Cassazione Penale Sentenza n. 15178/18 – Responsabilità medica –. E’ principio indiscusso, nella giurisprudenza di legittimità, quello in base al quale, in tema di colpa professionale medica, l’instaurazione della relazione terapeutica tra medico e paziente è fonte della posizione di garanzia del primo nei confronti del secondo, con conseguente assunzione dell’obbligo di tutela della vita e della salute della persona. Pertanto la Corte con riferimento al caso di specie ha rilevato che la Corte territoriale ha correttamente affermato, in modo conforme a quanto ritenuto dal primo giudice, che l’omessa, doverosa esplorazione della causa cardiologica del malessere, imposta dalle leggi di copertura scientifica, non ha consentito di approfondire la natura della canalopatia presente nella paziente e di approntare gli adeguati presidi, come l’installazione di un defibrillatore sottocutaneo, che avrebbero salvato la vita alla donna.
FATTO E DIRITTO: La Corte d’appello di Napoli, con sentenza emessa in data 3 novembre 2016, in riforma della pronuncia resa dal Tribunale di Napoli, dichiarava non doversi procedere nei confronti di T. A., medico specialista in neurologia, in ordine al reato contestatogli di omicidio colposo in danno di V. S., perché estinto per intervenuta prescrizione. Confermava la condanna al risarcimento del danno resa dal primo giudice in favore delle parti civili costituite e la condanna al pagamento di una provvisionale, quantificata in euro 70 mila dal primo giudice Era contestato all’imputato di avere cagionato la morte di V. S., deceduta a seguito di un episodio di sincope, dovuta ad una cardiopatia aritmogena maligna. Si individuavano a carico del sanitario profili di responsabilità riconducibili a negligenza, imprudenza e imperizia, nonché, alla violazione dei protocolli medici e delle linee guida che indicavano, all’epoca dei fatti, il corretto percorso diagnostico terapeutico da intraprendersi in relazione alla cura dei pazienti interessati da episodi di sincope. Il ricorrente, secondo la contestazione elevata a suo carico, condivisa dai giudici di merito, preso in esame il caso della V., che era stata colta da tre episodi sincopali, avvenuti a breve distanza di tempo, avrebbe omesso di prescrivere l’effettuazione dei necessari esami dì base, che avrebbero permesso di addivenire ad una corretta diagnosi della patologia sofferta dalla giovane. In particolare, si addebitava al ricorrente di non avere prescritto, come primo step di indagine, un elettrocardiograma standard a 12 derivazioni. La mancanza di tale accertamento avrebbe avuto quale conseguenza, la determinazione di un’errata diagnosi di sincope neuromediata vasovagale, la quale risultava fuorviante, impedendo la instaurazione di una terapia idonea a scongiurare successivi episodi di perdita di coscienza. Tali episodi sincopali si ripetevano dopo la visita in altre due occasioni, l’ultima della quali aveva un esito letale. La difesa evidenziava che il T. non era medico curante della paziente, ma era intervenuto nella vicenda quale specialista d’organo, che ebbe a visitare la giovane in una sola occasione, in data 16/10/07. Successivamente, non ebbe mai più modo di rivedere la paziente. All’esito del controllo specialistico, effettuato con l’osservazione encefalografica, escluse il sospetto diagnostico per il quale la paziente si era a lui rivolta (epilessia), consigliando la esecuzione di un Tilt Test per avere conferma dell’origine vagale delle manifestazioni di perdita di coscienza. In sede di appello, furono proposte una serie di argomentazioni volte a scagionare il medico dalle accuse elevate nei suoi confronti, alle quali la Corte territoriale non avrebbe fornito puntuale risposta. Le deduzioni formulate nel precedente grado di appello riguardavano i seguenti aspetti: la paziente V. era seguita da un medico curante che aveva prescritto un elettroencefalogramma per sospetta epilessia. Pertanto, il ricorrente non era titolare dell’indirizzo diagnostico e, dopo la visita specialista, la paziente sarebbe dovuta ritornare dal medico curante; il T. non ebbe a partecipare alle fasi successive dell’iter seguito dalla paziente. Invero, costei si rivolse alla Unità di studio delle sincopi dell’Ospedale Monaldi, centro cardiologico di eccellenza, con la impegnativa del medico curante e la prenotazione del C.U.P.; il ricorrente nel dare indicazione alla paziente di effettuare il Tilt Test presso una clinica dove operava un medico di propria fiducia, uniformò la propria condotta alle linee guida vigenti, essendo, il suddetto Test, un esame di primo livello se eseguito in conformità ai protocolli; in ogni caso, il Prof. T., nel dare indicazione alla esecuzione del Tilt Test, versava nel convincimento che esso venisse eseguito previa osservazione con elettrocardiogramma basale o a 12 derivazioni. La sentenza impugnata non offrirebbe alcuna motivazione in ordine alle ragioni per le quali lo specialista avrebbe assunto la funzione di garanzia in luogo del medico curante. Sul punto, la Corte di appello aveva osservato che l’ipotesi di epilessia espressa dal medico curante postulava un accertamento non di sua competenza, all’esito del quale andava “poi svolta l’indagine a largo spettro omessa dall’imputato”. La Corte territoriale, tuttavia, avrebbe trascurato di indicare le ragioni per le quali l’ampliamento della indagine dovesse essere disposto dal T., non tenendo conto delle diverse osservazioni formulate sul punto dal C.T. del P.M., prof. D. P. I motivi di ricorso proposti dalla difesa del ricorrente sono infondati, pertanto, il ricorso deve essere rigettato. La Corte di appello, nel dichiarare non doversi procedere nei confronti dell’imputato per estinzione del reato per intervenuta prescrizione, ha confermato la sentenza del Tribunale in punto di statuizioni civili. Quanto alla ricostruzione in fatto, ripercorrendo dettagliatamente la vicenda sulla base delle dichiarazioni della madre della persona offesa, ha evidenziato che la giovane V. S. era stata colpita da alcuni episodi sincopali caratterizzati dalla perdita di conoscenza, con rilascio delle urine. La giovane, al cospetto di tali sintomi preoccupanti, si rivolse al medico di base che, dopo averle prescritto un elettroencefalogramma e le analisi del sangue di rito, le consigliò di effettuare una visita neurologica. La giovane e sua madre, dopo avere raccolto informazioni presso colleghi di lavoro e d’università, essendo ambedue introdotte negli ambienti medici, decisero di rivolgersi al prof. T., avendo ricevuto ampie assicurazioni sulla bravura e l’indiscussa competenza nel campo neurologico del ricorrente. Nel corso del consulto, l’imputato praticò un ulteriore esame elettro encefalografico ed effettuò la visita, dopo avere raccolto la descrizione dei sintomi e delle modalità delle crisi subite dalla paziente. All’esito, escludendo patologie neurologiche di rilievo, rimarcate dalla espressione “signora sua figlia è sana come un pesce” ed affermando che gli episodi di perdita di coscienza non comportavano rischi per la ragazza, ipotizzò che si potesse trattare di crisi vagali, ponendo una diagnosi dì “crisi sincopali a genesi vagale”. In ragione di ciò, prescrisse una terapia di supporto ed anche l’effettuazione di un Tilt test che egli consigliò di praticare presso un professionista di sua fiducia. La V. preferì effettuare il Tilt test presso l’Ospedale Monaldi di Napoli, ritenendo tale centro maggiormente all’avanguardia in questo settore. Il test, la cui efficacia è stata messa fortemente in discussione dagli espertii esaminati in dibattimento, escluse patologie neurologiche di rilievo, inducendo la vittima e sua madre a ritenere confermata la diagnosi benigna del neurologo. In ragione della fiducia riposta nelle parole del Tessitore, la giovane si determinò a non approfondire ulteriormente le cause poste a base dei suoi svenimenti e continuò le sue normali attività. Fu così raggiunta da altri attacchi di perdita di coscienza, che ne determinarono la morte il 19 dicembre 2007. Seguendo un percorso argomentativo analogo a quello seguito dal giudice di primo grado, la Corte territoriale è giunta a ribadire, sia pure ai soli effetti civili, la responsabilità del T. in ordine ai fatti in contestazione, mettendo in rilievo: il particolare affidamento riposto dalla giovane nella diagnosi e nelle indicazioni ricevute dal neurologo; la negligenza dimostrata dai T. nella trattazione del caso, avendo egli prescritto di effettuare un accetamento che risultò fuorviante ai fini della individuazione dell’esatta causa della patologia della V.; l’omessa, doverosa esplorazione, da parte del sanitario, della possibile origine cardiologica dei preoccupanti svenimenti della persona offesa; l’errore diagnostico. Occorre rilevare come la Corte territoriale ed il giudice di primo grado, nella disamina dei fatti, abbiano offerto una compiuta risposta alle doglianze difensive, individuando in modo conforme alle norme che sovrintendono alla disciplina del caso in esame ed ai principi stabiliti in sede di legittimità, i profili di responsabilità nei quali è incorso il T., fondanti la condanna al risarcimento. In particolare, con riferimento a tale aspetto, il giudice di primo grado e la Corte territoriale, hanno messo in rilievo l’esistenza di una posizione di garanzia, in capo al T., desumendola dall’avvenuta instaurazione del rapporto terapeutico, nell’ambito del quale, peraltro, la persona offesa e sua madre avevano riposto particolare fiducia, confidando nelle doti professionali del sanitario, ritenuto nell’ambiente medico e scientifico, un esperto nel campo della neurologia. E’ principio indiscusso, nella giurisprudenza di legittimità, quello in base al quale, in tema di colpa professionale medica, l’instaurazione della relazione terapeutica tra medico e paziente è fonte della posizione di garanzia del primo nei confronti del secondo, con conseguente assunzione dell’obbligo di tutela della vita e della salute della persona. Gli sviluppi fattuali susseguitisi alla instaurazione di tale relazione, non sono suscettibili di escludere la responsabilità assunta dal sanitario nel rapporto con il paziente. Nella sostanza, la funzione di garanzia non può considerarsi rescissa per effetto della circostanza che la paziente non ritornò più dal T. o, per effetto della sua decisione di praticare il Tilt test presso una struttura diversa da quella indicata dal ricorrente. La paziente, benché avesse deciso di effettuare l’ulteriore accertamento presso l’Ospedale Monaldi, aveva ottemperato precisamente alle indicazioni dello specialista, confidando nella esattezza della sua diagnosi. Pertanto, non è corretto affermare, come si dice nel ricorso, che il T. fu emarginato dalle scelte diagnostiche da effettuarsi. Sul punto, la Corte territoriale, ha correttamente osservato, sulla base delle prove raccolte, che il T., all’esito della visita specialistica, non palesò la necessità di alcun successivo consulto. Quanto all’esito del tilt test, avendo la giovane avuto contezza del buon esito dell’accertamento, ritenne logicamente confermata la diagnosi dello specialista, che l’aveva rassicurata sulla sua natura benevola (così pag. 17 della sentenza impugnata). La sentenza impugnata esprime argomentazioni del tutto logiche in ordine ai profili di responsabilità ravvisati a carico del ricorrente, mettendo in rilievo, in più punti della motivazione, l’erroneo approccio diagnostico del sanitario, che limitò la propria indagine esclusivamente all’ambito neurologico, escludendo, a priori, la natura cardiologica delle perdite di coscienza della giovane. Sul punto, la Corte territoriale, ha correttamente osservato, sulla base delle prove raccolte, che il T., all’esito della visita specialistica, non palesò la necessità di alcun successivo consulto. Quanto all’esito del tilt test, avendo la giovane avuto contezza del buon esito dell’accertamento, ritenne logicamente confermata la diagnosi dello specialista, che l’aveva rassicurata sulla sua natura benevola (così pag. 17 della sentenza impugnata). La sentenza impugnata esprime argomentazioni del tutto logiche in ordine ai profili di responsabilità ravvisati a carico del ricorrente, mettendo in rilievo, in più punti della motivazione, l’erroneo approccio diagnostico del sanitario, che limitò la propria indagine esclusivamente all’ambito neurologico, escludendo, a priori, la natura cardiologica delle perdite di coscienza della giovane. La competenza di tale approfondimento, si afferma in sentenza, doveva intendersi radicata presso il T., che non poteva limitare il proprio consulto ad un unico profilo, omettendo qualunque previsione e successiva indicazione di approfondimento, in ordine alla possibile, alternativa genesi cardiaca delle crisi di perdita di coscienza. Il motivo per il quale tale competenza spettava allo specialista, coerentemente con quanto risulta dalla disamina dei fatti, viene individuata in sentenza, nella circostanza che il medico di base avanzò una mera ipotesi di epilessia, indirizzando la giovane verso un esperto che doveva vagliare le effettive cause degli episodi sincopali. La diagnosi posta dal professionista, che si era pronunciato unidirezionalmente per una genesi vagale delle sincopi, determinò il successivo sviluppo degli eventi, con esito infausto per la donna. L’affermazione secondo la quale la Corte territoriale non avrebbe argomentato sulla inosservanza delle Linee guida, non può ritenersi fondata. Dall’esame della motivazione, risulta che la Corte territoriale ha effettuato una ricostruzione approfondita e chiara detta vicenda, correttamente valutando la rilevanza causale della condotta omissiva contestata all’imputato con richiamo al quadro teorico della c.d. causalità della colpa, rispetto alla quale vale il principio per cui “il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, che a sua volta deve essere fondato, oltre che su un ragionamento di deduzione logica basato sulle generalizzazioni scientifiche, anche su un giudizio di tipo induttivo elaborato sull’analisi della caratterizzazione del fatto storico e sulle particolarità del caso concreto”. Calando nella realtà del caso in esame, i suddetti principi, la Corte territoriale ha correttamente affermato, in modo conforme a quanto ritenuto dal primo giudice, che l’omessa, doverosa esplorazione della causa cardiologica del malessere, imposta dalle leggi di copertura scientifica, non ha consentito di approfondire la natura della canalopatia presente nella paziente e di approntare gli adeguati presidi, come l’installazione di un defibrillatore sottocutaneo, che avrebbero salvato la vita alla donna.