La Corte di Cassazione ha affermato che “la perdita di chance di natura non patrimoniale di cui si tratta in ambito di responsabilità sanitaria consiste nella privazione della possibilità di conseguire un vantaggio sperato, incerto ed eventuale, che può variamente atteggiarsi in termini di migliori opportunità di cura o di maggiore durata della vita o di sopportazione di minori sofferenze.”
FATTO E DIRITTO. Dopo il decesso di R. V., la convivente S. G., i figli S., I. e S. V., i fratelli C., A. e A. V. e la madre M. D. T. convennero in giudizio l’Ospedale G.B. G. — ASL R. D per ottenere il risarcimento dei danni conseguiti alla mancata comunicazione -al loro congiunto- dell’avvenuto riscontro di una patologia tumorale. Più precisamente, dedussero che, a seguito di un sinistro stradale in cui aveva riportato la rottura della milza, R. V. era stato ricoverato presso l’Ospedale G., ove era stato sottoposto a splenectomia; che l’esame istologico effettuato sull’organo asportato aveva evidenziato un linfoma non Hodgkin a localizzazione splenica; che tale patologia non era stata indicata nella scheda rilasciata al momento della dimissione dal nosocomio, avvenuta il 9.11.2000; che, a seguito di accertamenti effettuati nel giugno 2002, al V. era stato riscontrato, in sede polmonare, un linfoma non Hodgkin allo stadio IV; che, benché sottoposto a numerose terapie, il congiunto era deceduto in data 12.8.2005. Tanto premesso, dedussero che la mancata informazione sul linfoma riscontrato in sede splenica aveva impedito al V. di effettuare accertamenti sanitari per quasi due anni e chiesero pertanto il risarcimento dei danni conseguiti a tale omissione, spettanti loro sia iure hereditario che iure proprio e quantificati in 3.025.291,00 euro; in subordine, chiesero il risarcimento dei danni correlati alla perdita di chances di sopravvivenza. Costituendosi in giudizio, l’azienda ospedaliera chiamò in causa le proprie compagnie assicuratrici C. s.p.a. e N. s.p.a., per l’eventuale manleva, nonché i broker assicurativi A. s.pa. e M. s.p.a. (associate in ATI), per sentirne accertare la responsabilità per omessa e/o erronea denuncia del sinistro, e altresì i medici F. M. e R. M. F. (nelle rispettive qualità di sanitario che aveva redatto la scheda di dimissione e di primario del reparto di 34s chirurgia); nel merito, concluse per il rigetto della domanda e, in subordine, per sentir accertare la responsabilità esclusiva dei medici coinvolti. Si costituirono in giudizio la Società C. di Assicurazione, la N. Assicurazioni, la A. s.p.a., la M. s.p.a. e F. M., il quale chiamò in causa la propria assicuratrice ma A. Le A. d’Italia. Il Tribunale di Roma rigettò la domanda degli attori sul rilievo che all’interno della cartella clinica consegnata al V. il 12.12.2000 era presente il referto istopatologico completo di diagnosi e che ciò consentiva la piena conoscenza della patologia, cosicché doveva escludersi che le conseguenze dannose fossero riconducibili eziologicamente alla condotta omissiva dei sanitari, essendosi posto come elemento interruttivo il comportamento negligente del paziente. Provvedendo sul gravame dei congiunti del V., la Corte di Appello di Roma, premesso di attenersi al principio della “ragione più liquida”, ha rilevato che, «se pure -come sostengono gli appellanti- il Tribunale avrebbe dovuto accertare l’inadempimento dei sanitari all’obbligo di fornire indicazioni in ordine al follow up della patologia tumorale riscontrata all’esito dell’esame istologico eseguito dopo la splenectomia, cionondimeno l’appello non può ritenersi fondato per la ragione assorbente costituita dall’esclusione del rapporto di causalità tra il predetto inadempimento e il decesso di V. R.»; ha pertanto rigettato l’appello, compensando integralmente le spese di lite («tenuto conto dell’inadempimento accertato e della difficoltà di individuare le responsabilità»). Hanno proposto ricorso per cassazione S. G., S., I., S., C., A., A. V. e M. di T., affidandosi a due motivi; hanno resistito, con distinti controricorsi, l’A. S. L. R. 3 (già USL R. D), la G. Italia s.p.a. (già ma A.), la U. A. s.p.a. (già N. A.), la Società C. di A. Coop. a r.I., F. M., la A.s.p.a. e la M. s.p.a.; quest’ultima ha proposto ricorso incidentale basato su due motivi; hanno depositato memoria i ricorrenti, la G. Italia e la A..
