Cassazione Civile Sentenza n. 15749/18 – Responsabilità medica

Cassazione Civile Sentenza n. 15749/18 – Responsabilità medica – In tema di responsabilità professionale del medico, in presenza di un atto terapeutico necessario e correttamente eseguito in base alle regole dell’arte, dal quale siano tuttavia derivate conseguenze dannose per la salute, ove tale intervento non sia stato preceduto da un’adeguata informazione del paziente circa i possibili effetti pregiudizievoli non imprevedibili, il medico può essere chiamato a risarcire il danno alla salute solo se il paziente dimostri, anche tramite presunzioni, che, ove compiutamente informato, egli avrebbe verosimilmente rifiutato l’intervento, non potendo altrimenti ricondursi all’inadempimento dell’obbligo di informazione alcuna rilevanza causale sul danno alla salute.

FATTO E DIRITTO: M. P., M. C.D.G, R.D.G. e A.D.G. convennero in giudizio la Fondazione I.R.R.C.S. Policlinico (Omissis), il Ministero della Salute e la Regione Lombardia, per sentirli condannare al risarcimento dei danni patiti, iure proprio e iure hereditatís, per il decesso del loro congiunto E.D.G. lio  in conseguenza dell’esecuzione di un test da sforzo, effettuato il 25 luglio 2002, nell’ambito del protocollo diagnostico previsto in preparazione al trapianto cardiaco, che si era reso necessario per le gravi patologie cardiache di cui lo stesso D.G.  era affetto. L’adito Tribunale di Milano, instaurato il contraddittorio a seguito della costituzione dei convenuti ed espletata nel corso dell’istruzione probatoria c.t.u. medico-legale, con sentenza dell’ottobre 2012 rigettò le domande attoree, a tal riguardo avendo ritenuto: per un verso, insussistente la responsabilità del Ministero della Salute e della Regione Lombardia in quanto l’esecuzione del test da sforzo nei pazienti da avviare al trapianto cardiaco era prevista dalle linee guida elaborate sulla base della migliore pratica clinica; per altro verso, insussistente la responsabilità del personale sanitario e della struttura ospedaliera per la mancata individuazione, da parte dei consulenti, del nesso causale fra alcun omesso adempimento di detto personale e l’evento morte del paziente. Avverso tale decisione interponevano gravame M.P., M.C.D., R.D.G.e A.D.G. , che la Corte d’Appello di Milano, con sentenza resa pubblica il 14 maggio 2014, respingeva.  Per la cassazione di tale sentenza ricorrono M. P., M. C.D.G, R.D.G. e A.D.G . Resiste con controricorso, illustrato da memoria, la Regione Lombardia, mentre non hanno svolto attività difensiva in questa sede la Fondazione I.R.R.C.S. Policlinico (Omissis) e il Ministero della Salute. La Corte territoriale, pur avendo implicitamente riconosciuto il nesso causale tra l’esecuzione del “test da sforzo” e il decesso del D.G., avrebbe, poi, escluso la colpa medica per l’evento letale derivato dalle complicanze insorte durante detto esame diagnostico in quanto questo era previsto dai protocolli e dalle linee guida (oltre ad essere espressamente richiesto ai fini dell’ammissione dei pazienti alle liste d’attesa per il trapianto cardiaco), con ciò violando il principio per cui l’osservanza delle linee guida e delle buone pratiche costituisce solo elemento di valutazione e non di esclusione della colpa, dovendosi avere riguardo alla peculiare e concreta situazione del paziente al fine di stabilire se la condotta dei sanitari sia stata esente da colpa. Con il secondo mezzo è dedotta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, n. 4 e n. 5, c.p.c., “omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, per avere la Corte di appello ritenuto che erano stati regolarmente effettuati i controlli necessari per l’accertamento della fattibilità del test cardiaco, senza verificare questa conclusione alla luce delle difese degli appellanti, che evidenziavano come di questi accertamenti non vi fosse traccia nella cartella clinica e come questo silenzio dovesse considerarsi prova della mancanza degli accertamenti strumentali clinici dedotti”. La Corte territoriale avrebbe dato rilievo solo al “parere” dei consulenti d’ufficio sulla resistenza del paziente al viaggio effettuato verso il Policlinico di (Omissis) e sull’assenza di controindicazioni al test durante il periodo di degenza che lo aveva preceduto, omettendo, però, di esaminare, anche alla luce delle critiche mosse alla c.t.u. dai consulenti di parte, le allegazioni degli appellanti circa la mancanza di annotazioni sulla cartella clinica di puntuali controlli strumentali e clinici effettuati durante detto