Cassazione Civile Sentenza N. 25764/2019 – Responsabilità medica

Cassazione Civile Sentenza N. 25764/2019 – Responsabilità medica – Non spetta al primario di chirurgia, né al chirurgo operatore effettuare direttamente il controllo sul sangue, né la regolare tenuta dei registri o la verifica della preventiva sottoposizione a tutti i test sierologici richiesti dalla legge della sacche di sangue trasfuse, in quanto si tratta di controlli di competenza del centro trasfusionale, che trasmette al reparto richiedente le sacche di sangue e plasma regolarmente etichettate, il che presuppone la tracciabilità del donatore come risultante dai registri alla cui tenuta è obbligato il centro trasfusionale, ed il superamento dei test obbligatori. La Corte ha quindi rilevato che solo il responsabile dell’acquisizione del sangue – il primario di ematologia, responsabile del centro trasfusionale – può essere responsabile della non completa compilazione della scheda di ciascuna sacca di sangue o della mancata esecuzione da parte del centro da lui diretto, dei controlli previsti dalla legge o della mancata annotazione sulla sacca delle indicazioni previste dalla legge.

FATTO E DIRITTO.- Nel 2009 R.T., in proprio e quale rappresentante di V. T., F. C., F. T., L. T., L. S.T., G. S., E. S., R. So., convennero dinanzi al Tribunale di Napoli la R. C. e il M. d. S., G. A. (all’epoca dei fatti primario del reparto di Ginecologia e Ostetricia dell’Ospedale di C.) e A. M. (primario del reparto di Immunoematologia e Servizio trasfusionale del medesimo ospedale), nonché la Gestione Liquidatoria della soppressa USL 15 di C., chiedendo che l’adito giudice: accertasse che il decesso della loro congiunta A. S.  fosse stato causato da una cirrosi epatica da HCV, contratta in seguito a due emotrasfusioni di sangue infetto, praticatele nel gennaio 1993 presso l’Ospedale Civile di C., dove era stata ricoverata per un intervento di parto cesareo, cui era seguita l’isterectomia d’urgenza; accertasse la responsabilità dei convenuti nella produzione dell’evento, in particolare la responsabilità contrattuale da inadempimento qualificato dell’Ospedale civile di C. e dei medici nonché quella extracontrattuale del M. d. S., poiché erano state praticate due trasfusioni non necessarie, poiché la paziente non era stata informata dei rischi connessi alla trasfusione stessa e per omesso controllo circa la provenienza e la non virulenza del sangue trasfuso; e, per l’effetto, condannasse detti convenuti al risarcimento di tutti i danni subiti dagli attori, sia iure proprio che iure hereditatis, a causa del decesso della S.. A fondamento di tale pretesa gli attori dedussero, in particolare, che A. S., al momento del ricovero presso l’Ospedale civile di C., non presentava malattie pregresse o in atto; che nella cartella clinica, in relazione alle predette trasfusioni, erano stati annotati solo il gruppo sanguigno e il numero delle sacche, senza indicazione dei test immunologici effettuati e del relativo esito; che la struttura ospedaliera e i medici che ebbero in cura la S. erano incorsi in una serie di carenze nelle procedure di controllo del donatore e nei trattamenti di controllo del plasma (in particolare, avevano violato le regole di condotta in merito alla possibilità di controllo a distanza del donatore, non essendo stati in grado di evadere la richiesta di consegna dei registri relativi alla provenienza delle sacche ematiche trasfuse, in quanto non conservati presso l’Ospedale, così come imposto dall’art. 3 della L. n. 210/1992); che, in seguito alle suddette trasfusioni di sangue, la S. aveva contratto l’epatite C e solo molti anni dopo era stato in grado di ricostruire che essa fosse riconducibile all’avvenuta somministrazione di sangue infetto; che, dopo ripetuti ricoveri, la S. era deceduta in data 13 marzo 2007 presso l’Istituto di malattie infettive del Policlinico Federico II di Napoli. Si costituì in giudizio il M. d. S., eccependo il proprio difetto di legittimazione passiva, la prescrizione del diritto al risarcimento dei danni nonché l’infondatezza della pretesa. Si costituirono altresì G. A., la Regione C. nonché la gestione Liquidatoria della soppressa USL 15 di C. ed eccepirono anch’essi la prescrizione del diritto e l’infondatezza della domanda. Rimase invece contumace il convenuto A. M. . 2. – Il Tribunale, con sentenza depositata il 10 febbraio 2012, rigettate le richieste istruttorie avanzate dalle parti, compresa quella di nomina di CTU, accolse la domanda e condannò le parti convenute, tranne la soppressa USL 15 di C., al risarcimento del danno non patrimoniale. Ritenne sussistente il nesso di causalità tra le trasfusioni e l’insorgere della cirrosi da HCV, data l’assenza di prova della sussistenza di altri fattori potenzialmente idonei a provocare la predetta malattia, anteriori o concomitanti alle trasfusioni praticate presso la struttura ospedaliera di C. evocata in lite; e in tal senso pronunciava anche sulla scorta del fatto che i medici non avessero fornito la prova che fossero state rispettate le procedure previste per la identificabilità del donatore e per la sicurezza del sangue trasfuso (in quanto sulle sacche risultava indicato solo il gruppo sanguigno e il numero di provetta, al quale in uno dei due casi si aggiungeva l’indicazione centro trasfusionale C.). 