Cassazione Penale Sentenza n. 13307/18– Esercizio abusivo professione odontoiatrica – Secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, condivisa dal Collegio, in tema di abusivo esercizio di una professione, lo svolgimento dell’attività di odontoiatra da parte dei cittadini dell’Unione europea in possesso del diploma rilasciato da uno Stato dell’Unione non configura gli estremi del reato previsto dall’art. 348 cod. pen. solo se l’interessato abbia presentato domanda al Ministero della Sanità e questo, dopo aver accertato la regolarità dell’istanza e della relativa documentazione, abbia trasmesso la stessa all’Ordine professionale competente per l’iscrizione. Il Tribunale ha rilevato che la previsione di cui all’art. 10 del D.lgs. n. 206 del 2007 vieta al prestatore di opera proveniente da altro Stato membro di esercitare qualunque attività professionale senza aver previamente informato con dichiarazione scritta l’autorità competente, salvo i casi di urgenza. Pertanto la Corte di Cassazione ha affermato che nel caso dell’assenza della dichiarazione scritta all’autorità competente prevista dall’art. 10 d.lgs. n. 206 del 2007, e della strutturazione dello studio, predisposto per operare in termini di costante ordinarietà, deve ritenersi corretta l’applicazione dei principi giurisprudenziali consolidati sopra riportati. La Corte ha rigettato il ricorso e condannato il ricorrente al pagamento delle spese.
FATTO E DIRITTO: Con ordinanza emessa in data 10 novembre 2017, il Tribunale di Vicenza ha rigettato l’istanza di riesame presentate nell’interesse di V. Z., indagato per il reato di esercizio abusivo della professione di odontoiatra avverso /1 un provvedimento di sequestro preventivo avente ad oggetto lo studio dentistico recante l’insegna “Omissis.” e le relative attrezzature ed apparecchiature. Ha presentato ricorso per cassazione avverso l’ordinanza indicata in epigrafe l’avvocato (Omissis), quale difensore di fiducia di V. Z., articolando due motivi. Con il primo motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento all’art. 321 cod. proc. pen., a norma dell’art. 606, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., avendo riguardo all’insussistenza del fumus commissi delicti. Si deduce che il Tribunale ha ritenuto sussistente il fumus commissi delicti solo perché l’indagato era all’interno dello studio dentistico con indosso un camice verde in assenza di altro medico odontoiatra, sebbene all’interno dei locali non fosse presente alcun paziente, ed il ricorrente non stesse eseguendo alcuna attività riservata agli iscritti all’albo dei medici odontoiatri. Con il secondo motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento all’art. 348 cod. pen. e all’art. 10 d.lgs. n. 206 del 2007, a norma dell’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., avendo riguardo alla configurabilità del reato di esercizio abusivo della professione di medico odontoiatra. Si deduce che l’indagato ha ottenuto in Portogallo l’abilitazione all’esercizio della professione odontoiatrica fin dal 2003, e che tale qualifica professionale, a norma delle direttive comunitarie n. 786/78 e n. 787/86, del principio di non discriminazione tra i diversi cittadini dell’Unione Europea e dell’art. 10 d.lgs. n. 206 del 2007, consente di compiere interventi, anche senza l’iscrizione all’albo professionale italiano, perfino in assenza di alcuna comunicazione al Ministero della Salute, quanto meno nei casi di prestazioni urgenti. Il ricorso è complessivamente infondato per le ragioni di seguito precisate. Le censure formulate con il primo motivo contestano la configurabilità e sussistenza del fumus commissi delicti, in quanto all’interno dello studio non era presente alcun paziente, né risulta che l’indagato stesse eseguendo attività riservate agli iscritti all’albo dei medici odontoiatri. Il tema degli indizi necessari per poter procedere a sequestro preventivo ha dato luogo a diversificati orientamenti di giurisprudenza. Secondo un orientamento, la verifica del fumus commissi delicti non può estendersi fino ad un vero e proprio giudizio di colpevolezza, essendo sufficiente la semplice indicazione di una ipotesi di reato, in relazione alla quale sussista la necessità di escludere la libera disponibilità della cosa pertinente a quel reato, potendo essa aggravarne o protrarne le conseguenze. Secondo l’indirizzo più attento alle esigenze di garanzia dell’indagato, invece, ai fini dell’emissione del sequestro preventivo il giudice deve valutare la sussistenza in concreto del fumus commissi delicti attraverso una verifica puntuale e coerente delle