non bisogna neppure dimenticare che uno dei problemi in cui ci si imbatte spesso risulta essere la scarsa disponibilità degli oppiacei presso le farmacie territoriali, ma questo aspetto non è stato preso in considerazione nella stesura della legge, mentre invece potrebbe rivelarsi un handicap imprevisto.
A Pavia durante un convegno sul dolore, organizzato dal locale Policlinico, è stata lanciata l’idea di creare una nuova figura professionale “l’infermiere specializzato nella terapia del dolore” già presente in alcune nazioni come la Danimarca e la Svezia. Che ne pensa?
Premetto che in Italia non esiste una specializzazione medica in terapia del dolore o, come molti vorrebbero, in medicina del dolore, e aggiungo che sarebbe ormai opportuno istituirla, onde evitare i contrasti che si sviluppano tra vari specialisti (anestesisti, oncologi e altri).
Credo che tale specializzazione rappresenti obbligatoriamente il futuro di tutte le branche sanitarie, poiché la terapia del dolore possiede delle peculiarità tali da risultare inimmaginabile che una struttura, ospedaliera o territoriale, sia in grado di occuparsi di questo problema, se affidata ad un personale con una formazione generica. Quindi, ben venga la specializzazione per medici ed infermieri.
Una recente interpellanza dell’OMS ha posto il problema dello scarso utilizzo degli analgesici per la cura del dolore, è così o sono solo sterili polemiche di chi non vive la realtà dei Centri del dolore?
Se ci riferiamo al consumo degli analgesici oppiacei, che secondo l’OMS sono il cardine per la valutazione del corretto trattamento del dolore in una nazione, noi siamo carenti. In Italia il consumo degli oppiacei, pur aumentato percentualmente in maniera enorme rispetto alla base di partenza, resta sempre a livelli bassissimi, non solo rispetto al resto dell’Europa, ma dell’intero pianeta, compresi i così detti paesi del terzo mondo. E’ necessario che la strada intrapresa da qualche anno non si interrompa, e che tutti, per quanto compete loro, entrino in gioco collaborando attivamente: i politici, la classe medica, l’università, le società scientifiche, e a parer mio anche gli Ordini Professionali, poiché il trattamento del dolore rappresenta un dovere morale e deontologico per qualsiasi professionista della salute.
Autore: Redazione FNOMCeO