3. – Avverso la sentenza n. 3241/2012 del Tribunale di Napoli proposero appello, con atti separati, G. A. e il M. d. S.. Nel procedimento, successivamente riunito, dinanzi alla Corte d’appello si costituirono la Regione C. e A. M., che spiegarono appello incidentale; R. T., V. T., F. T., L. T., L. S. T., G. S., E. S., R. S., si costituirono sia in proprio che quali eredi di F. C., nel frattempo deceduta, insistendo per il rigetto del gravame; l’Azienda Ospedaliera S. A. e S. S. di C. chiese il rigetto della domanda degli attori e la conferma della sentenza di primo grado nella parte in cui aveva dichiarato il difetto di legittimazione passiva della ex USL 15 di C., cui detta Azienda faceva capo all’epoca dei fatti. 4. – La Corte d’Appello di Napoli rigettò le impugnazioni, salvo a scomputare, dalle somme riconosciute dovute e liquidate, le somme percepite dagli eredi di A. S. ex lege n. 210 del 1992. In particolare, la corte territoriale rigettava l’impugnazione dell’A. ritenendo inammissibili, ex art. 345, c.1, c.p.c., le difese svolte solo con la comparsa conclusionale (relative alla pregressa epatopatia della S.) ed affermando che lo stesso, quale primario del reparto di ginecologia, non avrebbe dovuto consentire di utilizzare il sangue in presenza di un’etichettatura che si presentava, presuntivamente, incompleta; rigettava altresì l’appello incidentale dell’ematologo A. M., la cui produzione documentale, effettuata a due anni di distanza dall’inizio del giudizio di appello, dichiarava inammissibile per non aver egli dimostrato di non averla potuta produrre prima del maturarsi delle preclusioni assertive e probatorie (in particolare, la Corte d’appello affermava che apparisse singolare la produzione dei registri in questione a opera di parte rimasta assente nel processo di primo grado e che in appello aveva fondato la sua difesa su argomentazioni incompatibili con la dedotta impossibilità di produzione in questione; e che la difesa spiegata dopo tale produzione dal M. collidesse con quella iniziale, secondo cui nessuna annotazione e controllo avrebbe dovuto essere effettuato nel reparto di Immunologia e Trasfusioni da lui diretto, provenendo le sacche di sangue dal centro di raccolta AVIS di A., che aveva già validato la sua qualità e annotato ogni notizia utile, compresa la negatività rispetto a tutti i test immunologici e virali ex lege prescritti ed espletati; con la conseguenza che la dedotta indispensabilità dei registri in questione non fosse affatto ravvisabile, stridendo la loro produzione con la stessa difesa che il M. aveva illustrato nella comparsa di costituzione e risposta contenente appello incidentale). 6. – Avverso la sentenza n. 1783/2017, pubblicata il 24 aprile 2017, della Corte d’appello di Napoli propone ricorso per Cassazione, con tre motivi, G. A.. Ha depositato controricorso, contenente cinque motivi di ricorso incidentale, A. M.. Anche la Regione C. resiste con controricorso contenente tre motivi di ricorso incidentale. Ha altresì depositato controricorso, con ricorso incidentale che qualifica condizionato, il M. d. S.. I signori R. T., V. T., F. T., L. T., L. S. T., G. S., E. S., R. S., sia in proprio che quali eredi di F. C. resistono con quattro distinti controricorsi, nei confronti del ricorrente principale e dei tre ricorrenti incidentali. L’Azienda Ospedaliera di C.ha depositato un atto di costituzione non notificato alle controparti con il quale ha chiesto di partecipare alla discussione orale, alla quale ha poi effettivamente partecipato. L’A., il M. e i signori T. e S. hanno depositato memoria. – Il ricorso principale dell’A. . Con il primo motivo, la difesa del dott. A., all’epoca dei fatti primario del reparto di Ostetricia e Ginecologia dell’ospedale di C. nonché chirurgo operatore, deduce la violazione e/o falsa applicazione della L. n. 170 del 4 maggio 1990, del D.M. del 15 gennaio 1991, della L. n. 210 del 25 febbraio 1992, del d.P.R. 27 marzo 1969, n. 128 (art. 7), nonché degli artt. 1173, 1176, 1218, 2043, 2055, 2236 c.c. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3) e 4), c.p.c. per averlo la Corte territoriale ritenuto corresponsabile dell’epatopatia occorsa alla S. a seguito delle trasfusioni cui fu sottoposta nell’Ospedale di C.. Il ricorrente lamenta che -col ritenere l’A. corresponsabile della malattia contratta dalla S. non avendo egli, in base al criterio di vicinanza, offerto la prova che le sacche somministrate fossero state sottoposte a tutti i controlli sierologici obbligatori e/o per non essersi astenuto dal trasfondere il sangue alla paziente in assenza di una “etichettatura” da cui desumere che tali test fossero stati correttamente eseguiti- abbia finito per imporre al sanitario, chirurgo e non ematologo, una prova liberatoria sostanzialmente diabolica, che finirebbe per affermarne un’invincibile responsabilità oggettiva, non conforme allo stesso principio della vicinanza della prova. Il ricorrente deduce che dalla normativa di settore non sia dato evincere l’obbligo del chirurgo, che richiede sangue al reparto di Medicina trasfusionale, di effettuare ulteriori controlli sul plasma da somministrare rispetto a quelli già eseguiti, potendo egli legittimamente fare affidamento sul preventivo controllo effettuato dalla struttura di riferimento, e sul fatto che il sangue risultato infetto a seguito di controlli, da protocollo, debba essere immediatamente eliminato; né alcuna disposizione consentirebbe di imputare a responsabilità del primario di un reparto, quale quello di Ostetricia e Ginecologia, l’omessa o irregolare tenuta delle registrazioni relative ai donatori, ai controlli effettuati sul plasma e alle prove di compatibilità con i soggetti riceventi, attività competenti al diverso reparto ospedaliero