Cassazione Civile Ord. Num. 29853/18 – Responsabilità medica

Cassazione Civile Ord. Num. 29853/18 – Responsabilità medica – Nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica, è onere dell’attore, paziente danneggiato, dimostrare l’esistenza del nesso causale tra la condotta del medico e il danno di cui chiede il risarcimento; tale onere va assolto dimostrando, con qualsiasi mezzo di prova, che la condotta del sanitario è stata, secondo il criterio del “più probabile che non”, la causa del danno; se, al termine dell’istruttoria, non risulti provato il nesso tra condotta ed evento, per essere la causa del danno lamentato dal paziente rimasta assolutamente incerta, la domanda deve essere rigettata.

FATTO E DIRITTO: L.D.O. ha agito in giudizio nei confronti del Centro (Omissis) per ottenere il risarcimento dei danni (paraplegia, cistorettoparaplegia, insufficienza renale Ric. n. 6391/2017 – Sez. 3 – Ad. 28 settembre 2018 – Ordinanza – Pagina 1 di 9 terminale) a suo dire causati da trattamenti sanitari inadeguati che gli erano stati praticati presso la suddetta struttura sanitaria, in occasione di un intervento chirurgico di aneurismectomia dell’aorta toraco-addominale. La domanda è stata rigettata dal Tribunale di Mialno. La Corte di Appello di Milano, in riforma della decisione di pri- mo grado, la ha invece accolta, condannando l’istituto convenuto al pagamento dell’importo di C 884.604,96, oltre acces- sori, in favore dell’attore. Ricorre il Centro (Omissis)., sulla base di cinque motivi. Resistono con controricorso gli eredi di L.D.O.(deceduto nel corso del giudizio, in data 19 luglio 2015). Il ricorso è stato trattato in camera di consiglio, in applicazione degli artt. 375 e 380 bis.1 c.p.c.. L’ente ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c.. La decisione impugnata (come denunciato in particolare nel terzo motivo del ricorso) non è conforme, in diritto, ai principi in tema di accertamento e prova della condotta colposa e del nesso causale nelle obbligazioni risarcitorie affermati da questa Corte, che possono essere sintetizzati come segue: “sia nei giudizi di risarcimento del danno derivante da inadempimento contrattuale, sia in quelli di risarcimento del danno da fatto illecito, la condotta colposa del responsabile ed il nesso di causa tra questa ed il danno costituiscono l’oggetto di due accertamenti concettualmente distinti; la sussistenza del- la prima non dimostra, di per sé, anche la sussistenza del secondo, e viceversa; l’art. 1218 c.c. solleva il creditore della obbligazione che si afferma non adempiuta dall’onere di provare la colpa del debitore inadempiente, ma non dall’onere di provare il nesso di causa tra la condotta del debitore ed il danno di cui domanda il risarcimento; nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica, è onere dell’attore, paziente danneggiato, dimostrare l’esistenza del nesso causale tra la condotta del medico e il danno di cui chiede il risarcimento; tale onere va assolto di- mostrando, con qualsiasi mezzo di prova, che la condotta del sanitario è stata, secondo il criterio del “più probabile che non”, la causa del danno; se, al termine dell’istruttoria, non risulti provato il nesso tra condotta ed evento, per essere la causa del danno lamentato dal paziente rimasta assolutamente incerta, la domanda deve essere rigettata» (in tal senso, di recente, Cass. Sez. 3, Sentenza n. 18392 del 26/07/2017, Rv. 645164 – 01; conf.: Sez. 3, Sentenza n. 26824 del 14/11/2017; Sez. 3, Sentenza n. 26825 del 14/11/2017, non massimate). Ric. n. 6391/2017 – Sez. 3 – Ad. 28 settembre 2018 – Ordinanza – Pagina 3 di 9 Al contrario, il percorso argomentativo della corte di appello risulta fondato sulla premessa per cui, in materia di prestazioni sanitarie, sarebbe «a carico della struttura la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che l’esito negativo sia stato determinato da un evento imprevisto e imprevedibile» (pag. 10, righi 8/10); sulla base di tale erronea premessa, la conclusione è nel senso che, nella specie, il Centro (Omissis) non avrebbe assolto l’onere di dimostrare né l’esatta esecuzione della prestazione (tale per cui nessun rimprovero di scarsa diligenza o di imperizia possa esserle mosso), né l’assenza di incidenza causale dell’inadempimento della prestazione sanitaria, siccome con- testato, sulla produzione dei danni”. In tal modo risultano però in sostanza sovrapposti i profili della colpa e del nesso causale: viene cioè addossata di fatto alla struttura sanitaria la responsabilità dell’evento dannoso senza accertare in concreto se l’attore abbia adempiuto all’onere di dimostrare che effettivamente sussisteva un nesso di causa tra la condotta colposa dei sanitari ed il predetto evento. Anche in conseguenza di tale erronea impostazione in diritto, inoltre, la motivazione in base alla quale la corte