Cassazione Civile Sentenza n. 10424/19 – Responsabilità medica – Danni risarcibili

Cassazione Civile Sentenza n. 10424/19 – Responsabilità medica – Danni risarcibili- In presenza di colpevoli ritardi nella diagnosi di patologie ad esito infausto, l’area dei danni risarcibili non si esaurisce nel pregiudizio recato alla integrità fisica del paziente, ma include la perdita di un “ventaglio” di opzioni, con le quali affrontare la prospettiva della fine ormai prossima: “non solo l’eventuale scelta di procedere (in tempi più celeri possibili) all’attivazione di una strategia terapeutica, o la determinazione per la possibile ricerca di alternative d’indole meramente palliativa, ma anche la stessa decisione di vivere le ultime fasi della propria vita nella cosciente e consapevole accettazione della sofferenza e del dolore fisico (senza ricorrere all’ausilio di alcun intervento medico) in attesa della fine).

FATTO E DIRITTO. 1. A., P., A. R., L. e M. T. F., ricorrono, sulla base di tre motivi, per la cassazione della sentenza n. 89/16, del 2 febbraio 2016, della Corte di Appello di Lecce, che ha rigettato la domanda risarcitoria proposta dagli odierni ricorrenti, nei confronti dell’Azienda Unità Sanitaria (d’ora in poi, “ASL “), in relazione al decesso della propria congiunta, G. L.. Riferiscono, in punto di fatto, gli odierni ricorrenti di avere adito il Tribunale leccese per conseguire il risarcimento dei danni, “iure proprio” e “iure hereditatis”, conseguenti al decesso della predetta L. (rispettivamente, moglie madre), ed addebitati ad un errore diagnostico della predetta ASL. Deducono, infatti, che alla L. – dopo che la stessa era stata sottoposta, il 13 giugno 1996, presso il presidio ospedaliero, ad un intervento, eseguito in laparotomiCassa, di asportazione bilaterale delle ovaie – veniva comunicato l’esito dell’esame istologico del 12 luglio dello stesso anno, che evidenziava l’asportazione di fibroma benigno. Tuttavia, colpita mesi dopo da nuovi dolori nella zona pelvica, la donna si ricoverava presso altra azienda ospedaliera, ove – nel mese di marzo del 1997, all’esito di una rinnovata valutazione dei vetrini del precedente esame istologico – le veniva diagnosticato un sarcoma del tessuto muscolare liscio che la conduceva alla morte il 19 ottobre 1997. Ritenendo che l’errore diagnostico – impedendo una diagnosi precoce del tumore – avesse privato la loro congiunta della possibilità di rimediare a tale patologia, e dunque di evitare il decesso, ovvero, che esso, in ogni caso, avesse privato la donna di “chance” di maggiore e migliore sopravvivenza, incidendo comunque sulla qualità della sua vita residua, gli odierni ricorrenti (marito e figli della L.) convenivano in giudizio la ASL. Questa, a propria volta, era autorizzata a chiamare in causa, oltre al proprio assicuratore, anche la società Centro Diagnostico, che aveva eseguito l’esame istologico. Quest’ultima, per parte propria, oltre a proporre domanda di manleva verso il proprio assicuratore, indicava l’effettivo responsabile dell’errore diagnostico nel Dott. M. F., del quale era autorizzata la chiamata in causa e che proponeva, a propria volta, domanda di garanzia verso il proprio assicuratore. All’esito del giudizio di primo grado, disposta CTU medico-legale, la domanda attorea veniva integralmente rigettata, con decisione confermata – non senza che si desse corso a rinnovazione della consulenza tecnica d’ufficio – dalla Corte di Appello di Lecce, che respingeva il gravame degli attori soccombenti. 3. Avverso la sentenza della Corte salentina hanno proposto ricorso per cassazione i T. F., sulla base – come detto – di tre motivi. 3.1. Il primo motivo deduce – ai sensi dell’art. 360, comma 1, nn. 3) e 4), cod. proc. civ. – nullità della sentenza per violazione degli artt. 112 e 277 cod. proc. civ., oltre che per assenza assoluta della motivazione ex art. 132, comma 2, n. 4), cod. proc. civ. In particolare, si assume che la nullità avrebbe “una triplice scaturigine”: per avere il giudice di appello “completamente obliterato 4 Ta.z, il principio della necessaria corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato”; per essersi lo stesso sottratto all’obbligo di decidere “su tutti i motivi di appello, sia pure in maniera concisa, esponendo le «ragioni di fatto e di diritto della decisione»”; per essere la sua “apparente motivazione” del tutto “intrisa di contraddizioni, che a loro volta sono il riflesso della C.T.U.” (del primo, come del secondo grado di giudizio). I ricorrenti censurano la sentenza impugnata per aver liquidato in poche righe il gravame da essi proposto, con un mero simulacro di motivazione, risultando, infatti, impossibile – a loro dire – persino ritenere soddisfatto “ob relationem” (ovvero, con riferimento a quanto statuito dal primo giudice) l’obbligo di illustrare i motivi della decisione. 