di Ematologia, all’epoca diretto dal prof. M.. Il ricorrente deduce, inoltre, che le disposizioni concernenti le indicazioni che deve riportare l’etichettatura sul contenitore di sangue usato a scopo trasfusionale non impongano al richiedente il sangue l’annotazione in cartella clinica di tutti gli elementi riportati sull’ etichetta essendo sufficiente, come avvenuto nella specie, che il sanitario faccia richiesta e utilizzi il sangue trasfuso, previo riscontro della dicitura “esito negativo dei controlli sierologici obbligatori”, limitandosi a indicare nella cartella clinica i codici identificativi delle sacche. Il ricorrente lamenta infine che, se —come afferma la stessa sentenza impugnata- l’A. non era tenuto al controllo del sangue, non potesse certamente essere ritenuto onerato della prova (liberatoria) dell’esito negativo dei test effettuati sul plasma somministrato alla S., non essendo per legge tenuto a rispondere della regolare tenuta dei relativi registri; e che, dimostrata la correttezza del suo operato e dunque il suo esatto adempimento, la domanda nei confronti dell’odierno ricorrente avrebbe dovuto essere rigettata, a qualunque titolo, contrattuale o extracontrattuale, essa fosse stata proposta (artt. 1218 e/o 2043 c.c.). E’ fondato il primo motivo del ricorso A.. Giova ricordare il ruolo svolto dal dottor A. nella vicenda che ha portato alla malattia e poi alla morte di A. S., dando origine alla presente causa. L’A. era all’epoca dei fatti primario del reparto di Ostetricia e Ginecologia dell’Ospedale di C. ove alla signora S., ricoverata e sottoposta a parto cesareo, operata dallo stesso A., vennero trasfuse per reintegrare il sangue perduto a causa del parto, due sacche di sangue provenienti dal Centro Trasfusionale interno all’ospedale. L’A. è stato ritenuto responsabile quindi, non per il cattivo esito dell’operazione – l’operazione in sé è perfettamente riuscita – ma per il danno da emotrasfusioni riportato dalla paziente e ricondotto dalla corte d’appello alle due trasfusioni praticate dopo il parto: sia in quanto fu direttamente il chirurgo operatore, sia per la mancanza ai suoi obblighi di vigilanza in quanto primario del reparto (ex art. 7 della legge n. 128 del 1969) . La sentenza impugnata ha condiviso la linea di riconducibilità causale tracciata dagli eredi della S. a ritroso, avendo individuato nelle antiche trasfusioni l’unico fattore di esposizione al rischio dal quale presuntivamente dedurre con apprezzabile probabilità l’origine del contagio, esclusa l’esistenza in capo alla vittima, nella sua vita personale e clinica, di ogni altra patologia o fattore di rischio specifico per la contrazione del virus HCV. Come si è in precedenza esposto, gli eredi S hanno rivolto l’azione nei confronti di una estesa platea di soggetti collegati alla struttura sanitaria ove è avvenuta l’operazione, a vario titolo ritenuti responsabili. La posizione di ciascuno di essi è però diversa, e la correttezza della decisione impugnata va valutata per ciascuno, sulla base dei motivi di ricorso, alla stregua del titolo di responsabilità di ciascuno e della corretta operatività della regola di responsabilità per ciascuno applicata. Così ricostruito il ruolo dell’A, nella vicenda, nessuna responsabilità può essergli ascritta, avendo egli acquisito le sacche di sangue attraverso la procedura in uso in quell’ospedale, che disponeva di un centro trasfusionale interno e avendo riportato sulla cartella clinica le indicazioni minime indispensabili a consentire la tracciabilità del sangue. In una struttura sanitaria ospedaliera, organizzata in una pluralità di reparti, ove esista un responsabile del reparto di ematologia e del servizio trasfusionale, ciò che compete al chirurgo operatore (sul quale ha l’obbligo di vigilanza il primario del reparto) è acquisire preventivamente la disponibilità del sangue che può essere necessario per una operazione seguendo i protocolli in uso all’interno della struttura in cui opera, indicare sulla cartella clinica gli elementi indispensabili per individuare in primo luogo se c’è stata trasfusione (e, al di fuori dei casi di urgenza, acquisire ed indicare che sia stato prestato il consenso dal paziente), e in caso affermativo, verificare ed indicare in cartella che il gruppo sanguigno del paziente sia compatibile con il gruppo sanguigno del donatore – verifica obbligatoria prima di somministrare il sangue – e riportare sulla cartella gli elementi identificativi della singola sacca di sangue somministrata : nel caso di specie, il numero della provetta e la provenienza dal centro trasfusionale. Non spetta al primario di chirurgia, né al chirurgo operatore effettuare _ direttamente il controllo sul sangue, né la regolare tenuta dei registri o la verifica della preventiva sottoposizione a tutti i test sierologici richiesti dalla legge della sacche di sangue trasfuse, in quanto si tratta di controlli di competenza del centro trasfusionale, che trasmette al reparto richiedente le sacche di sangue e plasma regolarmente etichettate, il che presuppone la tracciabilità del donatore come risultante dai registri alla cui tenuta è obbligato il centro trasfusionale, ed il superamento dei test obbligatori. Occorre tenere distinte, quindi, le annotazioni che devono comparire sulla cartella clinica, di competenza dell’equipe chirurgica, e le annotazioni che devono comparire sulle sacche di sangue, di competenza del servizio ematologico dell’ospedale. La mancata annotazione sulla cartella del superamento degli esami sierologici non può essere