territoriale ha disatteso le argomentate conclusioni del consulente tecnico di ufficio in merito alla insussistenza di una condotta colposa dei sanitari risulta (come denunciato nei primi due motivi del ricorso) in parte insanabilmente contraddittoria sul piano logico, in parte del tutto apodittica (quindi meramente apparente), in parte viziata da omesso esame di fatti decisivi. In particolare, la corte di appello ha ritenuto sussistere la responsabilità della struttura sanitaria (nonostante le espresse conclusioni contrarie del consulente tecnico), sulla base dei seguenti rilievi: un eccessivo tempo di clampaggio durante l’operazione, in relazione alla tecnica cd. del Quick Clamping; il numero insufficiente di operatori, in considerazione delle Ric. n. 6391/2017 – Sez. 3 – Ad. 28 settembre 2018 – Ordinanza – Pagina 4 di 9 concrete difficoltà dell’intervento; l’omissione della somministrazione, nei giorni successivi all’intervento, di trattamenti (quale un temporaneo supporto dialitico) per fronteggiare i problemi di funzionalità renale immediatamente manifestatisi; la mancata dimostrazione (in quanto non emergente dalla car- tella clinica) della effettuazione di una terapia anticoagulante prima e dopo l’intervento, anteriormente all’insorgenza dell’arresto circolatorio e respiratorio avvenuto due giorni do- po lo stesso. Orbene, anche nell’ottica di una corretta ricostruzione della fattispecie astratta sul piano dei principi di diritto applicabili (come sopra riportati), si tratta di argomenti insanabilmente illogici o totalmente apodittici. In primo luogo, per quanto riguarda il tempo di clampaggio, dalla stessa sentenza emerge una manifesta insanabile contraddizione logica. È infatti pacifico (la circostanza è chiara- mente affermata nella stessa decisione impugnata) che non venne affatto utilizzata la tecnica cd. del Quick Clamping (del resto possibile solo per l’aneurisma toracico discendente, non per quello toraco-addominale di tipo IV, di cui era portatore il D.O.), ma una diversa tecnica operatoria (indicata dal consulente tecnico come “clamp and sew tecnique”), per la quale i tempi di clampaggio ordinario sono maggiori e, come chiarito dal consulente tecnico di ufficio, in concreto rispettati. Sul piano logico, risulta insanabilmente contraddittorio affermare che i tempi di clampaggio furono eccessivi con riferimento ad una tecnica di intervento che si è espressamente dato atto non essere stata utilizzata (e che non poteva essere utilizzata), invece che con riferimento alla tecnica effettiva- mente utilizzata. Per quanto riguarda il numero di operatori, in relazione alle difficoltà concrete dell’intervento, nonostante il consulente tecnico di ufficio avesse fatto presente che i tre operatori im- Ric. n. 6391/2017 – Sez. 3 – Ad. 28 settembre 2018 – Ordinanza – Pagina 5 di 9 piegati dovevano ritenersi sufficienti ed adeguati per il tipo di intervento effettuato, la corte di appello si limita ad affermare che sul punto non vi era stata una adeguata risposta alle osservazioni del consulente di parte, il quale aveva in sostanza segnalato che sussistevano “anomalie della vascolarizzazione arteriosa tali da rendere la procedura di rivascolarizzazione delle arterie viscerali impegnativa e certamente non consueta”. Non viene però precisato espressamente quale sarebbe stato il numero di operatori necessario (e per quali motivi), in considerazione delle suddette difficoltà, ed in verità neanche si afferma espressamente che il numero di operatori utilizzato era concretamente insufficiente. L’argomentazione risulta in definitiva del tutto apodittica: che la procedura fosse “impegnativa e non consueta” non implica necessariamente (già solo sul piano logico) che per porla in essere fosse necessario un numero operatori maggiore di quello ordinario. Inoltre, non risulta in alcun modo accertato, in concreto, se con un numero maggiore di operatori si sarebbe potuta evitare la complicanza dell’ischemia-riperfusione che aveva causato al paziente la paraplegia e l’insufficienza renale denunziate. In definitiva, sul punto in esame, la motivazione risulta di fatto inesistente o, al più, solo apparente. Per quanto riguarda, infine, la mancata somministrazione, nei giorni successivi all’intervento, di trattamenti (quale il temporaneo supporto dialitico) per fronteggiare i problemi di funzio- nalità renale e la mancata effettuazione della terapia anticoagulante prima e dopo l’intervento (in quanto non emergente dalla cartella clinica), valgono considerazioni analoghe. La corte di appello dà atto che i danni al paziente sono stati determinati dall’insorgere, durante l’intervento, di una ischemia-riperfusione (definita una “complicanza” dell’intervento stesso, nella letteratura medica.

Autore: Marcello Fontana - Ufficio Legislativo FNOMCeO

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