3.2. Il secondo motivo di ricorso ipotizza violazione “a contrario” dell’art. 360-bis cod. proc. civ., per essere stati disattesi i principi della giurisprudenza di legittimità in tema di accertamento del nesso causale, in materia di responsabilità per attività medico-chirurgica. Si contesta la sentenza impugnata laddove essa ha confermato la reiezione della domanda risarcitoria, sul presupposto che, “pur ipotizzando una corretta diagnosi sin dal giugno 1996”, la stessa sarebbe stata priva di “conseguenze terapeutiche, sia in termini di guarigione, sia in termini di possibilità di cura che potevano incidere sulla qualità della vita della paziente stessa”, e ciò in ragione del fatto che l’intervento immediatamente praticato (una “isterectomia totale con anessiectomia bilaterale”), costituiva “intervento di elezione [anche, n.d.r.] in caso di carcinoma maligno (nella specie sussistente, seppure ancora non diagnosticato)”. In questo modo, tuttavia, la sentenza impugnata avrebbe disatteso i principi affermati da questa Corte (è citata, segnatamente, Cass. Sez. 3, sent. 18 settembre 2008, n. 23846). Essa, in particolare, non avrebbe considerato che, in presenza di una tempestiva diagnosi, residuavano alla L. concrete possibilità di guarire dal carcinoma (considerato che – come evidenziato nei rilievi critici alla CTU formulati dal consulente di parte allora appellante – “nell’8°/0 di casi analoghi tale esito fausto è stato euristicamente constatato”), e comunque ignorando “il profilo della perdita della qualità di vita” sussistente “anche per il periodo successivo alla diagnosi esatta praticata nell’altra struttura ospedaliera”. In relazione, in particolare, a tale aspetto, si sottolinea – sulla scorta del già citato arreso di questa Corte – come “da una diagnosi esatta di una malattia ad esito ineluttabilmente infausto consegue che il paziente, oltre ad essere messo nelle condizioni per scegliere, se possibilità di scelta vi sia, «che fare» nell’ambito di quello che la scienza medica suggerisce per garantire la fruizione della salute residua fino all’esito infausto, è anche messo in condizione di programmare il suo essere persona e, quindi, in senso lato l’esplicazione delle sue attitudini psico-fisiche nel che quell’essere si esprime, in vista di quell’esito” (così Cass. Sez. 3, sent. n. 23846 del 2008, cit.). 3.3. Infine, con il terzo motivo si ipotizza – ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ., in relazione all’art. 115, commi 1 e 2, cod. proc. civ. – “violazione del principio dell’onere della prova nel contraddittorio processuale”. Si censura la sentenza impugnata per aver acriticamente recepito le risultanze della (doppia) CTU, essendo, per contro, “sempre censurabile l’abdicazione della competenza funzionale del Giudice e quindi del suo «ius decidendi», in favore del suo ausiliario”. 4. Hanno resistito all’impugnazione, con distinti controricorsi, le società A. e G., e il F., mentre l’ASL e il C.D. hanno esperito, ciascuno, anche ricorso incidentale, con il quale, oltre a riproporre la domanda di garanzia verso i rispettivi assicuratori, hanno chiesto l’accertamento della responsabilità nella causazione dei danni (la prima) del CD e del F., nonché (il secondo) del solo F. Inoltre, taluna di dette parti ha eccepito il difetto di procura per A. T. F. (CD e F.) o per tutti i ricorrenti, l’intempestività del ricorso, l’inammissibilità dei motivi formulati a norma dell’art. 360, comma 1, n. 5), cod. proc. civ., ex art. 348-ter, ultimo comma, cod. proc. civ.. 5. Hanno presentato memoria, ex art. 378 cod. proc. civ., le ricorrenti (in persona di nuovo difensore), la ricorrente incidentale ASL e i controricorrenti, insistendo nelle rispettive argomentazioni e replicando a quelle avversarie. RAGIONI DELLA DECISIONE 6. “In limine”, devono esaminarsi le eccezioni preliminari dianzi riassunte. 