Cassazione Penale Sentenza n. 24384/2018 – Responsabilità medica – Il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di elevata probabilità logica, che, a sua volta, deve essere fondato, oltre che su un ragionamento deduttivo basato sulle generalizzazioni scientifiche, anche su un giudizio di tipo induttivo circa il ruolo salvifico della condotta omessa, elaborato sull’analisi della caratterizzazione del fatto storico e focalizzato sulle particolarità del caso concreto.
FATTO E DIRITTO: In data 13 marzo 2017, la Corte d’appello di Roma ha confermato la sentenza con la quale L. M., il 21 gennaio 2016, era stato dichiarato colpevole dal Tribunale di Roma in ordine al reato a lui ascritto ex art. 589 cod.pen. (omicidio colposo in danno di R. C., deceduta presso l’ospedale (Omissis) di Roma il 2 dicembre 2010). Per meglio comprendere i termini del giudizio, giova precisare che la C. era stata sottoposta, il 18 novembre 2010, presso la casa di cura (Omissis), a un intervento chirurgico di plastica di laparatocele e revisione della cicatrice in seguito a pregressa isterectomia ombelico-pubica, intervento cui aveva preso parte il dott. M.; e che dall’addebito a lui inizialmente mosso in cooperazione colposa con altri medici, con riferimento a detto intervento chirurgico – e segnatamente alla circostanza, non confermata nel giudizio, che in tale occasione sarebbe stata procurata alla paziente una perforazione intestinale -, il M. era stato prosciolto già in primo grado. Tale decisione é divenuta definitiva. Residuava in appello l’addebito mosso al M. in relazione al decorso post- operatorio, riferibile agli accadimenti che di seguito si riassumono. Il giorno successivo all’operazione, ossia il 19 novembre 2010, la C. viene dimessa a domicilio. Successivamente compaiono dolori addominali, seguiti da vomito, meteorismo intestinale e difficoltà di evacuazione e all’espulsione dell’aria, che inducono la donna a rivolgersi nuovamente ai medici. Il 22 novembre il chirurgo plastico dott. S. E., dopo avere visitato a domicilio la C., informa il dott. M., chirurgo addominale che aveva partecipato all’intervento, della sintomatologia dolorosa, che secondo il medesimo rende necessaria la somministrazione di toradol. Il dott. M., il pomeriggio del giorno successivo (23 novembre), sottopone a visita la C.. All’esito della visita, necessariamente non approfondita perché condizionata dalla presenza della medicazione, il sanitario prescrive clisteri evacuativi, ritenendo che i problemi siano riconducibili al decorso post-operatorio. La situazione però non migliora e la C., il 26 novembre, si rivolge al dott. E., invocando un intervento risolutore. Segue un nuovo ricovero in clinica e quindi, dopo una radiografia diretta dell’addome e una TAC del distretto pelvico-addominale, si giunge alla diagnosi di occlusione intestinale; il M. si determina ad accompagnare quindi la C. all’ospedale (Omissis), ove viene diagnosticata addirittura una perforazione intestinale. Qui viene eseguito un intervento chirurgico urgente, cui partecipa il dott. M., ed inizialmente il decorso post-operatorio sembra non allarmante; ma dal 29 novembre la situazione si aggrava: subentra uno stato febbrile, accompagnato da esiti alterati negli esami di laboratorio; si instaura quindi una sepsi che diviene sempre più severa, coinvolgendo progressivamente organi vitali. Il quadro clinico é via via sempre più drammatico finché, nella serata del 2 dicembre, poche decine di minuti dopo che il chirurgo chiamato a consulto dà indicazioni per una laparatomia d’urgenza, interviene il decesso della donna. La Corte di merito ha ritenuto confermate le accuse al M. sotto il profilo della sottovalutazione diagnostica e dell’omessa prescrizione dei necessari approfondimenti in occasione della visita del 23 novembre: l’imputato, secondo la Corte distrettuale, ben poteva pervenire a una diagnosi differenziale che riferisse, quanto meno in via ipotetica, la sintomatologia dolorosa della donna non già al normale decorso post-operatorio, ma all’insorgere dell’occlusione intestinale, causa scatenante della successiva perforazione intestinale e della conseguente sepsi che condusse poi la C. all’exitus. Tale profilo di colpa viene qualificato dalla Corte territoriale come imprudenza (non come negligenza, né tanto meno come imperizia). Nella parte finale della motivazione viene poi esclusa la rilevanza, nel caso di specie, dell’osservanza delle linee-guida (o delle buone pratiche) che, secondo la difesa, non sarebbero state disattese dal M. nella sua condotta; e viene altresì esclusa l’applicabilità al caso di specie della lex mitior, costituita dall’art. 3 della legge Balduzzi (n. 189/2002) ed eventualmente dall’art. 590-sexies cod.pen. introdotto dalla legge n. 24/2017 (legge Gelli-Bianco). Il ricorrente ribadisce quindi che l’operato del dott. M. non si discostò dai protocolli sanitari previsti in un quadro simile; e sul punto la risposta della Corte di merito, oltreché elusiva delle questioni poste con l’appello, é del tutto illogica nell’affermare che le linee-guida e le buone pratiche non c’entrino nulla con il caso di specie. La Corte di merito ha energicamente affermato, nell’impugnata sentenza, che era preciso dovere del sanitario pervenire a una diagnosi e considerare una diagnosi differenziale, e la violazione di tale dovere ha costituito un’abdicazione alla sua funzione di medico, e ciò non avrebbe nulla a che vedere con le linee guida o con le buone prassi, ma solo con la logica. Nel lungo percorso argomentativo della sentenza d’appello non é dato apprezzare alcuno specifico riferimento ad elementi probatori o valutativi che consentano di escludere (o, per converso, di affermare) l’adesione dell’operato dell’odierno ricorrente alle best practices. Tale passaggio era tuttavia ineludibile, perché, come noto, l’art. 3, comma 1, della legge Balduzzi parlava non solo di “linee guida”, ma anche di “buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica”, disponendo che l’esercente la professione sanitaria che si atteneva ad esse non rispondeva penalmente per colpa lieve; l’art. 590-sexies, comma secondo, cod.pen. (introdotto dall’art. 6 della legge Gelli-Bianco) stabilisce dal canto suo che, quando l’evento lesivo o mortale si é verificato per imperizia, la punibilità é esclusa qualora siano rispettate le raccomandazioni contenute nelle linee guida approvate ai sensi di legge, o, in mancanza, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le suddette raccomandazioni siano adeguate alle specificità del caso concreto. Altro aspetto di non marginale rilievo riguarda il fatto che la Corte territoriale ha inquadrato la condotta del dott. (Omissis) come imprudente, piuttosto che negligente o imperita). In termini affatto generali e necessariamente imprecisi, si tende ad ascrivere alla categoria dell’imperizia il comportamento del soggetto inosservante delle regole cautelari perché “inesperto”, soprattutto sul piano esecutivo; alla categoria della negligenza il comportamento del soggetto inosservante per non avere fatto ciò che era doveroso fare; alla categoria dell’imprudenza il comportamento del soggetto inosservante per avere fatto ciò che era doveroso non fare. La giurisprudenza tradizionalmente valuta il concetto di “imperizia” nei reati colposi – addebitati a soggetti che rivestono determinate qualifiche dirigenziali e che prestano corrispondenti mansioni di elevata delicatezza, specializzazione e responsabilità – “in rapporto alla qualifica e all’attività svolta in concreto, le quali esigono l’osservanza delle regole e delle precauzioni doverose da parte della media dei soggetti rivestenti identica qualifica e svolgenti identiche mansioni. Nel tempo, il citato indirizzo cedette il posto ad un altro e più rigoroso orientamento, in cui si escludeva che lo statuto della colpa professionale del sanitario in ambito penalistico potesse articolarsi in modo differenziato rispetto alle generali previsioni riguardanti la colpa penale. Si legge ad esempio, nella sentenza Lazzeri del 1991 (Sez 4, n. 4028 del 22/02/1991, Lazzeri, Rv. 187774), che la colpa professionale del sanitario “deve essere valutata con larghezza e comprensione per la peculiarità dell’esercizio dell’arte medica e per la difficoltà dei casi particolari, ma pur sempre nell’ambito dei criteri dettati per l’individuazione della colpa medesima dall’art. 43 del cod.pen.. Tale accertamento non può essere effettuato in base al disposto dell’art. 2236 del codice civile, secondo cui il prestatore d’opera é esonerato dall’obbligo del risarcimento dei danni, quando la prestazione implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, tranne che nell’ipotesi di commissione del fatto con dolo o colpa grave. Tuttavia, più di recente, la Corte regolatrice ha riconosciuto che il principio civilistico di cui all’art. 2236 cod. civ. che assegna rilevanza soltanto alla colpa grave “può trovare applicazione in ambito penalistico come regola di esperienza cui attenersi nel valutare l’addebito di imperizia, qualora il caso concreto imponga la soluzione di problemi di speciale difficoltà ovvero qualora si versi in una situazione di emergenza, in