Cassazione Civile Ordinanza n. 29827/19 – Chirurgia estetica e consenso informato

Il consenso deve formarsi non solo in ordine ai rischi dell’intervento ed alle tecniche prescelte, ma anche in ordine al risultato estetico che da esso scaturirà, non potendo essere in ogni caso lasciata al sanitario la scelta sulla opzione esteticamente preferibile, che è scelta estremamente privata e riservata al paziente.

FATTO E DIRITTO: Il dott. A. M. propone ricorso per cassazione articolato in sei motivi nei confronti di A. A. e B. M. A., madre e figlia, nonché di Generali Italia s.p.a., per la cassazione della sentenza n. 873\2018, depositata il 24.4.2018 dalla Corte d’Appello di Palermo, notificata 1’11 maggio 2018 (come precisato nel ricorso introduttivo), con la quale, sovvertendo l’esito del giudizio di primo grado, veniva condannato a pagare euro 99.000,00 circa in favore della Azzolina ed euro 111.000,00 circa in favore della B., a titolo di risarcimento del danno conseguente alla mancanza di un valido e preventivo consenso informato all’esecuzione sulla persona di entrambe di interventi di mastopiastica additiva con inserimento di protesi e per non aver eseguito gli interventi correttamente. A. e B. resistono con controricorso. Essendosi ravvisate le condizioni per la trattazione ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., nel testo modificato dal d.l. n. 168 del 2016, convertito, con modificazioni, dalla I. n. 197 del 2016, è stata formulata dal relatore designato proposta di definizione del ricorso con declaratoria di improcedibilità dello stesso. Il decreto di fissazione dell’udienza camerale e la proposta sono stati comunicati. Il ricorrente ha presentato memoria. Considerato che:  Nella proposta depositata si proponeva la declaratoria di improcedibilità in quanto il ricorso, notificato il 10 luglio 2018 e proposto avverso la sentenza di appello pubblicata il 24.4.2018, pur facendo riferimento all’intervenuta notifica della sentenza impugnata, avvenuta in data 11.5.2018, non era accompagnato dalla produzione della copia notificata della sentenza, né risultava notificato nei sessanta giorni dal deposito del provvedimento impugnato. o Il procuratore del M., in allegato alla memoria, deposita la copia notificata della sentenza, in precedenza mancante, dalla quale risulta la notifica nel giorno indicato. Ciò non consente di superare il prospettato profilo di improcedibilità perché, ai fini della procedibilità del ricorso, l’art. 369, secondo comma, n. 2 c.p.c. prevede che debba essere depositata unitamente al ricorso, nel termine di venti giorni dall’ultima notificazione, la copia autentica del provvedimento impugnato munita della relata di notificazione se questa è avvenuta, né tale deposito può avvenire tardivamente, come previsto dall’art. 372 secondo comma c.p.c., in quanto la possibilità del deposito di documenti scissa da quella degli atti introduttivi è consentita solo qualora essi siano relativi all’ammissibilità del ricorso stesso, e non anche alla procedibilità. o La tardiva produzione della copia notificata del provvedimento impugnato non consente quindi di ritenere realizzata la condizione di procedibilità. o Peraltro, anche qualora si fosse scesi all’esame del merito, il ricorso non avrebbe potuto avere esito positivo in quanto manifestamente infondato. Con i primi tre motivi, il ricorrente si duole, sotto diversi ma connessi profili, della violazione e falsa applicazione delle norme sul consenso informato, in realtà contrapponendo genericamente alla valutazione della corte d’appello una diversa ricostruzione, fondata sulla valorizzazione di prove testimoniali non ritenute determinanti dal giudice per la formazione del proprio convincimento in ordine alla sussistenza di un valido consenso orale. Inoltre, confonde il danno da lesione alla salute con la lesione del diritto ad esprimere, prima di una operazione, un consapevole consenso informato ed omette anche di considerare la particolarità della chirurgia estetica, in cui il consenso deve formarsi non solo in ordine ai rischi dell’intervento ed alle tecniche prescelte, ma anche in ordine al risultato estetico che da esso scaturirà, non potendo essere in ogni caso lasciata al sanitario la scelta sulla opzione esteticamente preferibile, che è scelta estremamente privata e riservata al paziente: è questo, appunto l’inadempimento qualificato ascritto al M., che non ha ritenuto fosse suo dovere comunicare ad una delle due pazienti che avrebbe inserito una protesi additiva del seno, ovvero un corpo estraneo e che gli interventi, così come eseguiti, avrebbero comportato un aumento di due taglie, non necessario e pacificamente evitabile con diversa tecnica chirurgica migliorativa dell’aspetto estetico. Come osserva correttamente la corte d’appello, è evidente che l’esecuzione di una diversa operazione/ quale che sia la tecnica utilizzata con modalità più o meno corrette, implica di per sé non solo un inadempimento contrattuale ex art. 1218 c.c. ma anche la lesione dell’integrità psicofisica della paziente ex art.2043 c.c., sottoposta ad un inutile rischio chirurgico e costretta, in seguito, a rioperarsi per eliminare l’effetto indesiderato dell’aumento del volume del seno ed ottenere quello voluto di revisione della mastopessi. Parimenti infondato è il quarto motivo, con il quale il ricorrente si duole della quantificazione del danno estetico ed in particolare della sua liquidazione rapportata alle voci di danno biologico delle tabelle di Milano, sostenendo: che nessun esito permanente rimanga, essendo stata la situazione modificata con un nuovo intervento eseguito nel 2006; che nessuna invalidità permanente possa conseguire ad un intervento estetico (ben riuscito). La corte d’appello ha liquidato il danno non patrimoniale conseguente alla cattiva esecuzione degli interventi e alla modifica non voluta dell’aspetto estetico di entrambe, con valutazione equitativa della inabilità temporanea rapportata al lasso di tempo tra gli interventi eseguiti dal M. e i successivi interventi ai quali si sono sottoposte le due donne per eliminare i risultati non voluti e conseguire l’effetto estetico non raggiunto a causa della cattiva esecuzione dell’intervento (quanto alla B.), agganciando correttamente la liquidazione equitativa della voce di danno correttamente individuata, alle tabelle milanesi, indicate da questa Corte come idoneo parametro di riferimento. Il quinto motivo, laddove deduce la violazione dell’art. 246 c.p.c. avendo la corte ritenuto incapace a testimoniare la teste T. sarebbe irrilevante, nella economia della decisione. Il sesto motivo, relativo alla violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., per aver il giudice d’appello mal valutato le risultanze istruttorie, sarebbe inammissibile. Il ricorso deve quindi essere dichiarato improcedibile.  Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come al dispositivo. Il ricorso per cassazione è stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013 e il ricorrente risulta soccombente; pertanto egli è gravato dall’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis dell’ art. 13, comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Pone a carico del ricorrente le spese di giudizio sostenute dalla parte controricorrente, che liquida in complessivi euro 6.000,00 oltre 200,00 per esborsi, oltre contributo spese generali ed accessori. Dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale.

Autore: Marcello Fontana - Ufficio Legislativo FNOMCeO

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