6.1. Deve, innanzitutto, escludersi che l’impugnazione sia intempestiva, per decorso del “termine breve” ex art. 325 cod. proc. civ., giacché, se il ricorso è stato presentato per la notificazione il sessantunesimo giorno successivo (13 giugno 2016) alla notificazione della sentenza impugnata (avvenuta il 12 aprile dello stesso anno), deve rilevarsi che il 12 giugno 2016 era domenica, sicché il termine per impugnare è stato prorogato al giorno successivo.6.2. Quanto, invece, al dedotto difetto di valida procura speciale ex art. 365 cod. proc. civ., mentre tale evenienza ricorre – in mancanza di sottoscrizione della stessa da parte dell’interessato, la stessa va esclusa per gli altri ricorrenti. L’eccezione, in questo caso, è basata sulla mancanza, nella procura, sia della data, sia di un espresso riferimento al giudizio di cassazione, oltre che sull’incompletezza del domicilio eletto. Trattandosi, tuttavia, di procura “a margine” del ricorso, trova applicazione il principio secondo cui “ai fini dell’ammissibilità del ricorso per cassazione, sotto il profilo della sussistenza della procura speciale in capo al difensore iscritto nell’apposito albo, è essenziale che la procura sia conferita in epoca anteriore alla notificazione del ricorso, che investa il difensore espressamente del potere di proporre quest’ultimo e che sia rilasciata in epoca successiva alla sentenza oggetto dell’impugnazione; ove sia apposta a margine del ricorso, tali requisiti possono desumersi, rispettivamente, quanto al primo, dall’essere stata la procura trascritta nella copia notificata del ricorso, e, quanto agli altri due, dalla menzione della sentenza gravata risultante dall’atto a margine del quale essa è apposta, restando, invece, irrilevante che la procura sia stata conferita in data anteriore a quella della redazione del ricorso e che non sia stata indicata la data del suo rilascio, non essendo tale requisito previsto a pena di nullità” (Cass. Sez. 2, sent. 17 marzo 2017, n. 7014, Rv. 643376-01). Neppure può porsi, poi, un problema di validità della procura in relazione all’incompletezza dell’indirizzo eletto, non essendo tale indicazione necessaria ai sensi degli artt. 83 e 365 cod. proc. civ Valida procura, inoltre, è stata rilasciata dalle ricorrenti al nuovo difensore. La stessa, difatti, risulta conferita mediante atto notarile, trovando, pertanto, applicazione il principio secondo cui “il nuovo testo dell’art. 83 cod. proc. civ. secondo il quale la procura speciale può essere apposta a margine od in calce anche di atti diversi dal ricorso o dal controricorso, si applica esclusivamente ai giudizi instaurati in primo grado dopo la data di entrata in vigore dell’art. 45 della legge 18 giugno 2009, n. 69 (ovvero, il 4 luglio 2009), mentre per i procedimenti instaurati anteriormente a tale data” (come quello presente, risalente all’anno 2000), “se la procura non viene rilasciata a margine od in calce al ricorso e al controricorso, si deve provvedere al suo conferimento mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata, come previsto dall’art. 83, secondo comma, cod. proc. civ.” (cfr., “ex multis”, Cass. Sez. 3, sent. 27 agosto 2014, n. 18323, Rv. 632092-01). 6.3. Non fondata è, infine, anche l’eccezione di inammissibilità del motivo proposto a norma dell’art. 360, comma 1, n. 5), cod. proc. civ., eccezione formulata ai sensi dell’art. 348-ter, ultimo comma, cod. proc. civ., non essendo tale norma applicabile “ratione temporis” ai giudizi di appello – come quello che ha messo capo alla sentenza oggi impugnata – introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione anteriormente all’il settembre 2012 (cfr. Cass. Sez. 5, sent. 18 dicembre 2014, n. 26860, Rv. 633817-01; in senso conforme Cass. Sez. 6-Lav., ord. 9 dicembre 2015, n. 24909, Rv. 638185-01; nonché Cass. Sez. 6-5, ord. 11 maggio 2018, n. 11439, Rv. 648075-01). 7. Ciò premesso, il ricorso principale – i cui motivi possono trattarsi congiuntamente, data la loro connessione – è fondato, sebbene per quanto di ragione e nei limiti che si andranno ad indicare. 