Cassazione Civile Sentenza n. 23252/19 – Responsabilità medica

In tema di colpa professionale medica, l’errore diagnostico si configura non solo quando, in presenza di uno o più sintomi di una malattia, non si riesca ad inquadrare il caso clinico in una patologia nota alla scienza o si addivenga ad un inquadramento erroneo, ma anche quando si ometta di eseguire o disporre controlli ed accertamenti doverosi ai fini di una corretta formulazione della diagnosi. Nel solco di tale giurisprudenza è stato perciò ritenuto che rispondesse di lesioni personali colpose il medico ospedaliero che, omettendo di effettuare i dovuti esami clinici, aveva dimesso con la diagnosi errata di gastrite un paziente affetto da patologia tumorale, così prolungando per un tempo significativo le riscontrate alterazioni funzionali (nella specie, vomito, acuti dolori gastrici ed intestinali) ed uno stato di complessiva sofferenza, di natura fisica e morale, che favorivano un processo patologico che, se tempestivamente curato, sarebbe stato evitato o almeno contenuto.

FATTO E DIRITTO:  In data 11/10/2017, la Corte di appello di Roma, in riforma della sentenza del Tribunale, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti R. L. in ordine al reato di cui all’art. 590 cod. pen. perché estinto per prescrizione; ha confermato le statuizioni civili in favore delle costituite parti civili, A. M. e gli eredi di S. H., condannando l’imputato, in solido con il responsabile civile, alla rifusione delle spese da queste sostenute. 2. Al L., in qualità di medico chirurgo in servizio presso il Centro di Prevenzione Oncologica “…….”, si contesta la colpa generica perché, visitando il 09/01/2007 e il 04/07/2007 la paziente S. H., affetta da carcinoma mammario, non prescrivendole ulteriori approfondimenti diagnostici e segnatamente una mammografia, non diagnosticandole la neoplasia, erroneamente ravvisando una cisti e altresì praticando, in data 03/12/2007, un ago aspirato che procurava il peggioramento della patologia, cagionava alla H. lesioni personali consistite nel progredire della malattia, con conseguente necessità di intervento chirurgico di mastectomia radicale, con asportazione dei linfonodi, in data 10/12/2007, nonché all’effettuazione di 8 cicli di chemioterapia, seguiti da radioterapia e da ormonoterapia per 5 anni, oltre alla riduzione delle aspettative di vita. 3. La vicenda. Per via di un dolore al seno sinistro, S. H., 36 anni all’epoca dei fatti, veniva inviata dal proprio medico di base presso il centro diagnostico diretto dal prof. L. che, in data 09/01/2007, la sottoponeva ad esame ecografico. L’indagine ecografica, come da referto acquisito agli atti, evidenziava mammelle a prevalente struttura fibroghiandolare in cui si evidenziavano multiple e millimetriche formazioni cistiche, non riconoscendosi focalità sospette in senso eteroformativo. Stante il perdurare del dolore anche nei giorni successivi, il medico di base la indirizzava dal chirurgo dott. P. B. (coimputato non ricorrente) il quale prescriveva alla donna una terapia antinfiammatoria per tre mesi, a seguito della quale la H. non avvertiva più il dolore alla spalla e al braccio, pur persistendo il dolore al seno che si manifestava, seppur ogni tanto, in forma di “stilettata”. Ai primi di luglio 2007, accompagnando la sorella presso lo studio del L., la persona offesa, che quella notte aveva avvertito dolore, invitò insistentemente il dott. L. a visitare anche lei ma egli si era categoricamente rifiutato di sottoporla ad ulteriore visita, escludendo altresì di sottoporla alla mammografia che la donna gli chiedeva di fare quel giorno stesso. La rassicurava sul fatto che si trattava di cisti che non potevano trasformarsi in qualcosa di più preoccupante, non faceva né consigliava approfondimenti di sorta. Anche la sorella della H., M., aveva richiesto al sanitario oncologo di sottoporre la congiunta a mammografia ma il prevenuto non ritenne di approfondire. Nel dicembre 2007, S. H. prese un nuovo appuntamento con il L. perché, nel corso della notte, aveva avvertito dolori molto intensi e perché il seno aveva cambiato morfologia. Si recava allora nuovamente dal dott. L. il quale, all’esito di una nuova ecografia, invitava la donna ad effettuare una mammografia dalla quale risultava la presenza di un tumore maligno in fase avanzata sicché si rendeva necessaria una mastectomia radicale con linfoadenectomia ascellare e successiva chemioterapia volta a far regredire la massa tumorale nel frattempo evolutasi. 