Cassazione Penale Sentenza n. 8086/19 – Responsabilità medica

Cassazione Penale Sentenza n. 8086/19 – Responsabilità medica – Condannato  per omicidio colposo un  medico endocrinologo e diabetologo per aver prescritto alla propria paziente,  nel corso della dieta dimagrante a cui era sottoposta, il farmaco fendimetrazina nonostante il divieto di prescrizione e somministrazione dell’anzidetto farmaco introdotto dal D.M. del 24/01/2000 e, comunque, per aver violato le disposizioni contenute nel D.M. 18/09/1997 in punto di durata del trattamento farmacologico(prescrivibile per un periodo non superiore a tre mesi), per averlo prescritto pur conoscendo i rischi che lo stesso poteva comportare e per aver somministrato alla paziente, unitamente alla fendimetrazina, altre sostanze farmacologicamente attive senza considerare lo stato psico-fisico della paziente (che aveva perso circa 7 kg di peso al mese) ed omettendo di acquisire le informazioni amnestiche e di disporre accertamenti clinici strumentali per valutare l’opportunità del trattamento farmacologico prescritto. Sul medico, portatore di una posizione di garanzia rispetto al paziente che a lui si affida, grava un obbligo di adeguata gestione del rischio che, nel caso di specie, è stato del tutto disatteso. Sulla base delle suddette emergenze, l’avversata sentenza reputa le censure dell’appellante sul nesso causale prive di pregio anche perché incentrate su argomentazioni astratte.

FATTO E DIRITTO: La Corte di appello di Roma, in data 11/12/2017, ha confermato la sentenza con cui il Tribunale, a seguito di giudizio ordinario, dichiarava R. C. colpevole del reato a lui ascritto e per l’effetto lo condannava alla pena di anni due di reclusione nonché al risarcimento dei danni in favore delle parti civili costituite, da liquidarsi in separato giudizio, con condanna al pagamento di una provvisionale. Il C. è imputato del reato di cui all’art. 589 cod. pen. perché, in qualità di medico endocrinologo e diabetologo che assisteva O. R. nel corso della dieta dimagrante a cui era sottoposta, per colpa generica e per colpa specifica, consistita nella violazione di disposizioni normative, ne cagionava la morte. In Roma, il 02/09/2011. In particolare, è chiamato a rispondere: – per aver prescritto alla propria paziente il farmaco fendimetrazina nonostante il divieto di prescrizione e somministrazione dell’anzidetto farmaco disposto coi Decreti Ministeriali del 26/05/1987, del 13/04/1993, del 18/09/1997, del 24/01/2010 (divieto dichiarato illegittimo dalle sentenze del TAR Lazio n. 2965/2000 e n. 4204/2002 limitatamente alle preparazioni farmacologiche elaborate dal ricorrente dott. C. M.Z.); – per aver prescritto alla propria paziente il farmaco fendimetrazina nelle date del 07/03/2011; del 14/04/2011, del 18/05/2011, del 22/06/2011, del 22/07/2011, quindi in violazione di quanto disposto dall’art. 2, comma 2, lett. e) del Decreto del Ministero della Sanità del 18/09/1997, per una durata superiore a tre mesi; – per aver prescritto alla propria paziente il farmaco fendimetrazina pur conoscendo i rischi che l’uso di tale farmaco poteva determinare (tra cui l’aumento della pressione arteriosa, sia diastolica che sistolica, oltre che effetti anoresizzanti, dopanti e tossici), tali da indurre lo stesso Ministero della Salute, con Decreto Ministeriale del 02/08/2011 (pubblicato in G.U. il 04/08/2011) a disporne l’inserimento nella tabella I del d.P.R. n. 309/1990 e, pertanto, a vietarne la vendita in qualsiasi forma (industriale e galenica); – per aver prescritto i farmaci fendimetrazina, fluoxetina e clorazepato unitamente ad altri farmaci ad effetto lassativo e diuretico (tra cui idroclorotiazide, pilosella, tarassaco, senna, cascara, diuresix) ad una paziente il cui stato psico-fisico era debilitato per aver perso, nel corso degli ultimi sei mesi, circa 40 kg di peso, omettendo di acquisire le informazioni anamnestiche e di disporre gli accertamenti clinici strumentali necessari per valutare l’opportunità di prescrivere detti farmaci in associazione e di valutare i rischi di insorgenza di eventuali complicanze. Farmaci che, risultando assunti nelle ore immediatamente precedenti il decesso, determinavano un’azione aritmogena sul miocardio ed uno squilibrio idroelettrico che cagionavano la morte di O. R.. Avverso la prefata sentenza della Corte di appello di Roma, R. C., a mezzo del difensore, interpone ricorso per Cassazione articolando un unico, articolato, motivo con cui deduce falsa e/o erronea applicazione dell’art. 589 cod. pen, con riferimento al nesso eziologico (artt. 40, comma 1 e 41 cod. pen.) e alla colpa (artt. 42 e 43), anche rispetto al canone dell’«oltre ogni ragionevole dubbio»; e violazione e/o falsa applicazione del D.M. del 18/09/1997 e 02/08/2011 ai fini della loro valenza quale riscontro dei detti profili oggettivo e soggettivi; nonché per grave travisamento della prova. Nello sviluppo delle proprie argomentazioni sotto il profilo della colpa, la difesa riporta continui e ampi passi della perizia, sottolineando che le conclusioni cui questa è pervenuta sono assolutamente insufficienti a fondare la responsabilità penale del C. per essere le stesse assai incerte sia sul fronte del nesso eziologico che su quello della colpevolezza. Quanto al primo, la perizia, nell’affermare che «gli elementi raccolti nel corso della presente indagine sorreggono l’ipotesi della sussistenza del nesso di causalità materiale» formula una valutazione ben lontana dalla certezza richiesta per l’ascrivibilità penale di un evento in termini obiettivi e concreti. La pronuncia di primo grado – secondo cui il medico avrebbe dovuto accertare, in base a dati documentabili, che la persona offesa non potesse essere utilmente trattata con le tradizionali terapie scientificamente accreditate per la cura dell’obesità (la modifica comportamentale, la riduzione dell’apporto calorico mediante dieta mirata e l’esercizio fisico) – e i rilievi della sentenza di appello sul fatto che l’imputato «aveva del tutto omesso di accertare, in maniera approfondita, la complessiva condizione clinica della R. prima di procedere al prolungamento del trattamento terapeutico», travisano le risultanze processuali le quali invece smentiscono che il medico abbia assunto un approccio esclusivamente farmacologico. La stessa perizia, infatti, dà atto che, all’interno di un’apposita scheda, sono indicati i consigli dietetici suggeriti dal curante che contemplano l’attività fisica e il regime alimentare fatto propri dalla paziente. L’impugnata sentenza non prende atto delle reali condizioni in cui la medesima versava, peraltro acclarate dagli stessi periti i quali evidenziano come l’obesità generi ipertensione, cardiopatie ischemiche, tumori e sia responsabile di una considerevole riduzione dell’aspettativa di vita, specie in riferimento alla mortalità cardiovascolare. È la stessa perizia ad affermare che la R. non fosse affatto un soggetto in apparente buona salute e che la prospettiva della morte non era per nulla estranea al suo orizzonte temporale nel medio periodo. La possibilità della morte improvvisa non è quindi esclusa dagli stessi periti. Quanto alla censura afferente il prolungamento della prescrizione terapeutica (in violazione del D.M. del 18/09/1997 che inibiva una durata superiore a tre mesi), il ricorrente lamenta come le sentenze di merito, equiparando l’illegittimità e/o la pericolosità alla causa della morte operino un’assimilazione fuorviante posto che non è dato comprendere se la pericolosità, e ancor prima l’illegittimità, siano derivate dalla prescrizione o dal prolungamento di essa. All’epoca dei fatti, non vi era segnalazione che facesse ritenere la fendimetrazina (la quale rimante tuttora prescrivibile in gran parte del mondo) pericolosa per la salute. La stessa Corte di appello dà atto di un giudizio di pericolosità per mera analogia con altre sostanze dello stesso tipo. In assenza di un ancoraggio scientifico, il Giudice di appello si basa su una sorta di pericolosità normativa fondata sulla reinterpretazione della vicenda giudiziaria del Tar del Lazio. Occorre premettere che le determinazioni del giudice di merito sui profili di valutazione della prova e di ricostruzione del fatto sono insindacabili in Cassazione ove siano sorrette da motivazione congrua, esauriente ed idonea a dar conto dell’iter logico-giuridico seguito dal giudicante e delle ragioni della decisione. In tema di sindacato del vizio di motivazione, infatti, il compito del giudice di legittimità non è quello di sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito in ordine all’affidabilità delle fonti di prova, bensì di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano fornito una corretta interpretazione di essi, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti, e se abbiano esattamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre [Sez. U., sent. n. 930 del 13/12/1995, (dep. il 29/01/1996), Clarke, Rv. 203430]. L’assunzione prolungata della fendimetrazina, anche in associazione con le altre sostanze, aveva aumentato il rischio di una crisi aritmica in ragione della condizione fisica della paziente, obesa e quindi già esposta a crisi ipertensive; a loro volta, anche gli altri, ulteriori, farmaci prescritti alla Rubeghi potevano aver avuto un ruolo concausale proprio in quanto assunti in associazione con la fendimetrazina. Quanto poi alla pretesa innocuità della fendimetrazina (ove assunta in dosi terapeutiche), la Corte di appello ricorda che i periti hanno più volte ribadito che la pericolosità di tale farmaco era attestata da copiosa letteratura scientifica riferita alla categoria dei farmaci simpaticomimetici cui la prima appartiene e come tale affermazione sia del tutto coerente con i decreti ministeriali succedutisi negli anni che proprio in ragione della pericolosità di questa sostanza, avevano limitato sino a vietarle l’utilizzo di specialità medicinale o di preparazioni magistrali a base di fendimetrazina. Proprio a ragione di questa pericolosità, sul medico, portatore di una posizione di garanzia rispetto al paziente che a lui si affida, grava un obbligo di adeguata gestione del rischio che, nel caso di specie, è stato del tutto disatteso. Sulla base delle suddette emergenze, l’avversata sentenza reputa le censure dell’appellante sul nesso causale prive di pregio anche perché incentrate su argomentazioni astratte. La medesima astrattezza e genericità si ravvisa anche nel ricorso per Cassazione ove il ricorrente ripropone le medesime doglianze già svolte in appello alle quali la Corte territoriale ha fornito adeguata e completa risposta. La Corte di appello ha reputato provato – con motivazione che pertanto si sottrae al sindacato di legittimità – sulla scorta delle anzidette, univoche, conclusioni peritali, che la morte della R. sia stata provocata dall’assunzione prolungata della fendimetrazina, in associazione ad altre sostanze farmacologicamente attive che hanno innescato un processo fatale in una paziente che presentava già fattori di rischio. rischio. Infondato è pertanto l’assunto del ricorrente secondo cui la perizia, nell’affermare che «gli elementi raccolti nel corso della presente indagine sorreggono l’ipotesi della sussistenza del nesso di causalità materiale» formula una valutazione ben lontana dalla certezza richiesta per l’ascrivibilità penale di un evento in termini obiettivi e concreti. La pronunzia in disamina ritiene altresì che il giudizio controfattuale riscontri l’esistenza del nesso di condizionamento. L’evento, infatti, risultava evitabile: secondo i periti la paziente «con elevato grado di probabilità logico-razionale» non sarebbe deceduta ove non avesse assunto le sostanze prescritte dall’imputato, «nelle forme e nella cronologia al dunque registrate», attesa l’assenza di «chiavi di lettura alternative a quella complessivamente identificata come riconducibile al meccanismo di azione proprio dei simpaticomimetici […]». Poiché il nesso causale può ritenersi provato ogni qual volta, sulla base di leggi di copertura, possa affermarsi che, se il soggetto si fosse astenuto da una data azione quell’evento non si sarebbe verificato (reato commissivo proprio) ovvero che se il soggetto, avendone l’obbligo, avesse agito secondo il comando, l’evento sarebbe stato impedito – la sentenza di appello rileva come il giudice di primo grado, basandosi su regole di esperienza acquisite in giudizio e fondate su dati scientifici forniti dalla pratica medica, sia pervenuto alla condivisibile convinzione che, se il C. avesse agito con la dovuta diligenza, se cioè non avesse somministrato il trattamento terapeutico (vietato) o comunque se avesse rispettato la durata massima di tre mesi prevista dal decreto ministeriale previgente al divieto introdotto con il D.M. del 2000 (con ciò evitando che la R. per oltre cinque mesi venisse sottoposta ad uno stimolo iperadrenergico costante) e, ancora, se avesse prescritto accertamenti clinici prima e durante il trattamento, l’evento morte non si sarebbe verificato. Nel caso di specie, la Corte territoriale si è attenuta a tali principi utilizzando correttamente le informazioni scientifiche offerte dai periti ed analizzando con chiarezza le relative emergenze fattuali. Essa, infatti, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, si avvalsa di precise e congrue informazioni scientifiche peraltro non fatte oggetto di specifica confutazione. Sulla colpa dell’imputato. La Corte di appello ha ritenuto che non vi sia dubbio in ordine alla condotta colposa dell’imputato per aver egli prescritto la fendimetrazina nonostante il divieto introdotto dal D.M. del 24/01/2000 e, comunque, per aver violato le disposizioni contenute nel D.M. 18/09/1997 in punto di durata del trattamento farmacologico (prescrivibile per un periodo non superiore a tre mesi), per averlo prescritto pur conoscendo i rischi che lo stesso poteva comportare e per aver somministrato alla paziente, unitamente alla fendimetrazina, altre sostanze farmacologicamente attive senza considerare lo stato psico-fisico della paziente (che aveva perso circa 7 kg di peso al mese) ed omettendo di acquisire le informazioni amnestiche e di disporre accertamenti clinici strumentali per valutare l’opportunità del trattamento farmacologico pescritto. La Corte di appello ha pertanto concluso nel senso che la condotta dell’imputato consente di affermare che la morte della Rubeghi sia a lui imputabile, essendo l’evento non solo evitabile, come si è più sopra accennato, ma altresì prevedibile proprio in ragione dell’anzidetta pericolosità del farmaco e dalla presenza nella paziente di fattori di rischio che aumentavano la possibilità di insorgenza di effetti collaterali, anche mortali, derivanti dall’assunzione dei farmaci prescritti. La pericolosità della fendimetrazina, afferma condivisibilmente la sentenza, era stata del resto rappresentata nei decreti ministeriali che, nel corso degli anni, avevano dettato limiti e divieti nella prescrizione e nella preparazione di prodotti a base di questa sostanza, decreti tutti finalizzati alla protezione degli individui dall’uso di farmaci rischiosi per la salute. L’evento, dunque, ha costituito la concretizzazione del rischio che la cautela era chiamata a governare. Dal punto di vista soggettivo per la configurabilità del rimprovero è sufficiente che tale connessione tra la violazione delle prescrizioni recate delle norme cautelari e l’evento sia percepibile, riconoscibile dal soggetto chiamato a governare la situazione rischiosa. Il ricorso deve essere rigettato con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili

Autore: Marcello Fontana - Ufficio Legislativo FNOMCeO

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