7.1. L’impugnazione dei ricorrenti, per vero, mentre non può essere accolta laddove addebita alla Corte territoriale di aver “abdicato” all’esercizio della funzione giudiziaria in favore del consulente tecnico d’ufficio, ovvero rivolge critiche non meglio circostanziate – come si dirà – all’elaborato da esso predisposto, coglie, invece, nel segno, nella restante parte. È, infatti, fondata la censura che investe la decisione del giudice di appello per non avere considerato (con motivazione, oltretutto, ai limiti del “minimo costituzionale”) un danno che rientra, invece, nello spettro di quelli risarcibili in relazione a fattispecie – come la presente – di mancata tempestiva diagnosi di patologie destinate, comunque, ad esito infausto, ovvero a prescindere dalla pur acclarata omissione riscontrata a carico dei sanitari. 7.1.1. Ciò premesso, destituito di fondamento è il terzo motivo del ricorso principale, e ciò alla stregua del principio secondo cui, in materia di responsabilità sanitaria, “la consulenza tecnica è di norma «consulenza percipiente» a causa delle conoscenze tecniche specialistiche necessarie, non solo per la comprensione dei fatti, ma per la rilevabilità stessa dei fatti, i quali, anche solo per essere individuati, necessitano di specifiche cognizioni e/o strumentazioni tecniche; atteso che, proprio gli accertamenti in sede di consulenza offrono al giudice il quadro dei fattori causali entro il quale far operare la regola probatoria della certezza probabilistica per la ricostruzione del nesso causale” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 20 ottobre 2014, n. 22225, Rv. 632945-01). 7.1.2. D’altra parte, neppure può trovare accoglimento la censura relativa alla (supposta) erroneità e/o contraddittorietà della (duplice) CTU, e di riflesso della sentenza impugnata che l’ha recepita, basata sulla deduzione – proposta ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5), cod. proc. civ. – della mancata considerazione di rilievi, svolti dal consulente della parte odierna ricorrente, tesi ad evidenziare come, in presenza di una tempestiva diagnosi del carcinoma che condusse alla morte la L., sarebbe residuata, per la stessa, una piccola probabilità di guarigione (stimata in misura pari all’8` )/0). Siffatta censura è inammissibile, a tacer d’altro, per violazione dell’art. 366, comma 1, n. 6), cod. proc. civ. Difatti, “la contestazione del vizio motivazionale elevata nei confronti della motivazione della sentenza che recepisca le conclusioni della CTU non può limitarsi al rilievo di una insufficienza dell’indicazione delle ragioni del detto recepimento”, dovendo il ricorrente indicare – a norma dell’art. 366, comma 1, n. 6) cod. proc. civ. – “il «fatto storico», il cui esame sia stato omesso, il «dato», testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il «come» e il «quando» tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua «decisività»”; ciò che questa Corte ha ritenuto debba escludersi qualora, come anche nel caso in esame, nella “articolazione delle censure” non venga specificatamente indicato in quale parte la CTU “non si sia fatta carico di esaminare e confutare i rilievi di parte, limitandosi la ricorrente a giustapporre le proprie valutazioni (…) alle conclusioni dei consulenti”, senza che siano “precisati i passaggi della consulenza nella quale siano mancati l’esame e la confutazione dei rilievi di parte” (cfr. Cass. Sez. 3, sent. 26 luglio 2017, n. 18391, non massimata). 7.1.3. Il ricorso merita, invece, accoglimento, laddove censura la sentenza impugnata – tanto con il primo motivo, “sub specie” di carenza assoluta di motivazione, quanto con il secondo, per violazione (nella sostanza) dell’art. 2059 cod. civ. – per aver identificato i danni astrattamente risarcibili nel caso di specie, in particolare tra quelli fatti valere “iure hereditatis” dagli odierni ricorrenti, esclusivamente nella perdita di chance di guarigione, ovvero di più prolungata (e qualitativamente migliore) sopravvivenza alla patologia ad esito letale da cui la L. era affetta. 