Cassazione Civile Sentenza n. 10158/2018 – Responsabilità dei medici radiologi – La Corte di Cassazione ha affermato che non rientra nei compiti dei medici radiologi (e, dunque, non clinici e neppure chirurghi), chiamati ad eseguire la mammografia e a darne corretta lettura, quello di visitare la paziente, anche in considerazione delle difficoltà e delle insidie che comporta la delicatissima semiologia mammaria e quello di suggerire lo svolgimento di altri esami o richiedere un consulto di altri specialisti, di talché la mancata esecuzione dell’approfondimento diagnostico, che era stato consigliato alla paziente nel certificato medico 2/12/1987, non poteva essere imputato loro (intervenuti oltre 10 anni dopo); pertanto in assenza di uno specifico comprovato addebito colposo, elevabile nei confronti dei medici radiologi, perde rilievo la disamina della sussistenza del nesso di causalità tra la condotta dagli stessi tenuti e l’evento letale poi purtroppo verificatosi. Il Tribunale aveva rilevato che l’esame mammografico, da solo, non era sufficiente alla formulazione di una diagnosi senologica corretta, in quanto esso deve seguire o precedere la valutazione clinica da parte dello specialista, senologo od oncologo, cui, nel caso di specie, la Sig.ra E. L. aveva ritenuto di non doversi rivolgere, anche se ciò avrebbe probabilmente consentito una diagnosi più precoce del tumore.
FATTO E DIRITTO: Nel maggio 2000 la sig.ra E. L. conveniva in giudizio avanti al Tribunale di Crema il dr. M. P., la dott.ssa A. M. e l’Azienda Ospedaliera “Ospedale Maggiore” di Crema, esponendo quanto segue: – si era sottoposta, nel dicembre 1987, a visita mammografica presso l’ospedale di Leno e, all’esito di detta visita, era stato stilato referto radiologico che evidenziava, in corrispondenza del quadrante esterno della mammella destra, pressoché sul piano equatoriale, una piccola formazione opaca, di forma ovoidale e di natura benigna; – dopo tale evento, si era sottoposta a periodici controlli, con cadenza sostanzialmente semestrale; – il 2 dicembre 1997 si era sottoposta a mammografia presso l’Ospedale Maggiore di Crema e, in tale occasione, il medico che aveva eseguito l’esame radiologico, dott.ssa A. M., non aveva ritenuto opportuna l’esecuzione di altri esami di approfondimento; – il 3 giugno 1998 si era sottoposta a mammografia presso l’Ospedale Maggiore di Crema e, in tale occasione, il medico che aveva eseguito l’esame radiologico, dott. M. P., aveva stilato referto radiografico che concludeva come segue: “Obiettività rx del tutto stazionaria rispetto ad ultima indagine del dicembre 1997; in particolare risulta immodificato il raggruppamento di piccole calcificazioni al quadrante esterno. Si consiglia nuovo controllo unicamente alla mammella destra fra 6-8 mesi”; – il 24 febbraio 1999 si era nuovamente sottoposta a mammografia presso l’Ospedale Maggiore di Crema e, in tale occasione, l’esame radiologico era stato eseguito ancora dal predetto dott. P., il quale aveva stilato referto radiologico del seguente tenore: “Lo studio della mammella dx effettuato con mammografia nel piano frontale ed obliquo medio laterale con tecniche differenziate documenta la presenza di addensamento, a profili sfrangiati ed irregolari del diam. Trasverso max di circa 3-4 cm localizzato al quadrante supero/esterno dx. Sono inoltre presenti in adiacenza all’addensamento sopradescritto alcune piccole calcificazioni raggruppate stabili rispetto a precedenti controlli. A completamento della indagine mammografica è stata eseguita indagine etg, che viene allegata che conferma e documenta la presenza di lesione solida etero di 3-4 cm con piccoli noduli satelliti. Si richiede ricovero ospedaliero per accertamenti e cure del caso”; – successivamente, in data 4 marzo 1999, era stata ricoverata presso l’Istituto Europeo Oncologico di Milano, ove era stata sottoposta ad intervento chirurgico d’urgenza, seguito da esame istologico, che aveva sorretto la diagnosi di “carcinoma duttale infiltrante dall’elevato grading (43) e metastasi linfonodali in tre dei ventisei linfonodi esaminati”. Tanto premesso in fatto, la sig.ra E. L. chiedeva la condanna solidale dei convenuti al risarcimento dei danni derivati dagli esiti della vicenda delineata, addebitando alla dott.ssa M. ed al dott. P. colpa professionale/responsabilità extracontrattuale, e, all’ospedale, responsabilità contrattuale, in relazione alla tardiva diagnosi, a sua volta conseguita alla mancata esecuzione di approfondimenti assolutamente necessari ed ineludibili, ai fini di una diagnosi senologica corretta ed esaustiva. Il ricorso è inammissibile. Come risulta dalla sentenza impugnata, il Tribunale – dopo aver richiamato il principio per cui il nesso causale è ravvisabile allorquando, alla stregua del giudizio controfattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica-universale