Un’Università italiana con una “schizofrenia” tra materie insegnate e preparazione reale alla professione; studenti con una cultura – generale e specifica – di gran lunga superiore a quella dei loro colleghi europei ma che difettano di un’adeguata pratica in campo clinico; e, soprattutto, un’Università con una percentuale di laureati, rispetto agli iscritti, tra le più basse d’Europa…
Queste criticità sono state condivise anche dai Rettori riuniti in Conferenza Nazionale, che le hanno segnalate nell’ultima relazione annuale sullo stato degli Atenei italiani. La situazione è grave soprattutto per Medicina, con una mortalità media annua, cioè una percentuale di studenti che abbandonano pretermine il corso di studi, del 28,6%. Vale a dire che quasi uno studente su tre che inizia l’iter universitario non arriverà mai alla laurea.
Come evitare questi abbandoni, così onerosi in termini economici e di tempo per i giovani e le loro famiglie? Con una revisione profonda del sistema formativo pre-laurea. L’Ufficio Stampa ne ha parlato con il vicepresidente della FNOMCeO, Maurizio Benato, che è anche membro del Gruppo di Lavoro “Formazione e valutazione del fabbisogno” e che il 18 settembre, a Bari, terrà una relazione proprio sulle “attese degli ordini professionali” in merito al processo formativo dei laureati in Medicina e Chirurgia.
I dati sullo stato delle facoltà di Medicina mostrano una mortalità studentesca media annua del 28,6%. Quali sono, secondo gli Ordini, le criticità del sistema che spingono una percentuale tanto alta di iscritti ad abbandonare gli studi?
L’Università italiana ha una percentuale di laureati rispetto agli iscritti tra le più basse d’Europa ed esiste una dicotomia tra le materie insegnate e la preparazione all’assolvimento dell’attività professionale: sono queste le critiche più frequentemente mosse ai nostri Atenei. Problematiche, queste, proprie anche della Facoltà di Medicina e Chirurgia.
Il numero di esami troppo alto – i corsi, è vero, sono 36 ma la prassi dei “mini esami” i cui esiti vanno mediati in unico voto li porta, in alcuni casi, fino a 55 – sottopone lo studente a un carico di lavoro gravoso, che viene by-passato preparando gli esami su dispense ridotte. In tal modo, gli studenti accumulano molte nozioni senza però inquadrarle criticamente.
Ciò costituisce un problema serio perché inficia la costruzione di solide basi propedeutiche per quelle capacità di analisi critica e di sintesi indispensabili nella pratica clinica. È questo, a nostro avviso, il difetto di fondo connesso all’ordinamento didattico in vigore.
Qual è il ruolo degli Ordini nella formazione?
La formazione dei medici rappresenta un settore strategico imprescindibile per l’Ordine professionale.
Alla nostra istituzione, infatti, è delegato il controllo e la verifica di quel complesso processo che è la formazione e lo sviluppo professionale continuo. In questo modo, l’Ordine concretizza una reale garanzia per il cittadino, vigilando sulla qualità dei professionisti iscritti agli Albi.
Gli Ordini, quindi, non possono rimanere “esperti muti” di fronte alle criticità del processo formativo. Processo che, sin dalle basi, deve avere invece un’impostazione didattica che permetta al futuro medico di operare una continua ricostruzione delle proprie competenze professionali, in funzione dei nuovi bisogni di salute imposti dai cambiamenti scientifici, tecnologici, demografici e socio-economici.
E come dovrebbe essere orientato questo nuovo modello di formazione, in modo che risponda alle nuove domande di salute, soddisfacendo i paradigmi di qualità, efficacia ed equità nel processo di erogazione dei servizi sanitari?
In un’ottica di servizio pubblico sanitario, la formazione si deve misurare con nuove definizioni, nuovi orizzonti e legittimazioni che riformino il concetto essenziale stesso della medicina, non più solo rivolta alla persona ma anche alla società.
Ciò impone alle facoltà mediche di rivedere i curricula di studio e specializzazione, che appaiono non rispondere più ai nuovi bisogni e alle nuove competenze richieste per assicurare la corretta gestione dei servizi sanitari e un prodotto professionale di qualità, rilevante per i bisogni di individui e collettività.
In sostanza, i futuri medici dovrebbero seguire un curriculum fondamentale e standardizzato, ma con moduli specialistici aggiuntivi che possano rispondere a esigenze didattiche e formative personalizzabili.
Cosa chiedono gli Ordini per realizzare, nella pratica, tali obiettivi?
A Bari verranno presentate proposte per una riforma possibile e funzionale alla nuova domanda di salute.
I punti fondamentali, dopo aver ridefinito un forte scheletro di sostegno del percorso didattico, saranno: riduzione del numero e della “parcellizzazione” degli esami, concentrazione nei primi cinque anni di tutti gli insegnamenti essenziali, riservando il sesto anno all’integrazione critica delle nozioni apprese, incremento della pratica clinica professionalizzante. Per impedire una preparazione frettolosa e superficiale, inoltre, sarebbe una misura utile introdurre uno sbarramento al termine del secondo anno, fino a che non siano stati superati tutti gli esami del primo biennio.
Ci sono anche delle revisioni che gli Ordini chiedono da anni, ma ancora non trovano una soluzione condivisa, come l’introduzione nei programmi di materie sinora trascurate…
È vero. Nei programmi è ancora carente l’insegnamento della Deontologia, che è la base fondante di ogni pratica medica. E quello delle Scienze umane, che è alla radice della Relazione di Cura. Ancora: manca, nei piani di studi, l’insegnamento della Medicina Generale come disciplina a sé stante. La formazione accademica resta, purtroppo, centrata su una medicina clinica e non può che esprimere allo studente una realtà prettamente biologica della malattia, senza insegnargli l’approccio antropologico ai problemi e ai disagi esistenziali dell’uomo.
Autore: Redazione FNOMCeO