Cassazione Penale Sentenza n. 40923/18 – Colpa medica – Posizione di garanzia del medico

Cassazione Penale Sentenza n. 40923/18 – Colpa medica – Posizione di garanzia del medico – In caso di responsabilità professionale medica, per giurisprudenza consolidata, l’instaurazione della relazione terapeutica tra medico e paziente è fonte della posizione di garanzia che il primo assume nei confronti del secondo, e da cui deriva l’obbligo di attivarsi a tutela della salute e della vita. In linea di massima il medico assume nei confronti del paziente la propria peculiare posizione di garanzia con l’instaurazione della relazione terapeutica. Cionondimeno, questa Corte ha avuto modo di chiarire che, ai fini dell’affermazione di responsabilità penale, in relazione al decesso di un paziente, dei medici operanti – non in posizione apicale – all’interno di una struttura sanitaria complessa, a titolo di colpa omissiva, è priva di rilievo la mera instaurazione del c.d. rapporto terapeutico, occorrendo accertare la concreta organizzazione della struttura, con particolare riguardo ai ruoli, alle sfere di competenza ed ai poteri-doveri dei medici coinvolti nella specifica vicenda. Con riferimento al caso di specie è stato condannato per omicidio colposo un medico che aveva sospeso una terapia salvavita. In particolare  veniva contestato al dott. I. un profilo di colpa generica omissiva consistente nell’avere omesso “di adottare tutte le misure di profilassi atte a prevenire la trombosi venosa profonda che ha determinato l’evoluzione verso la fatale embolia polmonare” incorsa al Di R., il quale versava in una situazione di rischio trombotico alto-altissimo.

FATTO E DIRITTO: La Corte d’Appello di Catania, con sentenza del 6 aprile 2017, in parziale riforma della sentenza del 27 gennaio 2015 del Giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale di Ragusa, revocava la condanna del responsabile civile Azienda Sanitaria Provinciale n. 7 di Ragusa al risarcimento del danno ed al pagamento della provvisionale, confermando nel resto la condanna dell’imputato I. P. alla pena, concesse le circostanze attenuanti generiche, di anni uno di reclusione, ed al risarcimento del danno ed al pagamento di una provvisionale in favore delle costituite parti civili, per il delitto p. e p. dall’art. 589 cod.pen., perché, in cooperazione con altri, nella qualità di sanitario in servizio presso il reparto di chirurgia generale dell’ospedale Maggiore di Modica, cagionava per colpa la morte del paziente Di R. N., deceduto per embolia • polmonare massiva, conseguente a trombosi venosa profonda dell’arto inferiore destro, causata dall’omessa profilassi antitrombotica, nonostante il rischio di sviluppare una trombosi da parte del paziente fosse alto-altissimo. 2. La vicenda clinica del Di R. N. veniva ricostruita pacificamente dai giudici di merito. Egli, già sottopostosi nel mese di marzo 2012 ad intervento chirurgico al cuore presso l’ospedale di Bergamo, veniva ricoverato in data 10 aprile 2012 presso il reparto di cardiologia dell’ospedale Maggiore di Modica con diagnosi di accettazione di sincope in cardiomiopatia ipertrofica. Il 20 aprile 2012 veniva disposto il trasferimento presso il reparto di medicina del medesimo ospedale, dove, esclusa l’origine cardiopatica della sincope, veniva evidenziata un’ulcera duodenale stenosante in fase attiva. Richiesta consulenza chirurgica, il paziente veniva trasferito in data 27 aprile presso il reparto di chirurgia generale dello stesso nosocomio, ove giungeva con diagnosi di stenosi pilorica in paziente con cardiomiopatia dilatativa ipertrofica non ostruttiva, con condizioni patologiche associate a trombofilia. Andava quindi incontro ad episodio settico in data 29 aprile, trattato con antibiotici. Veniva poi sottoposto ad intervento di gastroresezione con ricostruzione secondo Billroth II ed anastomosi al piede dell’ansa secondo Braun in data 4 maggio 2012, intervento eseguito, fra gli altri, dal dott. I., in qualità di aiuto. Nel pomeriggio del 6 maggio, il Di R. accusava algie all’arto inferiore destro. Nella notte del 7 maggio veniva praticata terapia antalgica dall’infermiere di turno, su indicazione del dott. I., medico reperibile. Il malessere tuttavia tornava, veniva diagnosticata da altro sanitario una flebite e, dopo un colloquio con il primario, veniva disposto il trasferimento presso l’ospedale di Vittoria per una visita specialistica nel reparto attrezzato per detta patologia. Sempre in data 7 maggio, una volta rientrato a Modica, il paziente veniva sistemato su una barella per oltre cinque ore, fino alle 17.00 circa, quando veniva spostato su un letto mobile. Alle 19.30 era trasportato presso il servizio TAC e poco dopo decedeva, a causa di un’embolia polmonare, con diagnosi secondarie di trombosi embolica dell’arto inferiore destro e stenosi pilorica. Valorizzando le emergenze istruttorie, ed in particolare la perizia collegiale a firma dei dott. M. e B., disposta dal primo giudice, i giudici di merito ravvisavano una condotta censurabile in capo ai medici del reparto di chirurgia generale dell’ospedale Maggiore di Modica, per non avere attuato la corretta profilassi atta a prevenire la trombosi venosa profonda che determinava la fatale embolia polmonare. Il paziente Di R., infatti, versava in rischio di trombosi alto- altissimo, in quanto esposto ad un doppio ordine di fattori di rischio: quello legato al fatto che avrebbe dovuto essere sottoposto ad intervento di chirurgia maggiore (la resezione gastroduodenale), e quello legato ad ulteriori fattori specifici di rischio, vale a dire l’età superiore ai 40 anni, la presenza di miocardiopatia dilatativa con possibili turbe enriodinamiche intracardiache, il recente intervento chirurgico al cuore, l’allettamento da quattro settimane, la presenza di un catetere venoso centrale in femorale, l’episodio settico verificatosi il 29 aprile 2012. In detti casi, in letteratura e sulla base delle linee guida acquisite nel corso del giudizio (ossia quelle dell’ospedale San Giovanni Bosco di Torino, del policlinico San Matteo di Pavia e della Regione Toscana), si evidenziava la necessità di somministrazione di terapia antitrombotica mediante eparine a basso peso molecolare (fra cui la clivarina e la reviparina) in dosi di almeno 4200 UI, da iniziare almeno 12 ore prima dell’intervento e proseguire 12 ore dopo lo stesso ed ogni giorno successivo per almeno dieci giorni o per tutto il periodo di rischio.  I giudici accertavano che la profilassi antitrombotica era stata correttamente eseguita fino al momento del trasferimento del paziente in chirurgia. Al momento del ricovero presso il reparto di terapia intensiva coronarica, infatti, i sanitari indicavano in cartella la terapia di base programmata, disponendo la somministrazione di clivarina (1 flacone da 4200 UI), farmaco contenente quale principio attivo la reparina sodica con funzione antiaggregante, comunemente usato nella profilassi della TVP (trombosi venosa profonda). Durante la degenza in tale reparto, peraltro, per scongiurare il rischio emorragico (da bilanciare rispetto a quello trombotico), venivano eseguiti esami di laboratorio che permettevano di accertare valori di coagulazione e fibrinogeno nella norma. Sempre durante la degenza nel reparto di cardiologia, veniva rilevata una condizione anemica il 12 aprile, in ragione della quale veniva sospesa dal 13 al 15 aprile la somministrazione della clivarina e disposta quella di ferlixit (farmaco comunemente utilizzato per contrastare l’anemia). Dal 16 aprile, rientrati i valori nella media, veniva interrotto il ferlixit e ripresa la profilassi antitrombotica. Tale profilassi continuava anche successivamente al trasferimento presso il reparto di medicina, avvenuto in data 20 aprile, e veniva accompagnata da sistematico monitoraggio dei fattori di coagulazione. In data 27 aprile, infine, il paziente veniva trasferito presso il reparto di chirurgia, dove, inspiegabilmente, la terapia antitrombotica veniva interrotta. Dal diario infermieristico risultava che al paziente veniva somministrata clivarina in 1750 UI solamente nella notte fra il 4 ed il 5 maggio, successivamente rispetto all’effettuazione dell’intervento di resezione gastrica, e poi nuovamente fino al 7 maggio con dosaggio di 1750 UI al giorno sottocute. Alle ore 9.00 del 7 maggio, infine, il dott. Iemmolo disponeva somministrazione di clivarina in 4200 UI. Alle ore 19.30 circa il paziente decedeva. 3.2. I giudici di merito, pertanto, concludevano per l’inadeguatezza della profilassi eseguita dai medici del reparto di chirurgia in quanto iniziata tardivamente (ossia solamente dal giorno dell’intervento e successivamente allo stesso) e somministrata con un dosaggio insufficiente (1750 UI a fronte delle 4200 UI consigliate). Ritenevano, inoltre, conformemente a quanto affermato dai periti, che fosse da escludere un elevato rischio emorragico in capo al Di R., dovendosi invece ritenere assolutamente alto e preponderante quello trombotico. Ne conseguiva che l’omessa adozione della profilassi antitrombotica aveva esposto il Di R. a rischio tromboembolico prossimo all’80%. La corretta pratica medica imponeva infatti ai sanitari del reparto di chirurgia, certa la sussistenza di un elevatissimo fattore di rischio trombotico, di somministrare idonea terapia antitrombotica, essendo pressoché certo che, ove la stessa fosse stata eseguita, non si sarebbe sviluppata la TVP, causa a sua volta dell’embolia polmonare fatale. Quanto alla posizione specifica del dott. I., i giudici ritenevano che l’imputato, il quale aveva altresì preso parte all’intervento chirurgico del 4 maggio, avesse in cura il paziente già dal 27 aprile, data del trasferimento di quest’ultimo nel reparto di chirurgia. Egli era in servizio regolarmente nei giorni successivi al ricovero nel reparto, era presente al momento dell’intervento ed era di turno la sera precedente al decesso del Di R.. Né l’avere prescritto eparina in 4200 UI la mattina del 7 maggio, a distanza di ben tre giorni dall’intervento, poteva giovargli in alcun modo, trattandosi all’evidenza di intervento chiaramente tardivo. Nello specifico, la Corte d’Appello, acquisito il turno di servizio del mese di aprile 2012 ai sensi dell’art. 603 cod.proc.pen. all’udienza del 9 marzo 2017, accertava che lo I. risultava in servizio il 27 aprile, e che ad accordi presi proprio con l’imputato si riferiva l’annotazione in cartella clinica relativa al trasferimento del paziente da medicina a chirurgia. Ne risultava provata la posizione di garanzia e la colpa del prevenuto, dal momento che l’omissione contestata andava ascritta a tutti i sanitari che avevano avuto in carico il paziente, in quanto ciascuno di loro avrebbe avuto il potere di valutare la correttezza del dosaggio dei farmaci. Nel caso odierno viene contestato al dott. I. un profilo di colpa generica omissiva consistente nell’avere omesso “di adottare tutte le misure di profilassi atte a prevenire la trombosi venosa profonda che ha determinato l’evoluzione verso la fatale embolia polmonare” incorsa al Di R., il quale versava in una situazione di rischio trombotico alto- altissimo. Tanto risulterebbe già di per sé sufficiente per ritenere non violato il principio di correlazione fra accusa e sentenza, dal momento che la terapia antitrombotica necessaria (e colposamente omessa) avrebbe dovuto essere praticata anche e soprattutto in vista dell’intervento chirurgico di gastroresezione eseguito in data 4 maggio 2012, e segnatamente nel corso di tutto il periodo perioperatorio. Cionondimeno, la contestazione, che contiene la specifica descrizione degli addebiti mossi allo I. ed agli altri coimputati (che hanno prescelto il rito dibattimentale), include espressamente anche l’intervento del 4 maggio, inteso però non già quale operazione nel corso della quale si sia verificata un’ulteriore omissione, di tipo chirurgico, da parte dell’imputato – come sostiene il ricorrente parlando di “omissione in sala operatoria”, da contrapporsi a quella “in reparto”, l’unica che sarebbe stata contestata – ma bensì come semplice momento della relazione terapeutica intercorsa fra i sanitari del reparto di chirurgia generale e la persona offesa nel quale la terapia antitrombotica avrebbe dovuto essere praticata ed è stata invece omessa.È dunque evidente che nessun rapporto di eterogeneità fra la condotta contestata e quella ritenuta in sentenza può essere considerato sussistente, essendo l’intervento chirurgico previsto nella contestazione quale momento in cui la posizione di garanzia gravante sullo I. avrebbe dovuto imporgli di praticare la terapia antitrombotica. L’omissione della terapia nel corso dell’intervento è dunque condotta ricompresa, in rapporto di continenza (Sez. 3, n. 15820 del 25 novembre 2014, Picariello, Rv. 263405; Sez. 2, n. 12207 del 17 marzo 2015, Abruzzese, Rv. 263017), nella più generale omissione di ogni misura antitrombotica, e ne rappresenta solamente una specificazione, vale a dire una delle possibili diverse fonti della posizione di garanzia, rispetto alle quali l’imputato ha avuto ampiamente modo di difendersi, già a partire dalla formulazione stessa della contestazione, nella quale infatti trova espressa menzione l’insufficiente dosaggio di clivarina somministrato in data 4 maggio, in ogni caso troppo a ridosso dell’intervento chirurgico. In tema di responsabilità medica, ai fini dell’accertamento del nesso di causalità è necessario individuare tutti gli elementi concernenti la causa dell’evento, in quanto solo la conoscenza, sotto ogni profilo fattuale e scientifico, del momento iniziale e della successiva evoluzione della malattia consente l’analisi della condotta omissiva colposa addebitata al sanitario per effettuare il giudizio controfattuale e verificare se, ipotizzandosi come realizzata la condotta dovuta, l’evento lesivo sarebbe stato evitato al di là di ogni 4 ragionevole dubbio (Sez. 4, n. 43459 del 4 ottobre 2012, Albiero ed altri, Rv. 255008). Evidentemente, tale ragionamento controfattuale deve essere svolto dal giudice di merito in riferimento alla specifica attività (diagnostica, terapeutica, di vigilanza e salvaguardia dei parametri vitali del paziente o altro) che era specificamente richiesta al sanitario e che si assume idonea, se realizzata, a scongiurare l’evento lesivo, come in concreto verificatosi, con alto grado di credibilità razionale (Sez. 4, n. 30469 del 13 giugno 2014, P.G., P.C., in proc. Jann e altri, Rv. 262239). Tanto premesso, alcun dubbio può essere avanzato circa la sussistenza del nesso causale fra l’omissione contestata al dott. I. ed il successivo decesso della persona offesa Di R.. L’evento morte è stato determinato, come risulta dagli atti, da un’embolia polmonare massiva, conseguente ad una trombosi venosa profonda dell’arto inferiore destro. Tale trombosi, come correttamente argomentato dai giudici di merito, deve ritenersi, con alto grado di credibilità razionale, causata dalla cessazione della terapia antitrombotica una volta che il paziente era stato trasferito nel reparto di chirurgia generale per sottoporsi all’intervento di gastroresezione del 4 maggio. È stata la decisione di sospendere la somministrazione della clivarina – praticata senza quasi soluzione di continuità nel corso del ricovero presso i due reparti di cardiologia e di medicina del medesimo ospedale – ad avere determinato l’insorgenza della trombosi, non essendo revocabile in dubbio che il Di R. fosse paziente ad elevatissimo rischio trombotico, derivante da numerosi fattori, tutti conosciuti dai sanitari del reparto di chirurgia, che avevano dunque tutti gli strumenti per arginare tale rischio, mediante adeguata trombofilassi. Dal punto di vista controfattuale, dunque, risulta corretto affermare – come affermato dalla Corte distrettuale – che sia pressoché certo che, ove fosse stata eseguita idonea terapia antitrombotica, non si sarebbe sviluppata la trombosi venosa profonda, causa a sua volta dell’embolia polmonare e poi del decesso del paziente. Ciò a causa del fatto che i fattori di rischio trombotico sul Di R. – vale a dire il fatto che avrebbe dovuto essere sottoposto ad intervento di chirurgia maggiore (la resezione gastroduodenale), l’età superiore ai 40 anni, la presenza di miocardiopatia dilatativa con possibili turbe emodinamiche intracardiache, il recente intervento chirurgico al cuore, l’allettamento da quattro settimane, la presenza di un catetere venoso centrale in femorale, l’episodio settico verificatosi il 29 aprile 2012 – erano numerosi e che sommandosi provocavano un effetto moltiplicatore che avrebbe dovuto imporre ai sanitari del reparto di chirurgia di praticare un’adeguata terapia antitrombotica, unica idonea a scongiurare il rischio della formazione di trombi, dai quali poi, in maniera direttamente proporzionale ai fattori di rischio, è probabile che si verifichi, quale conseguenza, l’embolia polmonare. Evidente, quindi, risulta l’irrilevanza delle osservazioni del ricorrente secondo cui il rischio trombotico sarebbe stato ricostruito dalla Corte territoriale sulla base del solo dato rappresentato dai valori del fibrinogeno, derivando, come si è appena visto, da ben più numerosi ed ampi fattori. Ne consegue la totale e lampante inadeguatezza e tardività della terapia praticata. Né in alcun modo conferente può essere il riferimento alla somministrazione del 7 maggio, in quanto, se lo I. avesse correttamente eseguito la terapia antitrombotica in tutto il periodo precedente, il paziente non sarebbe deceduto, risultando pertanto – dal complesso delle omissioni contestate all’imputato – pienamente integrata la causalità della colpa. 