o statistica, si accerti che, ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta doverosa impeditiva dell’evento “hic et nunc”, questo non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato in un’epoca significativamente posteriore o con minor intensità lesiva – calando tale principio nel caso di specie, ha respinto la domanda risarcitoria sulla base delle seguenti argomentazioni: – il giudice non può desumere la sussistenza di detto nesso dal mero coefficiente di probabilità, espresso dalle legge statistica, ma deve verificare la validità di detta legge nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile, così che, ad esito del ragionamento probatorio che escluda l’esistenza di fattori alternativi, risulti giustificato e processualmente certo concludere che la condotta omissiva o in ogni caso colpevole del medico, con elevato grado di credibilità razionale o probabilità logica, è stata condizione necessaria dell’evento lesivo; – detta indagine, nella presente controversia aveva reso necessaria l’effettuazione di tre consulente tecniche d’ufficio, a cagione del contrasto determinatosi fra le conclusioni raggiunte dai professionisti di volta in volta incaricati; – andava condiviso il giudizio espresso dal dott. G. nell’elaborato depositato il 30 maggio 2006; questi, in sintesi, aveva escluso che la condotta posta in essere dai sanitari convenuti fosse passibile di censure, in quanto questi erano medici radiologi (e, dunque, non clinici e neppure chirurghi) e non potevano sostituirsi a questi ultimi, non rientrando nei loro compiti quello di visitare la paziente , anche in considerazione delle difficoltà e delle insidie che comporta la delicatissima semiologia mammaria: in sostanza, l’esame mammografico, da solo, non era sufficiente alla formulazione di una diagnosi senologica corretta, in quanto esso deve seguire o precedere la valutazione clinica da parte dello specialista, senologo od oncologo, cui, nel caso di specie, la Sig.ra E. L. aveva ritenuto di non doversi rivolgere, anche se ciò avrebbe probabilmente consentito una diagnosi più precoce del tumore. Deve qui ribadirsi che, da un lato, il giudice di merito non è tenuto a valutare singolarmente tutte le risultanze processuali e a confutare tutte le argomentazioni prospettate dalle parti, ma è sufficiente che, dopo avere vagliato le une e le altre nel loro complesso, indichi gli elementi sui quali intende fondare il proprio convincimento, dovendosi ritenere disattesi, per implicito, tutti gli altri rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata; e, dall’altro, non rientra nel sindacato di questo giudice di legittimità la facoltà di riesaminare e valutare il merito della causa, essendo stato demandato dal legislatore a questa Corte il controllo della sentenza impugnata sotto l’esclusivo profilo logico-formale della correttezza giuridica. Sotto detto profilo – premesso che nella sentenza impugnata non viene affatto affermata l’inutilità di una diagnosi precoce della neoplasia alla mammella e men che meno viene affermato che, in tale prospettiva, non assumano rilievo altri accertamenti, oltre alla mammografia – si ricorda che: a) il focolaio di neoplasia, che era stato evidenziato dal dott. P. nella mammografia di febbraio 1999, non era visibile nelle due precedenti mammografie del dicembre 1987 e del giugno 1998; b) in presenza di micro- calcificazioni benigne, quali quelle apparse nelle mammografie del dicembre 1987 e del giugno 1998, le linee guida internazionali prevedono un follow up mammografico da effettuarsi in tempi brevi (e non indagini invasive, quali la biopsia in sterotassi); c) a tali linee guida risultano essersi attenuti la dott.ssa M. ed il dott. P., i quali, in tempi diversi, hanno entrambi consigliato alla sig.ra E. L. controlli ravvicinati; d) solo l’esecuzione di una ecografia nel giugno 1998 avrebbe potuto evitare il tumore, ma il ctu, come rilevano gli stessi ricorrenti (p. 11, righi 4-5), aveva ritenuto che, a detta data, “non v’era alcuna indicazione alla esecuzione della medesima”; e) entrambi i sanitari intervenuti erano radiologi, chiamati ad eseguire la mammografia e a darne corretta lettura, e non rientrava nei loro compiti suggerire lo svolgimento di altri esami o richiedere un consulto di altri specialisti, di talché la mancata esecuzione dell’approfondimento diagnostico, che era stato consigliato alla paziente nel certificato medico 2/12/1987, non poteva essere imputato loro (intervenuti oltre 10 anni dopo); f) in assenza di uno specifico comprovato addebito colposo, elevabile nei confronti dei medici radiologi, perde rilievo la disamina della sussistenza del nesso di causalità tra la condotta dagli stessi tenuti e l’evento letale poi purtroppo verificatosi. La Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso.