Cassazione Penale Sent. N. 40908/18 – Attività di intramoenia

Cassazione Penale Sent. N. 40908/18 – Attività di intramoenia – Integra il delitto di peculato la condotta del medico dipendente di un ospedale pubblico il quale, svolgendo in regime di convenzione attività intramuraria, dopo aver riscosso l’onorario dovuto per le prestazioni, ometta poi di versare all’azienda sanitaria quanto di spettanza della medesima, in tal modo appropriandosene. Gli importi corrisposti al sanitario nell’esercizio di attività intramoenia acquistano infatti natura pubblica, in virtù della convenzione tra la ASL e il medico dipendente.

FATTO E DIRITTO: Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte di appello dell’Aquila confermava parzialmente la sentenza del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale della stessa città che, all’esito di giudizio abbreviato, aveva dichiarato D.D.A. responsabile del reato di peculato continuato, condannandolo alla pena ritenuta di giustizia, ed in particolare limitava alla somma di euro 342 l’oggetto dell’appropriazione, riducendo quindi anche l’entità della somma confiscata e rideterminando la somma liquidata a titolo di risarcimento. All’imputato era stato contestato di essersi appropriato, quale medico dipendente dell’ASL, in regime di rapporto esclusivo, della somma – della quale aveva la disponibilità per ragioni di servizio – di circa 25 mila euro, in ragione degli elementi positivi di reddito sottratti a tassazione per tra il 2008 e il 2013. Era stato accertato che l’imputato, autorizzato ad esercitare la attività di libero professionista in regime intra moenia, percependo l’indennità versatagli dal S.S.N. a titolo di regime esclusivo, in alcuni casi di attività professionale svolta in tale regime non aveva riversato etibegsti:tek al Servizio sanitario nazionale, trattenendole per sé, le somme di spettanza sugli onorari percepiti. In primo grado, il Giudice dell’udienza preliminare aveva ritenuto non provata l’ipotesi accusatoria, secondo cui dovevano imputarsi, come “sottratti”, tutti gli introiti presenti su conti correnti dell’imputato, pari alla somma indicata nel capo di imputazione, che non avevano trovato giustificazione. Pertanto aveva limitato la condotta appropriativa a soli cinque casi, con riduzione della somma contestata in quella di 570 euro, ricavabile dalle dichiarazioni di alcuni pazienti visitati dall’imputato. In sede di appello, l’imputato aveva denunciato la diversità del fatto ritenuto in sentenza, posto che rispetto all’originaria contestazione che correlava il mancato versamento a somme derivanti da infedele dichiarazione dei redditi, il primo giudice aveva fatto invece riferimento alle dichiarazioni di pazienti in ordine a versamenti effettuati in attività di intra moenia. Aveva inoltre contestato la configurabilità del peculato, perché ne difettavano tutti gli elementi, in particolare sostenendo che l’illecito fiscale potesse concretizzare il reato di cui all’art. 314 cod. pen. e che non fosse raggiunta comunque la prova dell’ammontare delle somme oggetto di omesso versamento. La Corte di appello escludeva che si fosse accertato un fatto diverso, avendo il primo giudice soltanto ridotto l’importo originariamente contestato, e confermava l’esatto inquadramento del fatto nell’ambito della fattispecie penale contestata, non configurando il versamento delle somme percepite in regime intra moenia una prestazione meramente tributaria. Quanto alla prova del fatto, la Corte di appello richiamava le dichiarazioni rese dai pazienti, mentre riduceva la somma oggetto di appropriazione, in quanto sugli onorari percepiti doveva essere dedotta la somma spettante al professionista, pari al 40%. 2. Avverso la suddetta sentenza, ricorre per cassazione, a mezzo del suo difensore, l’imputato, deducendo i motivi di seguito sintetizzati ai sensi dell’art.173 disp. att. cod. proc. pen..L’impugnazione si snoda invero sull’erroneo presupposto che all’imputato sia stato contestato un illecito tributario. L’assunto, come correttamente hanno spiegato i giudici del merito, è del tutto infondato. Nel capo di imputazione infatti la condotta contestata ha chiaramente ad oggetto la condotta appropriativa realizzata attraverso il mancato versamento di danaro al S.N.N., di cui l’imputato aveva la disponibilità in quanto “autorizzata” dalla ASL, attraverso il regime intra moenia. Non vi è alcun riferimento alla “infedele dichiarazione”. Sul punto, vengono in considerazione i principi più volte affermati in sede di legittimità in tema di maneggio del denaro pubblico, attività che impone al soggetto attivo il generale obbligo di rendicontare o giustificare il relativo svolgimento secondo le precipue finalità istituzionali. Obbligo che non comporta ovviamente l’applicazione di un unico modello di disciplina ed organizzazione della spesa pubblica, risultando comunque incompatibile con la Costituzione l’ipotesi di un potere di maneggio di denaro pubblico sottratto ad ogni tipo di controllo – di natura amministrativa o giurisdizionale – esterno a chi concretamente ne dispone. Da tale premessa, questa Corte ha pertanto affermato il principio di diritto che costituisce delitto di peculato l’utilizzazione di denaro pubblico, quando non si dia giustificazione certa – secondo le norme generali della contabilità pubblica ovvero quelle derogative previste dalla legge nella singola fattispecie – del loro impiego, in caso di incameramento delle somme. Gli importi corrisposti al sanitario nell’esercizio di attività intramoenia acquistano infatti natura pubblica, in virtù della convenzione tra la ASL e il medico dipendente. Questa Corte di legittimità a sua volta ha affermato in numerosi arresti che integra il delitto di peculato la condotta del medico dipendente di un ospedale pubblico il quale, svolgendo in regime di convenzione attività intramuraria, dopo aver riscosso l’onorario dovuto per le prestazioni, ometta poi di versare all’azienda sanitaria quanto di spettanza della medesima, in tal modo appropriandosene (per tutte, tra le tante, Sez. 6, n. 29782 del 16/03/2017, Tenaglia, Rv. 270556; Sez. 6, n. 25255 del 14/02/2012, Minervini, Rv. 253098; in una fattispecie del tutta analoga alla presente, Sez. 6, n. 27954 del 16/06/2016, Strozzieri, non mass.). Così inquadrata la fattispecie, la Corte di appello ha fornito corretta ed adeguata risposta ai rilievi difensivi sulla prova della appropriazione, rilevando che non risultavano né prodotte né altrimenti acquisite le ricevute fiscali relative alle prestazioni la cui effettuazione risultava pienamente provata sulla base delle dichiarazioni dei pazienti. Pertanto provato l’impossessamento della somma versata dai pazienti per la prestazione professionale in regime intramurario, il ricorrente non aveva in alcun modo dimostrato di aver rendicontato, come dovuto, la gestione della somma. Quanto poi alle prove, secondo il ricorrente, non considerate, il relativo motivo, oltre che esposto genericamente, appare esulare il tema devoluto con l’appello, che non conteneva alcun riferimento specifico a tali prove, avendo piuttosto il ricorrente contestato il difetto probatorio in ordine all’effettivo versamento da parte dei pazienti di euro 570 da parte di pazienti visitati. Le richiamate prove, secondo il ricorrente, avrebbero invece dimostrato il versamento delle somme all’ASL degli importi calcolati sulle ricevute emesse dall’imputato e trasmesse all’ASL. Il ricorso è stato dichiarato inammissibile.

Autore: Marcello Fontana - Ufficio Legislativo FNOMCeO

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