Cassazione Civile Sentenza n. 2060/18 – Responsabilità di équipe

Cassazione Civile Sentenza n. 2060/18 – Responsabilità di équipe – Deve ritenersi che il secondo aiuto di una equipe medica non possa andare esente da ogni responsabilità solo per aver compiuto correttamente le mansioni a lui direttamente affidate, proprio per il principio di controllo reciproco che esiste in relazione al lavoro in equipe, secondo il quale l’obbligo di diligenza che grava su ciascun componente dell’ equipe medica concerne non solo le specifiche mansioni a lui affidate, ma anche il controllo sull’operato e sugli errori altrui che siano evidenti e non settoriali. Deve poi aggiungersi che rientra negli obblighi di diligenza che gravano su ciascun componente di una equipe chirurgica, sia esso in posizione sovra o sottordinata, quello di prendere visione, prima dell’operazione, della cartella clinica del paziente contenente tutti i dati atti a consentirgli di verificare, tra l’altro, se la scelta di intervenire chirurgicamente fosse corretta e fosse compatibile con le condizioni di salute del paziente.

FATTO E DIRITTO: Il (OMISSIS) la madre, V.L., su indicazione dei chirurghi T.W. e B.F., veniva sottoposta ad un autoprelievo di sangue presso la European Hospital per l’eventualità che, a seguito dell’intervento chirurgico di inserimento di protesi all’anca destra, programmato di li a poco (tipologia di intervento che comporta abitualmente grosse perdite sanguigne), si rendesse necessario procedere ad una trasfusione;Il (OMISSIS) la signora V. veniva ricoverata presso la clinica Città di Roma, per l’esecuzione dell’intervento chirurgico programmato di applicazione di una protesi all’anca destra; la paziente consegnava ai medici analisi eseguite nell’aprile dello stesso anno, dalle quali risultavano valori alterati (penuria di piastrine e globuli bianchi, VES elevata) e veniva nuovamente sottoposta a prelievi ematici; il (OMISSIS) la V. veniva operata dai dottori W. e B., della cui eque facevano parte anche il dott. F.R. come secondo aiuto e il dott. Z.D. come anestesista. La paziente, donna sulla cinquantina fino a quel momento apparentemente in ottima salute, che conduceva una normale ed attiva vita familiare, sociale, lavorativa e sportiva, non si riprendeva dall’operazione, presentando nel decorso post-operatorio febbre alta, valori bassissimi di emoglobina e globuli rossi e bianchi in calo;- il 1(OMISSIS) venne dimessa dalla Città di Roma ed inviata ad una clinica per terapia riabilitativa;- durante la permanenza in clinica ed anche dopo le dimissioni, avvenute a settembre, lo stato febbrile e di spossatezza permansero;- dopo questi primi avvenimenti, si consumò un rapido declino: la signora V. venne colpita da numerose infezioni, e infine durante un ricovero al (OMISSIS) emerse che la stessa risultava positiva al test HIV, presumibilmente già presenta, ad uno stadio iniziale e silente, prima dell’operazione; in breve tempo ella perse progressivamente l’udito e la vista, poi si manifestò il sarcoma di Kaposi, terribile e devastante cancro della pelle;- nel (OMISSIS) la signora V. muore all’ospedale (OMISSIS), dove è ricoverata nel reparto degli ammalati di AIDS in stadio terminale. I ricorrenti, figli della signora V., agirono a questo punto dinanzi al Tribunale di Roma nei confronti sia di tutti i componenti dell’equipe medica, sia di entrambi gli istituti sanitari, quello dove venne eseguito il prelievo precedente all’operazione e quello dove vennero eseguiti gli esami del sangue e l’operazione, nonché nei confronti del Ga., all’epoca presidente del consiglio di amministrazione delle due cliniche, per sentir accertare che il prelievo ematico prima e l’esecuzione dell’operazione dopo, nonché le modalità della degenza e le dimissioni dalla clinica Città di Roma, caratterizzati da integrale assenza di accertamenti e cure nel periodo di degenza pre e post operatoria e dalle dimissioni in grave stato di salute dalla casa di cura Città di Roma furono causa o quanto meno costituirono le concause della morte della madre, e che tutti i medici nonché le due strutture sanitarie fossero condannati in solido a risarcire loro tutti i danni conseguenti alla morte della madre. In materia di responsabilità per attività medico-chirurgica, anche la struttura presso la quale il paziente risulti ricoverato risponde della condotta colposa dei sanitari, a prescindere dall’esistenza di un rapporto di lavoro alle dipendenze della stessa, atteso che la diretta gestione della struttura sanitaria identifica il soggetto titolare del rapporto con il paziente. L’aver ospitato all’interno della propria struttura uno o più medici che abbiano compiuto attività medico-chirurgiche su una paziente, anch’essa accolta all’interno della struttura, senza rispettare le regole di prudenza e provocando alla paziente un danno, è fonte, oltre che di responsabilità diretta dei medici, di