periodo di degenza, quale elemento indicativo delle modalità di esecuzione della prova fisica. E’ principio di diritto, ribadito anche di recente (Cass. n. 11208/2017) ed al quale il Collegio intende dare continuità, quello secondo cui, in materia di responsabilità per attività medico-chirurgica, il rispetto, da parte del sanitario, delle “linee guida” – pur costituendo un utile parametro nell’accertamento di una sua eventuale colpa, peraltro in relazione alla verifica della sola perizia del sanitario – non esime il giudice dal valutare, nella propria discrezionalità di giudizio, se le circostanze del caso concreto non esigessero una condotta diversa da quella da esse prescritta. Con l’ulteriore precisazione che, come evidenziato dalla Corte costituzionale con l’ordinanza n. 295 del 2013, la limitazione di responsabilità ex art. 3, comma 1, del d.l. n. 158 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 189 del 2012, rinviene il suo invalicabile limite nell’addebito di imperizia – giacché le linee guida in materia sanitaria contengono esclusivamente regole di perizia – e non anche quando l’esercente la professione sanitaria si sia reso responsabile di una condotta negligente e/o imprudente. In linea con siffatto principio si snoda il percorso decisionale della Corte territoriale, che, nel rispetto del c.d. “minimo costituzionale” della motivazione (tra le tante, Cass., S.U., n. 89053/2014), lungi dall’arrestare il focus della propria indagine al mero rispetto delle linee guida e degli standard internazionali, ha valorizzato (cfr. pp. 7/9 sentenza di appello) anzitutto il piano della concretezza della situazione contingente del paziente, dando pertinente rilievo alla circostanza – frutto di accertamento fattuale esclusivamente rimesso al giudice del merito – che, in base alla storia clinica del Di Gesù, alle sue condizioni dal momento del ricovero presso il Policlinico pavese e alla luce delle risultanze degli esami strumentali e di laboratorio eseguiti nei giorni successivi a tale ricovero, era da escludere che al momento dell’esecuzione del “test da sforzo … vi fossero condizioni che avrebbero dovuto suggerire ai sanitari curanti di omettere o rinviare l’esecuzione di quel necessario esame”. In tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria, incombe sul paziente che agisce per il risarcimento del danno l’onere di provare (in base alla regola del “più probabile che non”) il nesso di causalità tra l’aggravamento della patologia (o l’insorgenza di una nuova malattia) e l’azione o l’omissione (in tal caso alla stregua di un giudizio controfattuale) dei sanitari, mentre, soltanto ove il danneggiato abbia assolto a tale onere, spetta alla struttura dimostrare l’impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile, provando che l’inesatto adempimento è stato determinato da un impedimento imprevedibile ed inevitabile con l’ordinaria diligenza (Cass. n. 18392/2017, Cass. n. 29315/2017). La Corte territoriale, avendo il D.G. prestato il consenso tramite la sottoscrizione di moduli aspecifici sulla natura dell’esame al quale si sarebbe sottoposto e senza alcun accenno ai rischi che tale prova fisica avrebbe potuto comportare, avrebbe erroneamente reputato implicito detto consenso, privando del diritto all’autodeterminazione non solo il paziente in imminente pericolo di vita, “ma anche quello con gravi patologie che influiscono solamente, riducendole, sulle sue aspettative di vita”. Il motivo è inammissibile.  Non è in discussione l’orientamento ormai consolidato (tra le tante, cfr. Cass. n. 11950/2013) che ha riconosciuto l’autonoma rilevanza, ai fini di una eventuale responsabilità risarcitoria, della mancata prestazione del consenso da parte del paziente. Occorre, pertanto, rammentare che la violazione, da parte del medico, del dovere di informare il paziente, può causare due diversi tipi di danni: un danno alla salute, sussistente quando sia ragionevole ritenere che il paziente, su cui grava il relativo onere probatorio, se correttamente informato, avrebbe evitato di sottoporsi all’intervento e di subirne le conseguenze invalidanti; un danno da lesione del diritto all’autodeterminazione, predicabile se, a causa del deficit informativo, il paziente abbia subito un pregiudizio, patrimoniale oppure non patrimoniale (ed, in tale ultimo caso, di apprezzabile gravità), diverso dalla lesione del diritto alla salute. Il ricorso deve, pertanto, essere rigettato.

Autore: Marcello Fontana - Ufficio Legislativo FNOMCeO

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