1. Il primo motivo deduce -in relazione all’art. 360, comma 1°, n.3 c.p.c.- la violazione e la falsa applicazione del D.M. 28.12.1991 (istitutivo della scheda di dimissione ospedaliera nella cartella clinica), dell’art. 32 Cost., delle Linee Guida del Ministero della Salute, degli artt. 1227, 1218, 1176, 2° co. e 2236 c.c. e dell’art. 41 c.p., nonché – in relazione all’art. 360, comma 1°, n. 4 c.p.c.- la «nullità della sentenza o del procedimento per omessa, in quanto manifestamente illogica, contraddittoria e, per ciò, apparente motivazione in relazione all’inversione dell’onere della prova ed al riconoscimento del diritto al risarcimento, anche per perdita di chance». I ricorrenti dichiarano di voler censurare la sentenza impugnata «nelle parti in cui la Corte di Appello (i) non ha riconosciuto valore di nesso di causalità presunta all’inadempimento derivante dalla assenza della scheda di dimissione nella cartella clinica e delle conseguenze sulla incidenza della malattia e l’exitus, (ii) non ha considerato applicabili le norme di diritto in tema di attribuzione dell’onere della prova, (iii) non ha riconosciuto la regola della preponderanza dell’evidenza, (iv) non ha garantito la tutela della salute in applicazione dei principi costituzionali e delle linee guida, (v) non ha rispettato i principi giurisprudenziali […] in tema di perdita di chance». Lamentano che la Corte ha estrapolato dalla relazione di c.t.u. solo alcuni dati, senza valutare gli elementi dubbi e senza tener conto degli errori e delle discrepanze in essa presenti, segnatamente in relazione al fatto che il consulente ha ritenuto di escludere la ragionevole probabilità che, effettuando nel corso dei due anni precedenti l’individuazione del linfoma polmonare il follow up che sarebbe stato compiuto ove il V. fosse stato informato del linfoma in sede splenica, «il paziente avrebbe potuto scoprire con anticipo lo sviluppo della patologia e curarsi in modo meno invasivo». Assumono che la lacunosità della scheda di dimissione «costituisce una condotta negligente che configura un inesatto adempimento del medico e della struttura sanitaria e conferisce alle omissioni nella cartella clinica il valore di nesso eziologico presunto», evidenziando che l’inadempimento aveva determinato l’impossibilità del V. di sottoporsi a tutti gli approfondimenti del caso, in termini di follow up, con la conseguenza che aveva potuto avere contezza della malattia soltanto quando era passata dal I al IV stadio. Infine, ribadita la necessità di tutelare il preminente diritto alla salute del paziente, i ricorrenti lamentano la «perdita di chance per ritardo diagnostico», evidenziando che «la mancata comunicazione della patologia […] ha determinato nel sig. V. l’impossibilità di gestire consapevolmente la propria malattia, di decidere dove e da chi farsi curare, di effettuare quegli accertamenti diagnostici periodici necessari che costituiscono lo screening adottato nella gestione delle malattie oncologiche finalizzati al monitoraggio dello sviluppo della patologia, a valutare la tipologia, la stadiazione e ad intervenire precocemente onde evitare il peggioramento. In tal modo garantendo al malato di avere maggiori possibilità di evitare la morte, o quanto meno ritardarla». 1.1. Il motivo è inammissibile in relazione alle censure svolte ai sensi dell’art. 360, n. 3 c.p.c., stante l’assoluta genericità con cui è stata dedotta la violazione o la falsa applicazione delle norme indicate nella rubrica, a fronte di un’illustrazione che fa perno principalmente su elementi fattuali richiamati in funzione di un diverso apprezzamento di merito. 1.2. Il motivo è -comunque- infondato nella parte in cui intende affermare un «nesso eziologico presunto» fra l’incompletezza della scheda di dimissioni e lo sviluppo della malattia e il successivo exitus, in quanto: in ambito contrattuale (così come per l’illecito extracontrattuale), il nesso eziologico costituisce un elemento distinto ed autonomo rispetto alla condotta del soggetto agente, cosicché la sua esistenza non può essere presunta per il solo fatto che si sia verificato un inadempimento, ma deve costituire oggetto di uno specifico accertamento che, pur potendosi giovare di elementi presuntivi, non può conseguire de plano all’accertamento dell’inadempimento; non è pertinente il richiamo dei ricorrenti al principio -affermato, fra le altre, da Cass. n. 6209/2016 e da Cass. n. 12218/2015- secondo cui l’incompletezza della cartella clinica è circostanza di fatto che il giudice può considerare al fine di ritenere provato un nesso causale tra l’operato del medico e il danno patito dal paziente, giacché tale principio non esclude comunque la necessità di un accertamento ad hoc e attiene alla specifica ipotesi (non ricorrente nel caso in esame) in cui sia stata proprio l’incompletezza della cartella a rendere impossibile l’accertamento del nesso eziologico. 