risultanze processuali, tenendo nel debito conto le contestazioni difensive sull’esistenza della fattispecie dedotta, all’esito della quale possa sussumere la fattispecie concreta in quella legale e valutare la plausibilità di un giudizio prognostico in merito alla probabile condanna dell’imputato. Con riferimento alla ricostruzione della materialità della fattispecie, l’ordinanza impugnata premette che la polizia giudiziaria, procedendo ad un controllo fiscale e di contrasto al lavoro nero presso lo studio della “Omissis.”, aveva rinvenuto all’interno dello studio le persone di Z., di P. G., socia della “Omissis.”, e di tre dipendenti con mansioni di segretarie e assistenti alla poltrona; sia Z., sia le tre assistenti indossavano un camice verde. Aggiunge che gli operanti, verificata l’assenza di iscrizione di Z. all’Ordine dei Medici e Chirurghi e Odontoiatri italiano, avevano sottoposto a sequestro sia lo studio, composto da sala d’attesa, ufficio del personale e tre studi attrezzati con poltrone odontoiatriche, sia l’attrezzatura rinvenuta. In considerazione dei principi giuridici sopra indicati, deve ritenersi corretta la conclusione dell’ordinanza impugnata in ordine alla sussistenza del fumus commissi delicti. Ed infatti, nel caso in esame, vi è sia l’indicazione di una ipotesi di reato in relazione alla quale sussiste la necessità di escludere la libera disponibilità della cosa pertinente a quel reato, sia una verifica puntuale e coerente delle risultanze processuali, condotta anche avendo riguardo alla probabile condanna dell’imputato, ma in una prospettiva che non deve corrispondere a quella richiesta dall’art. 273 cod. proc. pen. e che non implica giudizi sulla fondatezza dell’accusa. In questa ottica, l’atteggiamento, al momento del controllo, dell’indagato e delle tre assistenti, tutti vestiti con camice verde all’interno di uno studio perfettamente attrezzato, l’assenza di medici odontoiatri all’interno della struttura, la presenza di documentazione fiscale attestante una collaborazione di medici odontoiatri alle attività eseguite nella struttura estremamente modesta rispetto alle dimensioni della stessa, la qualità del ricorrente di socio accomandatario della società titolare dello studio, sono tutte circostanze che, allo stato, sulla base di criteri logico-giuridici di valutazione non manifestamente illogici, possono correttamente essere ritenute quali indizi da cui desumere l’abusivo esercizio di una professione, quella odontoiatrica, per il cui svolgimento è necessaria l’abilitazione statale. Le censure formulate con il secondo motivo contestano la configurabilità del reato di esercizio abusivo della professione di odontoiatra in quanto il ricorrente ha ottenuto in Portogallo l’abilitazione all’esercizio della stessa. Secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, condivisa dal Collegio, in tema di abusivo esercizio di una professione, lo svolgimento dell’attività di odontoiatra da parte dei cittadini dell’Unione europea in possesso del diploma rilasciato da uno Stato dell’Unione non configura gli estremi del reato previsto dall’art. 348 cod. pen. solo se l’interessato abbia presentato domanda al Ministero della Sanità e questo, dopo aver accertato la regolarità dell’istanza e della relativa documentazione, abbia trasmesso la stessa all’ordine professionale competente per l’iscrizione. Il Tribunale, in proposito, rappresenta innanzitutto che la previsione di cui all’art. 10 d.lgs. n. 206 del 2007 vieta al prestatore di opera proveniente da altro Stato membro di esercitare qualunque attività professionale senza aver previamente informato con dichiarazione scritta l’autorità competente, «salvo i casi di urgenza». Aggiunge, poi, che la disciplina in esame legittima prestazioni temporanee od occasionali, come tali non “includibili” in quelle coerenti con le capacità operative delle strutture sequestrate, che l’indagato non ha prodotto neppure la dichiarazione scritta di cui all’art. 10 cit. e che l’abilitazione in Portogallo è risalente e non autorizza di per sé ad esercitare la professione in Italia, in quanto a tal fine è necessario il controllo di requisiti minimi di preparazione. In forza degli elementi indicati nell’ordinanza impugnata, in particolare l’assenza della dichiarazione scritta all’autorità competente prevista dall’art. 10 d.lgs. n. 206 del 2007, e la strutturazione dello studio, predisposto per operare in termini di costante ordinarietà, deve ritenersi corretta l’applicazione dei principi giurisprudenziali consolidati sopra riportati. La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese.