Cassazione Civile sentenza n. 19204/18 – Responsabilità medica – Nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica, secondo l’orientamento da ultimo consolidatosi in sede di legittimità, compete al paziente che si assuma danneggiato dimostrare l’esistenza del nesso causale tra la condotta del medico e il danno di cui chiede il risarcimento. Se, al termine dell’istruttoria, non risulti provato il nesso tra condotta ed evento, per essere la causa del danno lamentato dal paziente rimasta incerta, la domanda deve essere rigettata.
FATTO E DIRITTO: Il Tribunale di Roma, con sentenza n. 16319/200, rigettava la domanda risarcitoria proposta da R. e C.N., in proprio e quali eredi legittime di R.M., nei confronti dell’Azienda Unità Sanitaria Locale Roma B, avente ad oggetto i danni, patrimoniali e non, asseritamente subiti a seguito del decesso della propria madre. La Corte d’appello di Roma, cui R. e C.N. si rivolgevano per impugnare la decisione di prime cure, confermava, con sentenza n. 1823/2016, depositata il 16.3.2016, la pronuncia di primo grado e condannava le appellanti alle spese di giudizio. Avverso la decisione della Corte territoriale propongono ricorso in cassazione R. e C.N., fondato su due motivi e illustrato da memoria. Resistono con controricorso Le Assicurazioni di Roma, la Società Generali Italia spa, l’itas Mutua. Il controricorso de Le Assicurazioni di Roma è illustrato da memorie. . Le ricorrenti, dopo aver dato prova di conoscere l’evoluzione giurisprudenziale in merito alla qualificazione della responsabilità sanitaria e alla distribuzione dell’onere della prova di colui che agisca invocando una responsabilità ex art. 1218 c.c., si dolgono che la corte territoriale abbia rigettato la loro richiesta risarcitoria per non essere stato provato il nesso di derivazione causale. Inoltre, affermato a p. 16 del ricorso che sull’attore grava la prova del nesso di causalità che può essere soddisfatta anche attraverso elementi presuntivi, a p. 23 contradditoriamente lamentano che la corte di appello abbia ritenuto che dovessero essere le attrici a dimostrare l’esistenza del nesso di causalità tra l’errata diagnosi e l’evento morte. Altrettanto contraddittoriamente citano a supporto delle proprie illustrazioni pronunce di questa sezione della Corte di legittimità che pongono la prova del nesso di causa a carico dell’attore (cfr. ad es. p. 21, ove viene evocata la decisione n. 20/10/2015, n. 21177 che, anche nella motivazione riportata, prevede che l’attore sia gravato dell’onere di provare il nesso causale). Nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica, secondo l’orientamento da ultimo consolidatosi in sede di legittimità, compete al paziente che si assuma danneggiato dimostrare l’esistenza del nesso causale tra la condotta del medico e il danno di cui chiede il risarcimento. Se, al termine dell’istruttoria, non risulti provato il nesso tra condotta ed evento, per essere la causa del danno lamentato dal paziente rimasta incerta, la domanda deve essere rigettata (Cass. 14/11/2017, n. 26824; Cass.07/12/2017, n. 29315; Cass. 13/01/2016, n. 344; Cass. 20/10/2015, n. 21177; Cass. 31/07/2013, n. 18341). 5.3. La previsione dell’art. 1218 c.c., infatti, esonera il creditore dell’obbligazione asseritamente non adempiuta dall’onere di provare la colpa del debitore, ma non da quello di dimostrare il nesso di causa tra la condotta del debitore e il danno di cui si chiede il risarcimento. Il principio di vicinanza dell’onere della prova, su cui si fonda la decisione delle Sezioni Unite 30/10/2001, n. 13533, ed al quale più volte le ricorrenti fanno riferimento nelle loro prospettazioni (p. 12, p. 19, p. 21), non coinvolge il nesso causale fra la condotta dell’obbligato e il danno lamentato dal creditore, rispetto al quale si applica la distribuzione dell’onus probandi di cui all’art. 2697 c.c. Tale disposizione, ponendo a carico dell’attore la prova degli elementi costitutivi della propria pretesa, non permette di ritenere che l’asserito danneggiante debba farsi carico della “prova