elemento idoneo a ritenere il chirurgo somministrante responsabile per il contagio, in quanto questo controllo ricade sul centro trasfusionale interno che, con la trasmissione stessa della sacca (che avrebbe dovuto essere corredata delle prescritte annotazioni) in chirurgia attestava che la sacca di sangue avesse superato i controlli, e sul primario di ematologia, comunque responsabile delle modalità di acquisizione del sangue. Solo il responsabile dell’acquisizione del sangue – il primario di ematologia, responsabile del centro trasfusionale – può essere responsabile della non completa compilazione della scheda di ciascuna sacca di sangue o della mancata esecuzione da parte del centro da lui diretto, dei controlli previsti dalla legge o della mancata annotazione sulla sacca delle indicazioni previste dalla legge, in particolare all’epoca dei fatti, dall’allegato A del d.m. 27.12.1990. Il primo motivo va pertanto accolto, e la sentenza impugnata deve essere cassata. Con il secondo motivo, l’A. deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 345, comma 3, c.p.c. nel testo anteriore alla novella apportata dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 1, lett. B), convertito in L. 134 del 2012, artt. 2727 ss. c.c. in relazione all’art. 360, c.1, nn. 3) e 4) c.p.c. per non aver la Corte territoriale ammesso la produzione degli estratti dai registri c.c.d.d. “Virologia”, “Carico e Scarico” e “Prove di compatibilità” che attestano la sicurezza del plasma (col risultato dei test sierovirologici) trasfuso alla S., nonché dei Registri stessi in originale. Il ricorrente lamenta che, confermando la sentenza di primo grado, la Corte d’appello abbia affermato la responsabilità del prof. A., del Ministero della Salute, della Regione C. e del prof. M. per il valore di prova presuntiva attribuito all’assenza di allegazione e prova in ordine alle procedure seguite per testare la sicurezza del plasma, conformemente alla normativa all’epoca vigente; e ciò nonostante che l’ematologo A. M., con note di deposito del 12 giugno 2014, 21 e 24 marzo 2016, avesse documentato i risultati negativi dei test sierologici effettuati sul sangue trasfuso alla S., così fornendo la prova decisiva, diretta, della sicurezza del plasma somministrato alla paziente. Il ricorrente deduce l’erroneità della tesi per cui l’indispensabilità del documento non possa superare le preclusioni istruttorie e assertive maturate in primo grado, se imputabili a negligenza della parte, in quanto detta tesi negherebbe rilevanza a una prova decisiva, considererebbe il regime delle preclusioni tanto coessenziale al sistema da non ammettere alternative e sacrificherebbe la ricerca della verità materiale. Il ricorrente lamenta, inoltre, che la tesi sostenuta nella sentenza impugnata comporti che della condotta processuale del prof. M., non costituitosi in primo grado, finisca per rispondere l’A., il quale non disponeva però della documentazione decisiva che in giudizio avrebbe potuto essere prodotta solo dal M.; e che pertanto, ove il Giudice d’appello avesse inteso “sanzionare” la condotta del convenuto contumace, tale “sanzione” non avrebbe dovuto estendere al convenuto che si era regolarmente costituito in giudizio. Censura analoga è contenuta nel primo motivo del ricorso incidentale della Regione C., la quale lamenta che la decisione impugnata abbia comportato anche per gli altri coobbligati solidali (Regione C. e M. d. S.) di non poter svolgere in maniera adeguata le proprie difese. ” Il motivo è assorbito, quanto alla posizione dell’A., dall’accoglimento del primo motivo. Sull’indispensabilità della documentazione in questione, in applicazione del previgente art. 345, c. 3, c.p.c., in vigore al momento della proposizione dei gravami principale e incidentale, insiste poi anche il quinto motivo del ricorso incidentale di A. M., in riferimento al quale la questione verrà esaminata. Con il terzo motivo del ricorso A., si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 345, comma 1, c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4) c.p.c. per aver la Corte territoriale ritenuto inammissibile, alla stregua di una nuova domanda, la nuova difesa adottata a sostegno della fondatezza del suo appello con la comparsa conclusionale. Il ricorrente lamenta che la deduzione per cui dalla cartella clinica dell’Ospedale Cotugno del 17 febbraio 2001 (prodotta in primo grado dagli attori) emergesse che la paziente era stata oggetto di trasfusioni già prima del 1993 e risultava affetta da epatite cronica sin dal 1991, esaurendosi nella mera contestazione della domanda avversaria e risolvendosi in un argomento di difesa, costituisca mera illustrazione, pur con nuovo argomentare, delle difese proposte dal prof. A. sin dalla comparsa di costituzione e risposta di primo grado e come tale non era tardiva né inammissibile. Il ricorrente deduce che la Corte d’appello abbia confuso la nozione di mere difese, per le quali non esiste alcun termine preclusivo, con la nozione di domanda ed eccezione, soggette invece a preclusione; e che, allo stesso modo, la questione avrebbe potuto/dovuto formare materia di rilievo d’ufficio, con conseguente conferma dell’estraneità della questione al sistema di preclusioni che interessa unicamente domande ed eccezioni. Censura analoga è mossa con il terzo motivo (erroneamente indicato col numero 1) del ricorso incidentale della Regione C.. Il motivo rimane assorbito, quanto alla posizione dell’A., dall’accoglimento del primo motivo. Esso è comunque infondato. Le considerazioni che