quanto la colpa del terapeuta deve essere parametrata alla difficoltà tecnico-scientifica dell’intervento richiesto ed al contesto in cui esso si é svolto. Con l’entrata in vigore della legge Gelli-Bianco, il parametro dell’imperizia ha assunto, come si é visto, maggior rilievo. Dopo una travagliata vicenda interpretativa, la questione della corretta interpretazione da dare al citato art. 6 della legge 24/2017 (introduttivo dell’art. 590-sexies cod.pen.) é stata devoluta alle Sezioni Unite, le quali, con sentenza resa il 21 dicembre scorso (Sez. U, n. 8770 del 21/12/2017, ric. Mariotti), hanno affermato il seguente principio di diritto: “L’esercente la professione sanitaria risponde, a titolo di colpa, per morte o lesioni personali derivanti dall’esercizio di attività medico-chirurgica: a) se l’evento si é verificato per colpa (anche “lieve”) da negligenza o imprudenza; b) se l’evento si é verificato per colpa (anche “lieve’) da imperizia quando il caso concreto non é regolato dalle raccomandazioni delle linee-guida o dalle buone pratiche clinico-assistenziali; c) se l’evento si é verificato per colpa (anche “lieve’) da imperizia nella individuazione e nella scelta di linee-guida o di buone pratiche che non risultino adeguate alla specificità del caso concreto; d) se l’evento si é verificato per colpa “grave” da imperizia nell’esecuzione di raccomandazioni, di linee-guida o buone pratiche clinico-assistenziali adeguate, tenendo conto del grado di rischio da gestire e delle specifiche difficoltà tecniche dell’atto medico”. Sebbene la Corte di merito abbia qualificato il comportamento dell’odierno ricorrente come imprudente, deve evidenziarsi che, secondo la giurisprudenza di legittimità, l’imprudenza consiste nella realizzazione di un’attività positiva che non si accompagni nelle speciali circostanze del caso a quelle cautele che l’ordinaria esperienza suggerisce di impiegare a tutela dell’incolumità e degli interessi propri ed altrui; e nella specie la condotta tenuta dal dott. M., più che un’attività positiva, sarebbe consistita – secondo la stessa Corte di merito – in un’omessa o incompleta diagnosi, accompagnata da una sottovalutazione della sintomatologia che la paziente presentava, dall’omessa prescrizione di accertamenti strumentali a fini diagnostici e dalla prescrizione di un presidio terapeutico generico (clistere). Ciò che sembra semmai ascrivibile in parte al profilo della negligenza, in parte, e sotto altro profilo, a quello dell’imperizia. A quest’ultimo proposito, é errato escludere che nella specie potesse parlarsi di imperizia sol perché il dott. M. é un clinico di sicuro valore, come dimostrato anche nel successivo comportamento in sala operatoria in occasione dell’intervento d’urgenza del 26 novembre: la nozione di imperizia non va, infatti, rivolta al soggetto nella sua complessiva attività e alle sue capacità professionali, ma al singolo atto qualificato come colposo e che viene a lui addebitato. La Corte di merito, rispetto ai suddetti profili, affronta unicamente il tema del fattore-tempo; e lo fa non già sulla base di un corretto e adeguato esame delle risultanze probatorie sul punto (limitandosi ad affermare che non é stato comprovato quale fosse il momento in cui insorse la perforazione intestinale, e che con ogni probabilità essa non era intervenuta fino a metà giornata del 24 novembre), ma sulla base di una serie di considerazioni che tendono bensì a divaricare il lasso di tempo – in realtà del tutto incerto – nel quale il dott. M. avrebbe potuto fare qualcosa, ma senza chiarire in modo univoco se il comportamento che ci si sarebbe dovuti attendere da lui fosse tale da rendere oggettivamente, tempestivamente e utilmente praticabile l’adozione dei necessari e conseguenti presidi diagnostico-terapeutici. A fronte del già visto approccio probabilistico seguito al riguardo dal collegio peritale, merita di essere richiamato l’indirizzo della Corte di legittimità in base al quale il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di elevata probabilità logica, che, a sua volta, deve essere fondato, oltre che su un ragionamento deduttivo basato sulle generalizzazioni scientifiche, anche su un giudizio di tipo induttivo circa il ruolo salvifico della condotta omessa, elaborato sull’analisi della caratterizzazione del fatto storico e focalizzato sulle particolarità del caso concreto. La sentenza impugnata va perciò annullata con rinvio ad altra Sezione della Corte d’appello di Roma, alla quale va demandata altresì la regolamentazione delle spese tra le parti di questo giudizio di legittimità.