liberatoria” rispetto al nesso di causa (cfr. Cass. 16/01/2009 n. 975; Cass. 09/10/2012 n. 17143; Cass. 26/02/2013 n. 4792 ; Cass. 26/07/2017 n. 18392). Specularmente la prova dell’avvenuto adempimento o della correttezza della condotta è posta a carico del debitore della prestazione. E non può valere, in senso contrario, il riferimento, contenuto nell’art. 1218 c.c. alla “causa”, là dove richiede al debitore di provare «che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile» (come riaffermato, di recente, da questa Corte (Cass. 26/7/2017, n. 18392). La causa qui attiene alla «non imputabilità dell’impossibilità di adempiere» che si colloca nell’ambito delle cause estintive dell’obbligazione, costituenti «tema di prova della parte debitrice», e concerne un «ciclo causale» che è del tutto distinto da quello relativo all’evento dannoso conseguente all’adempimento mancato o inesatto. Tali conclusioni non contrastano con quanto affermato dalle sezioni unite di questa Corte (Cass. sez.un. 11/1/2008, n. 577), secondo cui «in tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilità professionale da contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell’onere probatorio l’attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare l’esistenza del contratto e l’insorgenza o l’aggravamento della patologia ed allegare l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, rimanendo a carico del debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante». Tale principio venne infatti affermato a fronte di una situazione in cui l’inadempimento “qualificato”, allegato dall’attore (ossia l’effettuazione di un’emotrasfusione) era tale da comportare di per sé, in assenza di fattori alternativi “più probabili”, nel caso singolo di specie, la presunzione della derivazione del contagio dalla condotta. La prova della prestazione sanitaria conteneva già quella del nesso causale, sicché non poteva che spettare al convenuto l’onere di fornire una prova idonea a superare tale presunzione secondo il criterio generale di cui all’art. 2697, comma 2, c.c., e non la prova liberatoria richiesta dall’art. 1218 c.c.. Il secondo motivo è inammissibile. Il ricorrente, pur lamentando specifiche lacune argomentative e motivazionali della C.T.U. — mancata valutazione del nesso eziologico tra diagnosi tardiva ed errata di meningite batterica e morte della paziente (p. 25 del ricorso), ingiustificabilità della diagnosi di meningite batterica stante l’assenza di batteri nella coltura del liquor, ingiustificato ritardo nell’esecuzione dello screening di coagulazione a fronte della rilevata alterazione dell’entità delle piastrine, sottovalutazione dell’improvvisa anemizzazione della paziente (pp. 27 e 28 del ricorso — si è limitato a riproporre le stesse censure alla C.T.U. esaminate dal giudice a quo e ritenute infondate, offrendo a questa Corte solo stralci della C.T.P. dell’ematologo non posti a confronto con i passaggi salienti della C.T.U., se non quelli parafrasati in senso critico dal ricorrente. Il giudice ha, del resto, scandito con passaggi motivazionali inequivoci, comprensibili e logici che non è stata provata l’erroneità delle conclusioni della C.T.U., neppure tramite il supporto della consulenza ematologica, che non è vero che le scelte terapeutiche fatte furono conseguenza di una errata diagnosi di meningite batterica, tant’è vero che nella C.T.U. si dà conto del fatto che le terapie somministrate tennero conto anche delle diagnosi alternativa di CID, che il quadro clinico inziale era oltremodo equivoco, che esso degenerò assai repentinamente, che i trattamenti praticati furono adeguati alla fase conclamata di CIS, che la mancata esecuzione dell’EEG non ebbe effetti sulla diagnosi. È evidente, dunque, che il motivo, per come formulato e prospettato, si risolve in una richiesta di rivalutazione dell’elaborato tecnico non sorretta da altra giustificazione se non quella di ottenere una ricostruzione diversa ed a sé favorevole dell’operato dei medici e del nosocomio. Ne consegue che il ricorso deve essere rigettato.