7.1.3.1. Invero, già in passato questa Corte – con riferimento a fattispecie di omessa tempestiva diagnosi di patologie oncologiche ad esito, comunque, infausto – ha ritenuto erroneo affermare che tale condotta “non abbia inciso sulla qualità di vita” del paziente; una simile affermazione, infatti, non tiene in debito conto, innanzitutto, la possibilità che – nel lasso di tempo intercorso tra “la diagnosi errata e quella esatta” – il paziente abbia visto “perdurare il suo stato di sofferenza fisica senza che ad esso potesse essere apportato un qualche pur minimo beneficio perché vi era stata quella diagnosi erronea” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 18 settembre 2008, n. 23846, Rv. 604659-01). Inoltre, come hanno rilevato gli stessi ricorrenti nella illustrazione del secondo motivo di impugnazione, la Corte territoriale ha mancato di considerare che “da una diagnosi esatta di una malattia ad esito ineluttabilmente infausto consegue che il paziente, oltre ad essere messo nelle condizioni per scegliere, se possibilità di scelta vi sia, «che fare» nell’ambito di quello che la scienza medica suggerisce per garantire la fruizione della salute residua fino all’esito infausto, è anche messo in condizione di programmare il suo essere persona e, quindi, in senso lato l’esplicazione delle sue attitudini psico-fisiche nel che quell’essere si esprime, in vista di quell’esito” (così Cass. Sez. 3, sent. n. 23846 del 2008, cit.). 7.1.3.2. Orbene, nel negare rilievo a tale tipo di danno, il giudice di appello – come già quello di prime cure – è incorso un vizio che inficia irrimediabilmente la sentenza impugnata. La Corte salentina, difatti, ha incentrato la propria (scarna) motivazione, a supporto del rigetto della domanda risarcitoria proposta dagli odierni ricorrenti, esclusivamente sull’assenza di prova – attestata dall’espletata, duplice, CTU – che la ritardata diagnosi del carcinoma abbia compromesso chance di guarigione della paziente o, quantomeno, di maggiore (e migliore) sopravvivenza. Così ragionando, tuttavia, essa ha ignorato che il ritardo diagnostico (peraltro, acclarato come sicuramente negligente) ha determinato – come sottolineato, di recente, da questa Corte, sempre con riferimento a fattispecie analoga a quella oggi in esame – “la perdita diretta di un bene reale, certo (sul piano sostanziale) ed effettivo, non configurabile alla stregua di un «quantum» (eventualmente traducibile in termini percentuali) di possibilità di un risultato o di un evento favorevole (secondo la definizione elementare della chance comunemente diffusa nei discorsi sulla responsabilità civile), ma apprezzabile con immediatezza quale correlato del diritto di determinarsi liberamente nella scelta dei propri percorsi esistenziali in una condizione di vita affetta da patologie ad esito certamente infausto” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, ord. 23 marzo 2018, n. 7260, Rv. 647957-01). È, dunque, la lesione di tale libertà che è rimasta priva di ogni considerazione da parte della sentenza impugnata, ovvero quella di scegliere come affrontare l’ultimo tratto del proprio percorso di vita, una situazione, questa, meritevole di tutela “al di là di qualunque considerazione soggettiva sul valore, la rilevanza o la dignità, degli eventuali possibili contenuti di tale scelta” (così, del pari, Cass. Sez. 3, ord. n. 7260 del 2018, cit.). Del pari, questa Corte ha sottolineato l’autonomia che tale tipo di danno presenta rispetto a quello da “perdita di chance”, pure ipotizzabile in caso di “malpractice” sanitaria. Si è, infatti, affermato che, quando “la condotta colpevole del sanitario non ha avuto alcuna incidenza causale sullo sviluppo della malattia, sulla sua durata e sull’esito finale, rilevando di converso, «in pejus», sulla sola (e diversa) qualità ed organizzazione della vita del paziente”, si è in presenza di un “evento di danno” e di un “danno risarcibile” che è “in tal caso rappresentato da tale (diversa e peggiore) qualità della vita”, da intendere anche “nel senso di mancata predisposizione e organizzazione materiale e spirituale del proprio tempo residuo”, e ciò “senza che, ancora una volta, sia lecito evocare la fattispecie della chance” (così, in motivazione, Cass. 9 marzo 2018, n. 5641, non massimata sul punto). Tutte queste scelte “appartengono, ciascuna con il proprio valore e la propria dignità, al novero delle alternative esistenziali” (così, nuovamente, Cass. Sez. 3, ord. n. 7260 del 2018, cit.). 