1.3. Il motivo è -invece- fondato in ordine alle censure svolte in relazione all’art. 360, n. 4 c.p.c., sotto il profilo della mera apparenza della motivazione nella parte in cui la sentenza impugnata ha escluso il riconoscimento del danno per perdita di chance (di cui gli odierni ricorrenti hanno sempre richiesto -ancorché in via subordinata- il risarcimento). 1.3.1. In merito alla configurabilità del danno da perdita di chance, richiamati i principi espressi da Cass. n. 5641/2018 e -più recentemente- da Cass. n. 28993/2019, deve ribadirsi che: la perdita di chance di natura non patrimoniale di cui si tratta in ambito di responsabilità sanitaria consiste nella privazione della possibilità di conseguire un vantaggio sperato, incerto ed eventuale, che può variamente atteggiarsi in termini di migliori opportunità di cura o di maggiore durata della vita o di sopportazione di minori sofferenze; in altri termini, nel «sacrificio della possibilità di un risultato migliore”, secondo l’icastica espressione usata da Cass. n. 28993/2019; al pari di ogni altro evento di danno, l’affermazione del pregiudizio da perdita di chance presuppone il necessario accertamento di un nesso di derivazione causale da una condotta colpevole (commissiva od omissiva), da effettuarsi secondo il consueto criterio della preponderanza dell’evidenza, senza possibilità di sovrapporre (e confondere) la possibilità costituente il contenuto della chance con la probabilità significativa sul piano eziologico; per poter rilevare sul piano risarcitorio, la chance deve essere apprezzabile, seria e consistente (ossia non risultare talmente labile e ipotetica da non essere neppure determinabile in termini probabilistici) e, al tempo stesso, deve conservare immutato il proprio connotato di “incertezza eventistica”, senza tradursi in pregiudizi di diversa natura (quali, ad esempio, l’anticipazione della morte o il peggioramento delle condizioni di vita del paziente, intesi come eventi accertati) suscettibili di autonomo risarcimento; circa la quantificazione del danno, la liquidazione correlata ad una perdita di chance propriamente intesa non può che essere effettuata in via equitativa, con una valutazione commisurata alla peculiarità del caso concreto, che tenga conto delle caratteristiche della possibilità perduta e del suo grado di apprezzabilità, serietà e consistenza (rispetto al quale il valore statistico-percentuale, ove accertabile, può costituire solo un criterio orientativo), mentre va sicuramente escluso il ricorso -anche mediato- ai criteri tabellari in uso per la liquidazione del danno da invalidità permanente o da inabilità temporanea che, pur attenendo a danni non patrimoniali, presuppongono la sussistenza di pregiudizi incompatibili con quello derivante da perdita di chance (cfr. Cass. n. 3691/2018). 1.3.2. La decisione impugnata snoda la sua motivazione (assai concisa) attraverso i seguenti passaggi: pur a fronte dell’accertato inadempimento dei sanitari all’obbligo di fornire indicazioni in ordine al follow up della patologia tumorale, l’appello non poteva essere accolto «per la ragione assorbente costituita dall’esclusione del nesso di causalità tra il predetto inadempimento e il decesso del V.»; il linfoma riscontrato nella milza «poteva essere inquadrato come uno Stadio I-II, IPI 01 con una prognosi di sopravvivenza globale (OS) valutabile intorno al 60/70%, a cinque anni»; tale accertamento «impedisce di ritenere -tenuto conto che il decesso è intervenuto dopo cinque anni dalla refertazione della patologia della milza- che si possa configurare un danno anche sotto il profilo della perdita di chance»; la tipologia del linfoma polmonare (a grandi cellule) era del tutto diversa dalla localizzazione splenica (a piccole cellule) e, anche