3. Avverso la prefata sentenza di appello R. L., a mezzo del difensore, ricorre per Cassazione, con due atti distinti, in proprio e quale legale rappresentante dell’associazione tra professionisti denominata S.I.R.P. Servizio Interdisciplinare Ricerche e Prevenzione Presidio di Prevenzione Oncologica in memoria di ……. 3.1. Il ricorso del L. si fonda su tre motivi. Con il primo, si censura la manifesta illogicità e l’omessa motivazione perché si contesta un reato a condotta omissiva mentre poi si afferma che il reato deve ritenersi consumato alla data del 03/12/2007 quando si è accertato il carcinoma. Prima di questa data, peraltro, non sarebbe stato possibile evidenziare alcuna lesione. La Corte territoriale non ha attribuito la giusta considerazione alle osservazioni dei consulenti tecnici in ordine alla metodica seguita dal dott. L.; né ha motivato sulle ragioni del suo disaccordo rispetto alle conclusioni di tutti i consulenti, del Pubblico ministero e della difesa i quali – così come si sostiene nel secondo motivo, in cui si eccepisce la carenza di motivazione nonché la mancata assunzione di una prova decisiva – erano tutti concordi nel rilevare che in realtà venne ad intervenire un fattore di accelerazione della progressione della malattia. Il teste della difesa, il ginecologo dott. M. – inopinatamente estromesso – avrebbe potuto offrire una lettura critica alternativa dell’evoluzione della malattia, risultando pacifica la ormonodipendenza di alcuni tumori. Alla difesa è stata negata la possibilità di far intervenire il proprio medico legale. Con il terzo motivo, infine, si lamenta l’erronea applicazione della legge. In particolare, la Corte di appello nulla dice sulla richiesta avanzata in via subordinata dal difensore di applicazione dell’art. 3, comma 2, Igs. n. 158/2012 (Legge Balduzzi), anche alla luce del fatto che i consulenti del Pubblico ministero non hanno mosso alcuna censura nei riguardi della procedura adottata dal dott. L. il quale ha seguito le linee guida FONCAM, vigenti negli anni interessati. Tutti i consulenti hanno infatti affermato che, nelle donne giovani, la notevole densità ghiandolare della mammella rende scarsamente efficace il ruolo diagnostico della mammografia, avvalorando l’esame ecografico come indagine indicata e sufficiente. 3.2. I motivi testé illustrati sono comuni anche al ricorso della menzionata associazione S.I.R.P., di cui l’imputato era il legale rappresentante, chiamata quale responsabile civile. In aggiunta, però, si sottolinea che si tratta di associazione professionale priva di personalità giuridica, composta da medici, personalmente responsabili delle rispettive azioni. Legittimamente costituita per condividere le spese di studio e gestire congiuntamente i proventi delle attività dei professionisti, non comporta il trasferimento in capo ad essa della titolarità del rapporto di prestazione d’opera che resta di esclusiva pertinenza del professionista investito, né l’insorgenza di un vincolo di solidarietà tra i professionisti dello stesso studio per l’adempimento della prestazione o la responsabilità nell’esecuzione della medesima. La ricorrente associazione lamenta la carenza di motivazione sul punto.CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Entrambi i ricorsi proposti sono inammissibili. Trattandosi di motivi comuni si procede ad una trattazione unitaria, salvo considerare in ultimo lo specifico motivo sollevato dall’associazione professionale di cui l’imputato era il legale rappresentante. 2. Va premesso che i reati commissivi mediante omissione (definiti altresì “omissivi impropri”) si consumano nel momento di verificazione dell’evento. I giudici del merito hanno dunque correttamente affermato che il reato deve ritenersi consumato il 03/12/2007, data in cui, mediante metodica diagnostica, è stata clinicamente accertata la lesione tumorale maligna. 