seguono valgono a respingere il terzo motivo proposto dalla Regione C., che pone identica questione. La possibilità di svolgere ed introdurre mere difese anche in comparsa conclusionale trova un limite che è quello del già delineatosi thema decidendum (e del relativo thema probandum): non è dato alla parte introdurre, in comparsa conclusionale, fatti non allegati in precedenza, sui quali fondare le proprie difese, che non sono stati introdotti tempestivamente o comunque sui quali non si è svolta alcuna argomentazione nel contraddittorio tra le parti, neppure sostenendo, come nella specie, che questi fatti fossero stati già introdotti nel giudizio, anche se mai in precedenza presi in considerazione dall’una o dall’altra parte né oggetto di rilevazioni da compiere d’ufficio. Nel caso di specie, dalla lettura di un documento già esistente in atti, prodotto dalla controparte (cartella clinica dell’Ospedale C. del 2001) il ricorrente pretende di ricavare come fatto acquisito al processo quella che in realtà è una sua mera ipotesi (che la S. fosse già affetta da epatite fin dal 1991, prima della somministrazione), della quale non si è mai discusso nel giudizio di merito, sulla quale non si è suscitato il contraddittorio, che non è stato provato nel suo reale accadimento e che oltretutto è manifestamente contrastante, come dato storico ipotizzato dal ricorrente, con la linea difensiva degli attori e con lo sviluppo della istruttoria e delle linee difensive delle controparti.2. – Il ricorso incidentale del M.. Nel ricorso incidentale del dott. A.  M., all’epoca dei fatti primario del reparto di Immunoematologia e Servizi trasfusionali dell’ospedale di C., con il primo motivo si deduce la carenza di legittimazione passiva ovvero della titolarità del diritto controverso in capo al prof. M., e che l’esame di tale eccezione, debitamente sollevata nella comparsa di costituzione in appello e poi richiamata sia nella comparsa conclusionale che nelle memorie di replica, sia stata del tutto omessa dalla Corte d’appello di Napoli. Il ricorrente deduce inoltre che il Giudice d’appello abbia erroneamente confermato la condanna “in proprio” del M., pur avendone affermato la responsabilità “nella spiegata qualità” di direttore dell’Unità di Medicina trasfusionale dell’Ospedale civile di C.; con la conseguenza che l’evidente contraddizione contenuta nella motivazione della sentenza di primo grado sia stata fatta propria anche dalla Corte d’appello. Ciò premesso, il primo motivo è del tutto infondato, ai limiti della comprensibilità: non è ravvisabile alcuna carenza di legittimazione passiva in capo al M., in quanto egli, come sopra ricostruito, è stato evocato in giudizio, e ritenuto responsabile, in virtù dell’incarico che ricopriva nel 1993, quando furono effettuate le trasfusioni, di primario del reparto di Immunoematologia e Servizi trasfusionali dell’ospedale di C., e degli obblighi che ne discendevano di organizzazione del servizio e di vigilanza e controllo sul sangue che veniva somministrato ai pazienti dell’ospedale, responsabilità delle quali il Minerva non risulta avere a tutt’oggi una chiara percezione: per la violazione degli obblighi che derivavano dall’incarico ricoperto è stato ritenuto direttamente responsabile nei confronti dei parenti del paziente contagiato. Con il secondo motivo, si deduce la violazione della L. 107 del 1990; dell’art. 7 D.P.R. 128 del 1969; degli artt. 32 e 35 D.M. 27.12.1990 e relativo allegato A, in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c. Il ricorrente lamenta che la Corte d’appello di Napoli abbia immotivatamente ritenuto che al M. fosse stata addebitata la responsabilità per la somministrazione di sacche di sangue non adeguatamente etichettate (in violazione delle cautele del caso); e che, in realtà, nella sentenza di primo grado tale addebito sia stato mosso solo nei confronti dell’A.. Il ricorrente deduce inoltre che i Giudici d’appello avrebbero dovuto limitarsi a valutare se fosse stata o meno rispettata dal Prof. M. la normativa disciplinante le “procedure previste per l’identificabilità del donatore e del centro trasfusionale di provenienza”; che il M. abbia tenuto un comportamento diligente, atteso che in cartella clinica sarebbero presenti le prove di compatibilità pretrasfusionali indicanti gli estremi identificativi del donatore e delle provette, e che non fosse suo compito annotare gli estremi delle sacche trasfuse nella cartella clinica; e che altra questione sia la conservazione della documentazione relativa ai donatori, per la quale il M. non poteva essere chiamato a rispondere sia perché non competeva allo stesso ma all’Ospedale, sia perché la legge prevedeva la loro conservazione solo per cinque anni. Il ricorrente incidentale mostra di non percepire che i diversi soggetti coinvolti in questa causa sono stati evocati in giudizio ciascuno per un diverso profilo di allegata responsabilità: la sua responsabilità non coincide con quella del chirurgo che ha somministrato le sacche di sangue e che quindi doveva materialmente compiere le annotazioni sulla cartella clinica. La sua è quella del primario di immunoematologia e del Servizio Trasfusionale dell’Ospedale di C., responsabile quindi della istituzione e tenuta dei registri relativi alle sacche di sangue che venivano somministrate all’interno dell’ospedale, dei controlli virologici, della tracciabilità del sangue somministrato. Deve poi aggiungersi che il d.m. 27.12.1990, fonte secondaria, da un lato non fa venir meno i sopra citati obblighi del primario