7.1.3.4. Del resto, non casualmente, lo stesso legislatore è intervenuto – in questi ultimi anni – a dare rilievo e tutela tale, estrema, libertà dell’individuo. Rileva, in tale prospettiva, innanzitutto la legge 15 marzo 2010, n, 38 (Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore), recante un “corpus” di norme aventi come scopo, tra l’altro, anche – art. 1, comma 3, lett. b) – la “tutela e promozione della qualità della vita fino al suo termine”. Non priva di rilievo è, poi, la stessa legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), la quale – all’art. 4 – riconosce ad ogni persona maggiorenne e capace di intendere e volere, “in previsione di un’eventuale futura incapacità di autodeterminarsi e dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte”, la possibilità sia di “esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari”, sia di nominare, al medesimo scopo, un fiduciario, stabilendo, nel contempo, che tali direttive anticipate sono “rinnovabili, modificabili e revocabili in ogni momento”. Orbene, l’autodeterminazione del soggetto chiamato alla “più intensa (ed emotivamente pregnante) prova della vita, qual è il confronto con la realtà della fine” non è, dunque, priva di riconoscimento e protezione sul piano normativo, e ciò qualunque siano le modalità della sua esplicazione: non solo il ricorso a trattamenti lenitivi degli effetti di patologie non più reversibili, ovvero, all’opposto, la predeterminazione di un percorso che porti a contenerne la durata, ma anche la mera accettazione della propria condizione, perché “anche la sofferenza e il dolore, là dove coscientemente e consapevolmente non curati o alleviati, acquistano un senso ben differente, sul piano della qualità della vita, se accettati come fatto determinato da una propria personale opzione di valore nella prospettiva di una fine che si annuncia (più o meno) imminente, piuttosto che vissuti, passivamente, come segni misteriosi di un’inspiegabile, insondabile e angosciante, ineluttabilità delle cose” (così, ancora una volta, Cass. Sez. 3, ord. n. 7260 del 2018, cit.). Insomma, per citare una delle voci più alte della letteratura del 900′, l’ordinamento giuridico non affatto è indifferente all’esigenza dell’essere umano di “entrare nella morte ad occhi aperti”. 7.2. Il ricorso principale, pertanto, va parzialmente accolto, cassando la sentenza impugnata e rinviando alla Corte di Appello di Lecce, in diversa composizione, affinché decida in ordine alla domanda di risarcimento del danno “iure hereditatis” avanzata dagli odierni ricorrenti, ovvero perché si pronunci – nel rispetto dei principi dianzi enunciati – sulla richiesta di ristoro del pregiudizio cagionato alla qualità della vita di G. L., nel senso sopra meglio illustrato. 8. I ricorsi incidentali di ASL e del C.D. sono, invece, inammissibili. 8.1. Trova applicazione, infatti, il principio secondo cui “è inammissibile per carenza di interesse il ricorso incidentale condizionato allorché proponga censure che non sono dirette contro una statuizione della sentenza di merito bensì a questioni su cui il giudice di appello non si è pronunciato ritenendole assorbite” (nella specie, le domande riconvenzionali “traversali” proposte da ASL contro il F. e il CD, nonché da quest’ultimo contro il medesimo F.), “atteso che in relazione a tali questioni manca la soccombenza che costituisce il presupposto dell’impugnazione, salva la facoltà di riproporre le questioni medesime” – come nell’ipotesi che qui occupa – “al giudice del rinvio, in caso di annullamento della sentenza” (da ultimo, Cass. Sez. 5, sent. 22 settembre 2017, n.22095, Rv. 645632-01; nello stesso senso già Cass. Sez. 5, ord. 20 dicembre 2012, n. 23548, Rv. 625035-01). 9. A carico dei ricorrenti incidentali, stante la declaratoria di inammissibilità dei rispettivi ricorsi, sussiste l’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115. PQM La Corte accoglie il ricorso principale, per quanto di ragione, e dichiara inammissibili i ricorsi incidentali proposti dell’Azienda Unità Sanitaria Locale e la società C. D.., cassando, per l’effetto, la sentenza impugnata e rinviando alla Corte di Appello di Lecce in diversa composizione per la decisione nel merito, oltre che per la liquidazione delle spese anche del presente giudizio.

Autore: Anna Macchione - Ufficio Legislativo FNOMCeO

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