3. Occorre prendere le mosse, ad avviso del Collegio, da alcuni principi giuridici affermati da questa Corte di legittimità e che si ritengono tuttora condivisibili. Innanzitutto in tema di errore diagnostico, questa Corte ha chiarito (Sez. 4, n. 50975 del 19/07/2017, P.G., P.C. in proc. Memeo e altro, Rv. 271533) – e va qui ribadito- che, in tema di colpa professionale medica, l’errore diagnostico si configura non solo quando, in presenza di uno o più sintomi di una malattia, non si riesca ad inquadrare il caso clinico in una patologia nota alla scienza o si addivenga ad un inquadramento erroneo, ma anche quando si ometta di eseguire o disporre controlli ed accertamenti doverosi ai fini di una corretta formulazione della diagnosi [Sez. 4, n. 21243 del 18/12/2014 (dep. 21/05/2015), Pulcini, Rv. 263492; così Sez. 4, n. 46412 del 28/10/2008, Calò, Rv. 242250, fattispecie nella quale una diagnosi errata e superficiale, formulata senza disporre ed eseguire tempestivamente accertamenti assolutamente necessari, era risultata esiziale]. Nel solco di tale giurisprudenza è stato perciò ritenuto che rispondesse di lesioni personali colpose il medico ospedaliero che, omettendo di effettuare i dovuti esami clinici, aveva dimesso con la diagnosi errata di gastrite un paziente affetto da patologia tumorale, così prolungando per un tempo significativo le riscontrate alterazioni funzionali (nella specie, vomito, acuti dolori gastrici ed intestinali) ed uno stato di complessiva sofferenza, di natura fisica e morale, che favorivano un processo patologico che, se tempestivamente curato, sarebbe stato evitato o almeno contenuto [Sez. 4, n. 2474 del 14/10/2009 (dep. il 20/01/2010, Vancheri ed altro, Rv. 246161). Questa Corte di legittimità ha già affermato in passato alcuni principi che il Collegio condivide e che intende ribadire. Tra questi, quello per cui l’errore diagnostico del medico che consiste nell’intempestiva diagnosi tumorale è causa dell’evento dannoso in quanto “la stessa scienza medica (…) sostiene la necessità di una sollecita diagnosi delle patologie tumorali e rileva come la prognosi della malattia vari a seconda della tempestività dell’accertamento” (così la sentenza n. 36603 del 5.5.2011, Faldetta, non massimata) e che c’è responsabilità penale anche quando l’omissione del sanitario contribuisca alla progressione del male. E’ stato anche condivisibilmente evidenziato che, in tema di omicidio colposo, sussiste il nesso di causalità tra l’omessa adozione da parte del medico specialistico di idonee misure atte a rallentare il decorso della patologia acuta, colposamente non diagnosticata, ed il decesso del paziente, quando risulta accertato, secondo il principio di controfattualità, condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica, universale o statistica, che la condotta doverosa avrebbe inciso positivamente sulla sopravvivenza del paziente, nel senso che l’evento non si sarebbe verificato ovvero si sarebbe verificato in epoca posteriore o con minore intensità lesiva (Sez. 4, n. 18573 del 14/02/2013, Meloni, Rv. 256338, fattispecie nella quale il sanitario di turno presso il pronto soccorso non aveva disposto gli accertamenti clinici idonei ad individuare una malattia cardiaca in corso e, di conseguenza, non era intervenuto con una efficace terapia farmacologica di contrasto che avrebbe rallentato significativamente il decorso della malattia, così da rendere utilmente possibile il trasporto presso struttura ospedaliera specializzata e l’intervento chirurgico risolutivo). Anche le Sezioni Unite (Sez. U, n. 30328 del 10/7/2002, Franzese, Rv. 222138), peraltro, concludevano che, nel reato colposo omissivo, il rapporto di causalità è configurabile quando si accerti che, ipotizzandosi come avvenuta l’azione che sarebbe stata doverosa, l’evento avrebbe avuto luogo in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva. In proposito, inoltre, gioverà ricordare che, in caso di comportamento omissivo, l’accertamento della responsabilità e, in particolare, la verifica della sussistenza del nesso di causalità sono sottoposti a regole identiche a quelle applicabili in caso di comportamento commissivo, essendo i due tipi di comportamento strettamente connessi, dato che, nella condotta omissiva, nel violare le regole cautelari, il soggetto non sempre è assolutamente inerte, ma non infrequentemente pone in essere un comportamento diverso da quello dovuto, cioè da quello che sarebbe stato doveroso