7. Infondato è anche il motivo relativo alla ricostruzione della posizione di garanzia del dott. I..Affinché il nesso di causalità omissiva risulti pienamente integrato, è necessario, a norma dell’art. 40, cpv., cod.pen., che sul soggetto cui si imputa l’omissione gravi una specifica posizione di garanzia, la quale gli imponga il dovere di agire. Nei reati colposi omissivi impropri, infatti, l’accertamento della colpa non può prescindere dalla individuazione della posizione di garanzia, cioè della norma che impone al soggetto, cui si imputa la colpa, di tenere quel comportamento positivo la cui omissione ha determinato il verificarsi dell’evento (Sez. 4, n. 24030 del 27 febbraio 2004, P.M. in proc. Bodini ed altri, Rv. 228360). In caso di responsabilità professionale medica, per giurisprudenza consolidata, l’instaurazione della relazione terapeutica tra medico e paziente è fonte della posizione di garanzia che il primo assume nei confronti del secondo, e da cui deriva l’obbligo di attivarsi a tutela della salute e della vita (Sez. 4, n. 10819 del 4 marzo 2009, Ferlito, Rv. 243874; Sez. 4, n. 46586 del 28 ottobre 2004, Ardizzone, Rv. 230598). In linea di massima, dunque, il medico assume nei confronti del paziente la propria peculiare posizione di garanzia con l’instaurazione della relazione terapeutica (Sez. 4, n. 1846 del 7 gennaio 2016, P.G. in proc. Pala ed altro, Rv. 265581). Cionondimeno, questa Corte ha avuto modo di chiarire che, ai fini dell’affermazione di responsabilità penale, in relazione al decesso di un paziente, dei medici operanti – non in posizione apicale – all’interno di una struttura sanitaria complessa, a titolo di colpa omissiva, è priva di rilievo la mera instaurazione del c.d. rapporto terapeutico, occorrendo accertare la concreta organizzazione della struttura, con particolare riguardo ai ruoli, alle sfere di competenza ed ai poteri-doveri dei medici coinvolti nella specifica vicenda (Sez. 4, n. 1866 del 2 dicembre 2008, Toccafondi ed altri, Rv. 242017).In altre parole, laddove la struttura organizzativa sanitaria sia particolarmente complessa, sarà necessario un particolare accertamento da parte del giudice per pervenire a ritenere effettivamente instauratasi la relazione terapeutica, e dunque la posizione di garanzia del medico. 7.2. Tanto premesso, nel caso di specie la sentenza impugnata motiva diffusamente e senza alcuna aporia logica circa con la sussistenza di una specifica posizione di garanzia gravante in capo all’imputato, come ricavabile da diversi fattori. In primo luogo, infatti, non può certo trascurarsi la circostanza che nella cartella clinica venga fatto esplicito riferimento all’affidamento del paziente al dott. Iemmolo al momento del trasferimento nel reparto di chirurgia in data 27 aprile. In altre parole, laddove la struttura organizzativa sanitaria sia particolarmente complessa, sarà necessario un particolare accertamento da parte del giudice per pervenire a ritenere effettivamente instauratasi la relazione terapeutica, e dunque la posizione di garanzia del medico. Tanto premesso, nel caso di specie la sentenza impugnata motiva diffusamente e senza alcuna aporia logica circa con la sussistenza di una specifica posizione di garanzia gravante in capo all’imputato, come ricavabile da diversi fattori. In primo luogo, infatti, non può certo trascurarsi la circostanza che nella cartella clinica venga fatto esplicito riferimento all’affidamento del paziente al dott. I. al momento del trasferimento nel reparto di chirurgia in data 27 aprile. Le omissioni dell’imputato, peraltro, oltre a non potersi dire in nessun caso giustificate dalla presenza di un assai ridotto rischio emorragico, risultano anche connotate da rilevante gravità. Come sottolineato dalla Corte territoriale, infatti, risulta assai grave la sottovalutazione, operata dal dott. Iemmolo, del rischio trombotico in favore di quello emorragico, soprattutto alla luce dei risultati degli esami di laboratorio e della condotta tenuta in maniera continuativa e coerente dai sanitari degli altri reparti del medesimo ospedale, che avevano tutti praticato la corretta terapia sul Di R.

Autore: Redazione

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