Cassazione Civile Sentenza n. 604/19

È legittimo il licenziamento di un medico di una Casa di cura per prolungate violazioni dell’orario di lavoro. Il giudice di rinvio, nel ritenere accertato il rapporto di proporzionalità tra fatto e sanzione, ha osservato come la fattispecie ponesse “di fronte ad un sanitario con responsabilità di un reparto, il quale “aveva fornito una prestazione quantitativamente assai inferiore a quella contrattuale, esponendo il datore di lavoro a problemi organizzativi, perdita di immagine e rischi nei confronti dei pazienti”.

FATTO E DIRITTO: Con sentenza n. 2098/2017, depositata il 10 aprile 2017, la Corte di appello di Roma, pronunciando in sede di rinvio, respingeva il reclamo di G. M. avverso la sentenza del Tribunale della stessa sede che aveva confermato l’ordinanza, emessa nella fase sommaria, con la quale era stata rigettata la domanda volta all’accertamento della illegittimità del licenziamento disciplinare intimato al ricorrente, in data 28/1/2013, dalla Casa di cura (Omissis). per prolungate violazioni dell’orario di lavoro. La Corte – richiamato il principio di diritto enunciato nella sentenza rescindente (Cass.n. 10950/2016), secondo il quale il giudice di merito deve apprezzare la gravità dell’addebito non semplicemente sotto il profilo della sua astratta riconducibilità alla fattispecie della giusta causa (o del giustificato motivo) di recesso, ma in concreto, mediante la valutazione di tutti gli aspetti oggettivi e soggettivi della condotta posta in essere, essendo pur sempre necessario che il fatto oggetto di contestazione disciplinare rivesta il carattere di grave negazione dell’elemento essenziale della fiducia – osservava, a fronte di una sostanziale ammissione del lavoratore, come non vi fosse prova di una precedente tolleranza delle assenze da parte della Casa di cura; e d’altra parte – rilevava ancora la Corte – le stesse dichiarazioni rese dal dipendente nelle proprie note difensive in sede disciplinare erano tali da indicare come egli, stante il contemporaneo svolgimento di attività politica, non avesse intenzione di assicurare neppure per il futuro una presenza a tempo pieno, nonostante la responsabilità di un reparto: ciò che forniva piena giustificazione del completo venir meno, nel datore di lavoro, della fiducia circa la futura correttezza dell’adempimento della prestazione. Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza il M. con cinque motivi, assistiti da memoria, cui ha resistito la società con controricorso. Ragioni della decisione Con il primo motivo, deducendo violazione degli artt. 384 e 394 cod. proc. civ. e nullità della sentenza per difetto di motivazione ex art. 360 n. 4 cod. proc. civ., il ricorrente si duole che il giudice di rinvio, disattendendo o sostanzialmente eludendo il principio di diritto enunciato da questa Corte nella sentenza n. 10950/2016, non abbia svolto una compiuta valutazione degli elementi tutti del caso sottoposto al suo giudizio e di ogni altra circostanza ad esso inerente, ai fini del richiesto apprezzamento in concreto (e non puramente in astratto) della gravità dell’addebito, e che, in particolare, abbia trascurato di esaminare il profilo soggettivo della condotta contestata, nelle sue possibili e diverse articolazioni, non essendo sufficiente a stabilirne l’incidenza sulla proporzionalità della sanzione il rilevato difetto di tolleranza da parte del datore di lavoro e dovendosi, in ogni caso, considerare la complessità del rapporto intercorso fra le parti.  Il motivo è infondato.  In primo luogo, si deve escludere che la motivazione della sentenza impugnata sia “del tutto apparente”, diversamente da quanto denunciato (cfr. ricorso, p. 5).  Può invero definirsi tale la motivazione solo quando essa, sebbene graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (Sez. U n. 22232/2016). Nella specie, il giudice di rinvio è, invece, pervenuto a configurare la proporzionalità della sanzione espulsiva rispetto all’addebito a conclusione di un (sintetico ma) chiaro ragionamento che, sulla premessa del principio enunciato nella sentenza rescindente, ha esaminato la nota di giustificazioni trasmessa nell’ambito del procedimento disciplinare e da essa tratto, oltre al riconoscimento da parte del lavoratore incolpato della sostanziale sussistenza del fatto, elementi ritenuti indicativi tanto della consapevole volontarietà dei comportamenti pregressi come della altrettanto consapevole indisponibilità ad assicurare neppure in futuro una presenza oraria corrispondente agli obblighi contrattuali. Con i restanti motivi il ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui il giudice di rinvio, nel ritenere accertato il rapporto di proporzionalità tra fatto e sanzione, ha osservato come la fattispecie ponesse “di fronte ad un sanitario con responsabilità di un reparto, il quale” aveva “fornito una prestazione quantitativamente assai inferiore a quella contrattuale, esponendo il datore di lavoro a problemi organizzativi, perdita di immagine e rischi nei confronti dei pazienti” (cfr. sentenza, p. 5, terzo capoverso).  In particolare, viene dedotta dal ricorrente, con i motivi ora in esame, la nullità della sentenza impugnata per non avere in alcun modo motivato sulla specifica ed espressa eccezione di inammissibilità delle deduzioni relative ai “problemi organizzativi, perdita di immagine e rischi nei confronti dei pazienti”, cui il datore di lavoro sarebbe stato esposto, in quanto svolte dalla Casa di Cura soltanto a seguito di riassunzione del giudizio (2°); la violazione dell’art. 394 cod. proc. civ. per avere la sentenza esaminato allegazioni nuove, proposte solamente con il ricorso ex art. 392 cod. proc. civ. e, pertanto, in contrasto con la natura e i limiti del giudizio di rinvio (3°); la violazione di varie norme del Codice di rito (artt. 99, 112, 392, 414, 416 e 421 cod. proc. civ.) per avere la sentenza posto a fondamento della decisione allegazioni in fatto del tutto generiche e, di conseguenza, tali da imporre una pronuncia di rigetto per infondatezza (4°); la violazione, infine, degli artt.115 e 116 cod. proc. civ. per avere la sentenza considerato dimostrati fatti, in relazione ai quali la Casa di Cura non aveva offerto alcuna prova (5°).  Anche tali motivi, da trattarsi congiuntamente, non possono trovare accoglimento. E’, infatti, chiaro, alla luce del percorso motivazionale seguito dal giudice di rinvio, che il positivo riscontro della proporzionalità tra addebito disciplinare e sanzione è stato fondato sull’obiettivo accertamento di “una prestazione quantitativamente assai inferiore a quella contrattuale”, senza che risultassero atti o prassi di tolleranza da parte datoriale, oltre che sull’accertamento dell’elemento psicologico nei termini sopra precisati (n. 5), di conseguenza ponendosi le valutazioni oggetto di ripetuta censura non già sul piano di un accrescimento fattuale ma di corollari, mediati da massime di esperienza, discendenti da una situazione la cui gravità – come precisato – è fatta essenzialmente risiedere altrove.  In conclusione, il ricorso deve essere respinto.

Autore: Marcello Fontana - Ufficio Legislativo FNOMCeO

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