fissati dalla legge, dall’altro impone conservare i dati “per almeno cinque anni” e non solo per cinque anni. Né la difesa del M. si è attivata per richiedere i predetti dati per tempo all’Ospedale ottenendone risposta negativa: solo in questo caso avrebbe potuto far questione della non riconducibilità, in capo al medico, dell’obbligo di conservazione che grava sull’ospedale (v. in proposito Cass. n. 18567 del 2018). Con il terzo motivo del ricorso incidentale M., si deduce l’errore in iudicando ex art. 360, n. 5, c.p.c., consistente nella mancata ammissione della ‘ C.T.U. Il ricorrente lamenta che la Corte d’appello in alcun modo motivi nella gravata sentenza il rigetto dell’istanza, formulata peraltro anche da altri appellanti, di procedere alla nomina di un CTU, omettendo completamente di esaminarla, e che la Corte abbia deciso di rinunciare all’espletamento della consulenza senza essere in possesso di elementi probatori sufficienti; con conseguente censurabilità di tale comportamento anche in sede di legittimità. Il motivo è inammissibile. Preliminarmente è opportuno evidenziare che, poiché la sentenza gravata è stata depositata il 24 ottobre 2012, nel presente giudizio risulta applicabile il testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 come modificato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 convertito con la L. 7 agosto 2012, n. 134. Tale testo – in forza della quale le sentenze ricorribili per cassazione possono essere impugnate “per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti” – si applica infatti, per il disposto del suddetto art. 54, comma 3 ai ricorsi per cassazione avverso sentenze pubblicate dall’Il settembre 2012, trentesimo giorno successivo all’entrata in vigore della legge di conversione del D.L. n. 83 del 2012. Nel caso di specie, dalla sentenza di appello si desume agevolmente che, in presenza degli altri, cospicui motivi sui quali ha fondato la propria motivazione, la corte d’appello ha implicitamente ritenuto non necessario il ricorso alla consulenza tecnica, né aveva obbligo di motivare espressamente sul rigetto dell’istanza. Analoghe censure sono contenute nel secondo motivo del ricorso incidentale della Regione C.. Con il quarto motivo, si deduce la violazione dell’art. 345 c.p.c. in relazione all’art. 360, n. 3 e 4, c.p.c. in relazione alla mancata ammissione dei documenti allegati in appello ed all’ errore della corte di appello sulla loro provenienza. Il ricorrente lamenta che i documenti prodotti nel corso del giudizio d’appello ed attestanti i risultati negativi dei test sierologici effettuati sul sangue trasfuso alla S. non provengano dall’AVIS di A., come erroneamente affermato dalla Corte d’appello, ma dall’Ospedale civile di C.; che tale errore sulla provenienza dei documenti abbia indotto la Corte d’appello a ritenere tardiva la produzione in giudizio della suddetta documentazione da parte dell’allora appellante incidentale prof. M.; che, tuttavia, il M. stesso abbia palesato al Giudice d’appello che solo per mero caso la suddetta documentazione sia venuta fuori durante un’ispezione dei cantinati dell’Ospedale di C., con conseguente impossibilità di produrla prima, e con l’ulteriore conseguenza che non possa affermarsene la contraddittorietà con le difese dedotte dal Minerva con l’appello incidentale, redatto prima del ritrovamento della suddetta documentazione. Con il quinto motivo il M. denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c., nel testo previgente, ratione temporis applicabile al caso di specie, in relazione alla mancata ammissione di documenti indispensabili ai fini della decisione: sostiene che essendo applicabile ratione temporis il testo previgente dell’art. 345 c.p.c., i documenti che intendeva produrre in appello (che non specifica nella illustrazione del motivo quali siano, né se siano stati nuovamente prodotti in questa sede, né con quale numerazione fossero stati indicati nel fascicolo di appello) avrebbero dovuto essere ammessi in quanto indispensabili.( idonei a fornire un contributo essenziale per accertare la verità materiale, secondo una nozione confermata dalle sezioni Unite (Cass. n. 10790 del 2017).Il quarto e quinto motivo possono essere trattati congiuntamente in quanto connessi, e sono infondati. Occorre preliminarmente chiarire che, come si evince a fatica dalla ondivaga linea difensiva del M., i documenti che egli chiedeva di essere ammesso a produrre non sono stati prodotti congiuntamente all’atto di appello, nel 2012, ovvero la prima volta che il M. ha preso parte attiva a questo giudizio, ma egli ha chiesto di essere ammesso a produrli per la prima volta con nota del 12.6.2014, e poi nel 2016, proprio perché, come lui stesso evidenzia, i registri di ematologia furono rinvenuti fortuitamente, ad un certo punto del giudizio del giudizio di appello, negli scantinati dell’ospedale di C., ove nessuno, neppure il primario del reparto, sapeva che si trovassero. A due anni dall’inizio del giudizio di appello il M. cambiò quindi strategia processuale, chiedendo la produzione dei documenti, che gli fu negata, e cominciando da quel momento in poi a sostenere di aver dimostrato o chiesto di dimostrare che il contagio non potesse derivare dalle trasfusioni, in quanto il sangue somministrato risultava esente da virus. Alla predetta istanza di produzione documentale non si applica la nuova formulazione dell’art. 345, comma 3, c.p.c., quale risulta dalla novella di cui al d.l. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, nella I. n. 134 del 2012 (applicabile nel caso in cui la sentenza conclusiva del giudizio di primo grado sia stata pubblicata dopo l’11 settembre 2012), che pone il divieto assoluto di ammissione di nuovi mezzi di prova in appello, senza che assuma rilevanza l'”indispensabilità” degli stessi, e limita l’ammissibilità alla dimostrazione della parte di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile (su cui v. Cass. n. 26522 del 2017). Si applica invece ratione temporis la formulazione precedente, in relazione alla quale le Sezioni Unite di questa Corte (S.U. n. 10790 del 2017) hanno affermato che “nel giudizio di appello, costituisce prova nuova indispensabile, ai sensi dell’art. 345, comma 3, c.p.c., nel testo pre vigente rispetto alla novella di cui al d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla I. n. 134 del 2012, quella di per sé idonea ad eliminare ogni possibile incertezza circa la ricostruzione, fattuale accolta dalla pronuncia gravata, smentendola o confermandola senza lasciare margini di dubbio oppure provando quel che era rimasto indimostrato o non sufficientemente provato, a prescindere dal rilievo che la parte interessata sia incorsa, per propria negligenza o per altra causa, nelle preclusioni istruttorie del primo grado”. Il ricorrente incidentale richiama la pronuncia a Sezioni unite che tuttavia non è utilmente invocabile nel caso di specie. L’intervento delle Sezioni unite chiarisce che la prova nuova in appello è ammissibile, perfino se chi chiede di essere ammesso alla prova sia incorso nelle preclusioni per causa a sé imputabile, quando sia decisiva, indispensabile per far emergere la verità processuale, cioè per provare la verità dei fatti allegati, o l’assoluta infondatezza dei fatti addebitati dalla controparte. Essa si muove quindi pur sempre nel rispetto del limite del thema decidendum, che è stato delimitato sia dagli attori che dai convenuti con l’allegazione dei fatti, in questo caso dal M. con il suo stesso atto di appello: la parte può essere ammessa a provare una circostanza che, pur allegata, era rimasta, anche se per sua inerzia, sfornita di prova, ma non può essere ammessa a provare una circostanza del tutto diversa ed estranea rispetto ai fatti allegati. Quindi il limite non è quello della prova nuova in appello, ma è quello della stessa allegazione della parte che ha concorso a formare un determinato thema decidendum, sul quale si è sviluppato il contraddittorio. Chiusa la delimitazione del thema decidendum, chiusa anche la fase di ammissione delle prove, la parte non può pretendere, sbilanciando del tutto a suo favore lo svolgimento e il probabile esito del giudizio – di mutare radicalmente linea difensiva, introducendo una ricostruzione dei fatti diversi, sostenuta da una prova nuova, che chiede di essere ammesso a fornire quando ormai il giudizio di appello si avvia verso la decisione. Correttamente, la sentenza di appello afferma quindi che (pag.22- 23) “Ora, non può sottacersi che appare ben singolare la produzione dei registri in questione ad opera di parte che è rimasta assente dal processo in primo grado e che in appello ha imbastito la sua difesa su argomentazioni per niente compatibili con la dedotta impossibilità di produzione in questione. Segnatamente, la difesa spiegata dopo tale produzione dal M. collide con quella iniziale, secondo cui nessuna annotazione e controllo avrebbe dovuto essere effettuato nel reparto di Immunologia e Trasfusioni da lui diretto, provenendo le sacche di sangue dal centro di raccolta AVIS di A. che aveva già validato la sua qualità ed annotato ogni notizia utile compreso la negatività a tutti i tests immunologici e virali ex lege prescritti ed espletati. Ed allora appare di tutta evidenza che la dedotta indispensabilità dei registri in questione non è affatto ravvisabile, stridendo la loro produzione con la stessa difesa che l’appellante incidentale M. ha illustrato nell’unico atto difensivo in cui ciò poteva: la comparsa di costituzione e risposta contenente appello incidentale”. 3.- Il controricorso del M. d. S., contenente ricorso incidentale. Il controricorso del M. d. S. contiene un motivo di ricorso incidentale, che il controricorrente definisce condizionato, con il quale si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 115 e 116 c.p.c., nonché dell’art. 2043 c.c., per aver ritenuto sussistente la responsabilità del M.,  a fronte di trasfusioni di sangue somministrate nel 1993, quando il M. già con la legge n. 107 del 1990 aveva fornito alle strutture sanitarie direttive dettagliate in merito alle emotrasfusioni, e per aver sostenuto che il M. avrebbe dato attuazione al piano sangue solo nel 1994, con l’emanazione del d.P.R. 7 aprile 1994. Il M. aveva richiesto che la questione venisse sottoposta alle S.U. come questione di massima di particolare importanza, istanza che non è stata accolta, considerando che la questione della responsabilità omissiva del M. della salute per i danni da trasfusioni con sangue infetto è stata già oggetto di numerose pronunce, anche a Sezioni unite, e che la giurisprudenza in proposito è del tutto consolidata. Il motivo di ricorso incidentale in effetti non è condizionato ma autonomo, in quanto il M. si presenta in Cassazione soccombente, in quanto condannato in solido con gli altri soggetti a risarcire i danni agli eredi S. per un suo autonomo titolo di responsabilità, ed è infondato. La responsabilità extracontrattuale del M. d. S. per violazione dei suoi obblighi di vigilanza in ordine alla somministrazione di sangue per uso terapeutico, accertato – come nel caso di specie – sulla base della regola della preponderanza dell’evidenza che la contrazione di una determinata patologia fosse dovuta appunto alla somministrazione di sangue o di emoderivati infetti, è stata affermata con continuità da questa Corte, e va in questa sede confermata, sulla base degli obblighi di sorveglianza già esistenti ben prima dell’entrata in vigore della legge n. 107 del 1990, contenente la disciplina per le attività trasfusionali e la produzione di emoderivati (in questo senso Cass. S.U. n. 576 del 2008; Cass. n. 11609 del 2005). Si afferma infatti costantemente che in tema di patologie conseguenti ad infezioni con i virus HBV, HIV e HCV, contratti a causa di assunzione di emotrasfusioni o di emoderivati con sangue infetto, il M. d. s. è responsabile per i danni, provocati dall’omesso comportamento attivo di vigilanza e controllo in ordine alla effettiva attuazione da parte delle strutture sanitarie addette al servizio, di quanto ad esse prescritto al fine di prevenire ed impedire la trasmissione di malattie mediante sangue infetto ( Cass. n. 11360 del 2018, che ha confermato la sentenza di merito che, accertato il comportamento omissivo con riferimento a trasfusioni eseguite nel 1992, aveva affermato la responsabilità del M. per i danni provocati dal contagio dell’epatite B). Da ultimo, oltre a confermare l’unicità dell’evento lesivo, qualsiasi sia la patologia immunodeficitaria oggetto di contagio, e l’insufficienza della sola adozione della legge n. 107 del 1990 per poter considerare esente da responsabilità il M., ovvero il soggetto istituzionalmente preposto al vertice delle funzioni di controllo, si è affermato che, in caso di patologie conseguenti ad infezione da virus HBV, HIV e HCV, contratte a seguito di emotrasfusioni o di somministrazione di emoderivati, sussiste la responsabilità del M. d. s. anche per le trasfusioni eseguite in epoca anteriore alla conoscenza scientifica di tali virus e all’apprestamento dei relativi test identificativi (risalenti, rispettivamente, agli anni 1978, 1985, 1988), atteso che già dalla fine degli anni ’60 era noto il rischio di trasmissione di epatite virale ed era possibile la rilevazione (indiretta) dei virus, che della stessa costituiscono evoluzione o mutazione, mediante gli indicatori della funzionalità epatica, gravando pertanto sul M. d. s., in adempimento degli obblighi specifici di vigilanza e controllo posti da una pluralità di fonti normative speciali risalenti già all’anno 1958, l’obbligo di controllare che il sangue utilizzato per le trasfusioni e gli emoderivati fosse esente da virus e che i donatori non presentassero alterazione della transaminasi (Cass. n. 1566 del 2019). 4. – Il controricorso della Regione C., contenente ricorso incidentale. Con il primo motivo di ricorso incidentale, la Regione C. denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 345, comma 3, c.p.c., nel testo vigente pro tempore, precedente alla novella introdotta dal d.l. n. 83 del 2012, convertito in legge n. 134 del 2012, per non aver la corte d’Appello di Napoli ritenuto ammissibili i documenti prodotti in appello dal M., attestanti la sicurezza del sangue utilizzato per le trasfusioni per cui è causa. • Il motivo è infondato: valgono per esso le stesse considerazioni già svolte per il quarto motivo del ricorso incidentale M.. Con il secondo motivo, la Regione denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, per aver il giudice del gravame omesso di valutare l’ammissione della consulenza tecnica d’ufficio, sulla scorta della ritenuta insufficienza delle produzioni documentali dei convenuti. Anch’esso è infondato: valgono le stesse considerazioni svolte a proposito del terzo motivo di ricorso incidentale M.. Con il terzo motivo, la Regione denuncia la presenza di un error in iudicando, in relazione all’art. 360 primo comma, n. 5 c.p.c., per aver la Corte d’Appello di Napoli dichiarato l’inammissibilità di alcune contestazioni formulate dalla Regione C., ritenendole tardive in quanto proposte per la prima volta in comparsa conclusionale. Anche quest’ultimo motivo è infondato: valgono le stesse considerazioni svolte in riferimento ad analoga questione posta dal quarto e quinto motivo del ricorso incidentale M. (e contenuta anche nel terzo motivo del ricorso principale A.). Conclusivamente, è fondato il primo motivo del ricorso A., il che comporta l’accoglimento del ricorso A. con assorbimento degli altri motivi del ricorso principale. I ricorsi incidentali proposti, infondati, sono rigettati. Non essendo necessari altri accertamenti in fatto, questa Corte, facendo uso dei poteri di cui all’art. 384, secondo comma c.p.c., cassa la sentenza impugnata in relazione alla posizione del solo A. e, decidendo nel merito, rigetta la domanda nei confronti dell’A.. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come al dispositivo; solo nei ‘ rapporti tra il ricorrente principale e la ASL, che ha solo partecipato all’udienza di discussione, possono essere compensate in ragione del comportamento processuale di questa. Per i ricorrenti incidentali soccombenti, poiché il ricorso incidentale è stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013, e i ricorrenti risultano soccombenti, sono gravati dall’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis dell’art. 13, comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002.Si segnala la necessità dell’oscuramento dei dati.

Autore: Anna Macchione - Ufficio Legislativo FNOMCeO

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