responsabilità indiretta nei confronti della danneggiata in capo alla struttura sanitaria, senza che questa possa esimersi da tale responsabilità affermando di non essersi ingerita nelle scelte tecniche o di non aver partecipato alle attività svolte dai responsabili, o di non esser stata neppure portata a conoscenza di esse. In tema di responsabilità medica, l’obbligo di diligenza che grava su ciascun componente dell’ equipe medica concerne non solo le specifiche mansioni a lui affidate, ma anche il controllo sull’operato e sugli errori altrui che siano evidenti e non settoriali, in quanto tali rilevabili con l’ausilio delle comuni conoscenze del professionista medio. In tema di colpa professionale, in caso di intervento chirurgico in “equipe”, il principio per cui ogni sanitario è tenuto a vigilare sulla correttezza dell’attività altrui, se del caso ponendo rimedio ad errori che siano evidenti e non settoriali, rilevabili ed emendabili con l’ausilio delle comuni conoscenza scientifiche del professionista medio, non opera in relazione alle fasi dell’intervento in cui i ruoli e i compiti di ciascun operatore sono nettamente distinti, dovendo trovare applicazione il diverso principio dell’affidamento per cui può rispondere dell’errore o dell’omissione solo colui che abbia in quel momento la direzione dell’intervento o che abbia commesso un errore riferibile alla sua specifica competenza medica, non potendosi trasformare l’onere di vigilanza in un obbligo generalizzato di costante raccomandazione al rispetto delle regole cautelari e di invasione negli spazi di competenza altrui”. In tema di colpa medica, il medico componente della equipe chirurgica in posizione di secondo operatore che non condivide le scelte del primario adottate nel corso dell’intervento operatorio, ha l’obbligo, per esimersi da responsabilità, di manifestare espressamente il proprio dissenso, senza che tuttavia siano necessarie particolari forme di esternazione dello stesso. La responsabilità dei due medici che hanno direttamente operato la paziente è stata affermata non in relazione ad una errata esecuzione dell’intervento chirurgico, ma in relazione ad un comportamento negligente, di non adeguatamente attenta verifica preliminare delle condizioni fisiche in cui versava la paziente, individuabile a mezzo degli esami del sangue, che aveva condotto ad una errata scelta clinica, la scelta appunto di intervenire chirurgicamente, benché non si trattasse di una operazione necessaria né urgente, su una paziente in condizioni fisiche alterate, provocandole una perdita di chances di sopravvivenza a fronte della patologia dalla quale era già affetta. Tutto ciò premesso, deve ritenersi che il secondo aiuto di una equipe medica non possa andare esente da ogni responsabilità solo per aver compiuto correttamente le mansioni a lui direttamente affidate, proprio per il principio di controllo reciproco che esiste in relazione al lavoro in equipe, secondo il quale l’obbligo di diligenza che grava su ciascun componente dell’ equipe medica concerne non solo le specifiche mansioni a lui affidate, ma anche il controllo sull’operato e sugli errori altrui che siano evidenti e non settoriali. Deve poi aggiungersi che rientra negli obblighi di diligenza che gravano su ciascun componente di una equipe chirurgica, sia esso in posizione sovra o sottordinata, quello di prendere visione, prima dell’operazione, della cartella clinica del paziente contenente tutti i dati atti a consentirgli di verificare, tra l’altro, se la scelta di intervenire chirurgicamente fosse corretta e fosse compatibile con le condizioni di salute del paziente. Deve in conseguenza escludersi che la diligenza del componente dell’equipe medica in posizione sottordinata si limiti al mero svolgimento delle mansioni affidate senza che sia necessaria una preventiva acquisizione di consapevolezza delle condizioni del paziente nel momento in cui questo viene sottoposto ad operazione. In particolare, dal professionista che faccia parte sia pure in posizione di minor rilievo di una equipe si pretende pur sempre una partecipazione all’intervento chirurgico non da mero spettatore ma consapevole e informata, in modo che egli possa dare il suo apporto professionale non solo in relazione alla materiale esecuzione della operazione, ma anche in riferimento al rispetto delle regole di diligenza e prudenza ed alla adozione delle particolari precauzioni imposte dalla condizione specifica del paziente che si sta per operare. Solo una presenza professionalmente informata può consentire che egli possa in ogni momento segnalare, anche senza particolari formalità, il suo motivato dissenso rispetto alle scelte chirurgiche effettuate, ed alla scelta stessa di procedere all’operazione. Per queste ragioni il sesto motivo di ricorso va accolto).

Autore: Marcello Fontana - Ufficio Legislativo FNOMCeO

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