voler ipotizzare che vi sia stata una trasformazione istologica (possibile nel 5% dei casi), «non di meno questa situazione non avrebbe portato, se trattata precocemente, ad una diversa prognosi, perché la sopravvivenza è legata alla risposta clinica ai trattamenti farmacologici della quota più aggressiva della neoplasia linfatica che non è in funzione del tempo intercorso tra la diagnosi iniziale e l’inizio delle cure», con la conseguenza che «la mancanza di accertamenti e cure dopo la diagnosi dell’ottobre 2000 non ha comportato un danno a V. R.» giacché «la mancata risposta alle cure chemioterapiche fu […] legata alla manifestazione particolarmente aggressiva del linfoma del 2002 e non al tempo intercorso tra la prima e la seconda presentazione di LN H»; 1.3.3. La Corte di merito ha dunque affermato che il trattamento più precoce del linfoma polmonare non avrebbe modificato la prognosi infausta, risultando pertanto irrilevante quoad vitam. Con ciò, non ha tuttavia escluso che -ferma restando l’inevitabilità del decesso del V.- il suo percorso clinico potesse essere diverso nel caso in cui, messo tempestivamente al corrente del linfoma riscontrato in sede splenica, egli avesse avuto la possibilità di svolgere il follow up oncologico. Invero, laddove ha insistito nell’affermare che la mancanza di accertamenti e cure dopo la diagnosi dell’ottobre 2000 non ha comportato un danno al V., la Corte ha evidentemente inteso riferirsi all’esito letale, senza curarsi di valutare se sussistesse la possibilità di seguire un diverso percorso diagnostico e terapeutico che consentisse di individuare e trattare più precocemente il linfoma in sede polmonare e che permettesse al V., già dall’autunno 2000, di determinarsi rispetto alla malattia in modo diverso da come aveva potuto fare soltanto a partire dal giugno 2002. E’ mancata pertanto la valutazione della possibilità che – tempestivamente informato- il V. potesse sottoporsi ad un regolare follow up, che questo consentisse una diagnosi più precoce (rispetto al giugno 2002) del linfoma in sede polmonare (sia che si trattasse di patologia diversa dal linfoma splenico, sia che ne costituisse uno sviluppo con trasformazione istologica), che -infine- il trattamento più precoce permettesse una diversa progressione della malattia e, eventualmente, una maggiore sopravvivenza in vita (fermo restando l’epilogo letale). La Corte di Appello ha, dunque, mostrato di ritenere dirimente la circostanza che un diverso approccio diagnostico e terapeutico non avrebbe comunque evitato la morte del V., omettendo di prendere posizione sul fatto che l’omessa informazione potesse comunque avere determinato una perdita di chances giuridicamente rilevanti nel senso finora illustrato. V’è di più: laddove ha espressamente escluso «che si possa configurare un danno anche sotto il profilo della perdita di chance», la Corte di merito ha motivato in modo palesemente non congruente con la fattispecie in esame, limitandosi ad evidenziare che il decesso era avvenuto dopo cinque anni dalla refertazione della patologia alla milza, risultando pertanto rispettata la prognosi di sopravvivenza valutabile intorno al 60/70% a cinque anni. Una siffatta motivazione è evidentemente viziata, in quanto: identifica tout court la chance con la probabilità statistica di sopravvivenza in vita dopo la rimozione di un linfoma splenico, senza cogliere la specificità di tale profilo di danno che consiste nella privazione della possibilità di sopravvivere più a lungo (anche rispetto alle mere probabilità statistiche) e/o con minori sofferenze e che avrebbe richiesto di accertare se, in relazione alle specifiche circostanze del caso, l’informazione sul riscontro istologico del linfoma avrebbe potuto consentire al V. la possibilità (apprezzabile, seria e consistente) di un miglior percorso terapeutico; considera (ed esclude) il danno da perdita di chance in relazione al linfoma alla milza, omettendo di valutare se il follow up oncologico per tale patologia avrebbe ragionevolmente consentito al V. di individuare il linfoma in sede polmonare prima del giugno 2002 e, se del caso, di iniziare più precocemente la terapia, con possibilità di maggiore o migliore permanenza in vita. Deve pertanto ritenersi che, benché ne abbia escluso la configurabilità, la Corte di Appello non abbia esaminato