secondo le regole della comune prudenza, perizia e diligenza. L’unica distinzione attiene soltanto alla necessità, in caso di comportamento omissivo, di fare ricorso, per verificare la sussistenza del nesso di causalità, ad un giudizio controfattuale meramente ipotetico (dandosi per verificato il comportamento invece omesso), anziché fondato sui dati della realtà; infatti, nel caso di comportamento omissivo, è solo con riferimento alle regole cautelari inosservate che può formularsi un concreto rimprovero nei confronti del soggetto e verificarsi, con giudizio controfattuale ipotetico, la sussistenza del nesso di causalità (cfr. sul punto Sez. 4, n. 3380 del 15/11/2005 dep. il 2006, Fedele, Rv. 233237, ove è stato valutato penalmente rilevante il comportamento omissivo del medico che, in presenza di un esame mammografico dal quale risultavano sintomi di una possibile malattia neoplastica non dispose alcun esame più specifico ovvero un nuovo controllo ravvicinato, ma solo un ulteriore controllo mammografico da effettuarsi a distanza di un anno, così contribuendo alla progressione del male). In tema di nesso causale nei reati omissivi, in altri termini, non può escludersi la responsabilità del medico il quale colposamente non si attivi e contribuisca con il proprio errore u, diagnostico a che il paziente venga conoscenza di una malattia tumorale, anche a fronte di una prospettazione della morte ritenuta inevitabile, laddove, nel giudizio controfattuale, vi è l’alta probabilità logica che il ricorso ad altri rimedi terapeutici, o all’intervento chirurgico, avrebbe determinato un allungamento della vita, che è un bene giuridicamente rilevante anche se temporalmente non molto esteso. Punto di riferimento rimane sempre la già ricordata sentenza Franzese, per cui nel reato colposo omissivo improprio il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, sicché esso è configurabile solo se si accerti che, ipotizzandosi come avvenuta l’azione che sarebbe stata doverosa ed esclusa l’interferenza di decorsi causali alternativi, l’evento, con elevato grado di credibilità razionale, non avrebbe avuto luogo ovvero avrebbe avuto luogo in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva. Le Sezioni Unite, nel caso appena citato, hanno affermato la responsabilità di un sanitario per omicidio colposo dipendente dall’omissione di una corretta diagnosi, dovuta a negligenza e imperizia, e del conseguente intervento che, se effettuato tempestivamente, avrebbe potuto salvare la vita del paziente. Nel solco di tale pronuncia è stato anche affermato che il nesso di causalità deve essere accertato non sulla base dei soli coefficienti di probabilità statistica, bensì mediante l’utilizzo degli strumenti di cui il giudice penale ordinariamente dispone per le valutazioni probatorie, e può ritenersi sussistente quando, considerate tutte le circostanze del caso concreto, possano escludersi processi causali alternativi e si possa affermare in termini di “certezza processuale”, ossia di alta credibilità razionale o probabilità logica, che sia stata proprio quella condotta omissiva a determinare l’evento lesivo. (Sez. 4, n. 38334 del 3/10/2002, Albissini, Rv. 222862, fattispecie di colpa professionale medica per omessa, precoce, diagnosi di neoplasia polmonare determinata da superficiale o errata lettura del referto radiologico, per la quale la Corte ha ritenuto sussistente il nesso di causalità pure in mancanza di indagine autoptica). 4. Ciò detto, la motivazione dell’impugnata sentenza si appalesa adeguata, congrua, logica e completa, del tutto esente dai denunciati vizi e rispettosa dei principi di diritto appena ricordati. 