effettivamente il danno da perdita di chance nella sua specificità, pervenendo ad una conclusione assiomatica che non ha tenuto né della natura del pregiudizio (non escluso a priori dalla circostanza che si sia realizzata la probabilità statistica di sopravvivenza a cinque anni dalla rimozione di un linfoma splenico) né del fatto che le possibilità pregiudicate andavano valutate in relazione alla più tempestiva diagnosi e alla migliore cura del linfoma in sede polmonare, che è stata la causa (o la causa ultima) del decesso del V.. 1.3.4. La motivazione risulta, in definitiva, meramente apparente in quanto, benché graficamente esistente, non consente di rapportare le scarne considerazioni della Corte di Appello al corretto perimetro del danno da perdita di chance e di cogliere il fondamento della decisione, a fronte di considerazioni che risultano inidonee ad escludere la configurabilità di tale pregiudizio (cfr. Cass., S.U. n. 22232/2016); infatti la sentenza non affronta effettivamente la problematica della chance e, quindi, non rende percepibili le ragioni della decisione, atteso che il rilievo che il V. è sopravvissuto cinque anni non è idoneo a spiegare perché non avrebbe potuto avere la possibilità di vivere più a lungo o in condizioni diverse se fosse stato posto nella condizioni di effettuare il follow up oncologico. 1.3.5. La sentenza va dunque cassata sul punto, con rinvio alla Corte territoriale che dovrà nuovamente esaminare la domanda relativa al danno da perdita di chance alla luce dei principi sopra richiamati e delle considerazioni svolte. 2. Col secondo motivo, i ricorrenti denunciano la violazione o falsa applicazione degli artt. 87, 194 e 201 c.p.c., nonché l’«omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione agli elementi di prova risultanti dalla CTU e forniti dai ricorrenti» e dichiarano di censurare «la sentenza della Corte di Appello nella parte in cui (i) fa assurgere a piena prova le risultanze della contestata, contraddittoria ed erronea CTU (il) senza fornire alcuna motivazione in relazione alla mancata rinnovazione della stessa, ancorché ritualmente richiesta». 2.1. Il motivo è inammissibile giacché la violazione delle norme di diritto è dedotta in modo generico e la mancata rinnovazione della c.t.u. non è censurabile sotto il profilo dell’omesso esame di un fatto decisivo, tanto più che «in tema di consulenza tecnica d’ufficio, il giudice di merito non è tenuto, anche a fronte di una esplicita richiesta di parte, a disporre una nuova ctu, atteso che il rinnovo dell’indagine tecnica rientra tra i poteri discrezionali del giudice di merito, sicché non è neppure necessaria una espressa pronunzia sul punto» (Cass. n. 22799/2017 e Cass. n. 17693/2013). SUL RICORSO INCIDENTALE 3. Il primo motivo, che deduce la “inammissibilità del ricorso principale», non compie alcuna specifica censura della sentenza, ma svolge argomenti propri di un controricorso e contesta la «totale incongruità della pretesa dei ricorrenti di trattenere ulteriormente M. all’interno della presente controversia», rilevando che l’originaria chiamata in causa da parte della USL R. D si basava su un titolo (l’addotto inadempimento dell’accordo di brokeraggio) del tutto diverso da quello azionato dai ricorrenti nei confronti dell’azienda sanitaria. 3.1. Il secondo motivo denuncia la violazione degli artt. 112, 91 e 92 c.p.c.: la ricorrente incidentale si duole che il giudice di secondo grado non le abbia liquidato le spese di lite a carico degli appellanti, rilevando che la motivazione addotta dalla Corte a giustificazione della compensazione generalizzata delle spese (facente perno sull’avvenuto accertamento dell’inadempimento e sulla difficoltà di individuare le responsabilità) non poteva concernere la posizione della M., che aveva eccepito l’inammissibilità dell’appello nei propri confronti, 3.2. I due motivi -da esaminare congiuntamente in quanto il rilievo di difetto di legittimazione passiva è comune ad entrambi e risulta finalizzato a contestare il mancato rimborso delle spese processuali- restano assorbiti dall’accoglimento (per quanto di ragione) del primo motivo del ricorso principale giacché il giudice di rinvio dovrà procedere a nuova liquidazione delle spese dei gradi di merito. 4. La Corte di rinvio provvederà anche sulle spese del presente giudizio.