4.1. La stessa ricorda che il L., nel luglio 2007, nonostante le insistenze da parte della H. e della sorella di procedere ad approfondimenti diagnostici, a fronte dei sintomi avvertiti dalla donna e rappresentati al sanitario, non solo non volle effettuare nuovi accertamenti (ecografia e/o mammografia), ma rifiutò di visitarla. Si tratta di circostanze, si legge nella sentenza, che non sono state in alcun modo contestate nell’atto di appello. Afferma il Giudice di appello che «tenuto conto di quanto poi accertato a dicembre 2007, e dunque a distanza di soli cinque mesi, e della fase molto avanzata della neoplasia riscontrata.., non v’è che quanto meno a giugno-primi di luglio 2007, vi fosse già un principio della patologia in atto. Invece la situazione rimase senza alcuna visita da parte dei sanitari o approfondimenti diagnostici fino a dicembre 2007. Un approfondimento clinico e diagnostico in quel momento, ed a prescindere dall’età della donna che comunque aveva già compiuto 36 anni sicché non era più in età così giovanile da omettere gli approfondimenti che i protocolli già comunque suggerivano per una diagnosi precoce, avrebbe certamente evitato l’evento o quanto meno ridotto la portata distruttiva». La sentenza ricorda, in particolare, che la consulente di parte civile aveva spiegato, in dibattimento, come l’aver ritardato l’intervento a dicembre abbia determinato una perdita di chance di sopravvivenza della paziente che era in fase metastatica, con metastasi polmonari. A fronte d persistenti sintomi di dolore, la diagnosi e la prevenzione costituiscono un’indubbia priorità la cui omissione, sostiene la Corte di Roma, integra una condotta connotata da colpa grave, tanto più ove si consideri che il prevenuto era specialista oncologo e direttore del Centro di prevenzione oncologica. Proprio in ragione di questa sua competenza e veste egli era vieppiù gravato dall’obbligo di compiere quanto necessario per evitare l’insorgere dell’evento attraverso una individuazione precoce della malattia. Se avesse tenuto la condotta doverosa, afferma la sentenza, l’evento lesivo non si sarebbe verificato ovvero si sarebbe verificato ma con minore intensità. Il primo motivo è, quindi, manifestamente infondato. 4.2. Quanto alla mancata assunzione di una prova asseritamente decisiva, la Corte di appello offre una completa e puntuale motivazione al riguardo. Evidenzia, invero, che in «tale situazione di ritardata diagnosi in conseguenza all’omessa esecuzione di una visita o di esami diagnostici al giugno 2007, del tutto superflua appare la richiesta di rinnovazione istruttoria dibattimentale attraverso l’esame de testi che avrebbero dovuto riferire circa l’incidenza sullo sviluppo della neoplasia di una terapia ormonale – anticoncezionale – che si assume somministrata alla parte offesa – di cui peraltro non vi è alcun riscontro documentale in atti… trattandosi in ogni caso di un’ipotesi non dimostrabile scientificamente…». La motivazione sul punto appare del tutto congrua di tal che essa si sottrae al sindacato di legittimità. Invero, la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in appello di cui all’art. 603, cod. di rito è istituto eccezionale che si giustifica non sulla base dell’incidenza che la prova avrebbe sul processo a parere della parte, ma in relazione alla rigorosa valutazione dell’indispensabilità della rinnovazione per la decisione. Il secondo motivo va, quindi, respinto. 4.3. Quanto all’invocata applicazione dell’art. 3, comma 2, d.l. n. 158/2012 (c.d. legge Balduzzi) si rileva che questa disposizione esclude la punibilità unicamente per le ipotesi di colpa c.2.) tn.z,fltex_w..tIvtí, lieve. Nel caso di specie, la Corte di appello ha configura o la colpa grave. Si è pertanto fuori dall’ambito di applicabilità della norma invocata. 5. Parimenti infondato il motivo dell’associazione S.I.R.P., di cui l’imputato era il legale rappresentante e presso il cui centro di prevenzione oncologica operava stabilmente, chiamata quale responsabile civile. La Corte di appello afferma che correttamente la stessa era stata citata in qualità di responsabile civile trattandosi di un’associazione tra professionisti regolata dalle norme della società in nome collettivo (così come illustrato nell’atto costitutivo). L’art. 2291 cod. civ. prevede, infatti, che nella società in nome collettivo tutti i soci rispondano solidalmente e illimitatamente per le obbligazioni sociali. 6. In conclusione, i ricorsi devono essere dichiarati inammissibili. All’inammissibilità segue, ex lege, la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro duemila ciascuno a favore della Cassa delle ammende, nonché alla rifusione delle spese in favore in favore delle costituite parti civili, liquidate in complessivi euro 3.000,00 oltre accessori di legge.

Autore: Marcello Fontana - Ufficio Legislativo FNOMCeO

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