Nel Parlamentino del CNEL, sede “storica” dove ogni anno Giuseppe De Rita presenta il Rapporto annuale del Censis, s’avvertiva quest’anno tutto il peso della crisi, della crisi vera, non di quelle crisi intuite, previste, analizzate, o descritte come fenomeni all’orizzonte di un mare calmo dove si posava l’Italia degli anni scorsi, con le sue ancore di sicurezza nel “corpaccione del ceto medio” o nell’intuizione del “piccolo è bello” o nelle rassicuranti, seppur contraddittorie, certezze dell’economia sommersa.
No, non è più così: il ceto medio è ormai compresso verso il basso, quasi in via di estinzione, i dati sull’economia e sull’occupazione non danno alcuna speranza almeno per il prossimo biennio, questa volta siamo di fronte a una crisi vera, dove termini come spending review e spreed assumono significati minacciosi per famiglie costrette a una drammatica riduzione dei consumi, per imprese che sono costrette a chiudere sia per la crisi della globalizzazione (troppo veloce e senza alcun meccanismo di regolazione da parte di mercati totalmente sregolati), sia per l’insostenibile carico fiscale, per giovani sempre più istruiti in avanti negli anni per i quali l’occupazione, anche precaria, è un miraggio sempre più lontano.
L’Italia del Censis quest’anno si presenta così. Ma in questo 46° Rapporto c’è un elemento più inquietante e che sovrasta tutti gli altri. Sintetizza De Rita: “Ma perché dobbiamo sopportare governi in cui tutti vogliono governare, ma nessuno è d’aiuto al nostro stress da sopravvivenza? Forse è ora di trovare un modo di governare che si connetta ai processi reali, in una nuova sperimentazione di unità di governo e popolo”. E spiega: “La nostra lettura, come d’abitudine, è sulla lunga durata. E in questo quadro abbiamo messo in luce la costanza vitale della nostra forza di sopravvivenza. Se ci chiedono di connettere questa scelta di interpretazione all’attualità dell’oggi, possiamo dire quanto segue: siamo sopravvissuti a venti anni di Seconda Repubblica con governi dichiaratamente decisionisti, nei fatti incapaci di connettersi ai processi reali della società e delle persone. Siamo sopravvissuti a dieci anni di crisi, dal 2001 ad oggi, con nessun intervento di governo che l’abbia significativamente contrastata. Siamo sopravvissuti all’annus horribilis, cioè il 2011, con la caduta verticale del peso internazionale del nostro governo e della stessa nostra autonoma sovranità. Siamo sopravvissuti alla logica di governo altro e pedagogico dell’esperienza del governo tecnico. Sopravvivremo verosimilmente anche ai probabili e/o improbabili governi del prossimo futuro. Ma perché rassegnarsi a governi della sopravvivenza?”.
Restanza, differenza, riposizionamento: tre spinte per reagire
Alla sopravvivenza si stanno però abituando gli italiani. Non c’è un dato che può aiutare a dimostrare il contrario: consumi a picco in tutti i generi merceologici (con punte drammatiche nel mercato delle auto), anche in vista di questo Natale al verde, che Calabria Ora, il quotidiano diretto da Piero Sansonetti, ha definito con due sole parole “Porca miseria”. Fotografia dell’assenza di speranza, specialmente per le regioni del Sud. Come in una corsa dove progressivamente si sposta in avanti la linea dell’arrivo, gli italiani si allenano nell’arte della sopravvivenza, con tutta l’ansia insita in questa condizione che li fa sentire inermi, in una “immunodeficienza tanto attesa quanto pericolosa”. 2,5 milioni di persone vendono l’oro di famiglia, boom delle biciclette e degli orti “fai da te”.
Sì, ma qualche debole reazione c’è, tutta basata sulla “restanza” del passato: “Una reazione alla crisi, seppure differenziata e non ancora in grado di invertire pienamente le tendenze negative. Operano energie in molti settori del sociale e dell’economia – afferma Giuseppe Roma, direttore generale del Censis – tendenti a ricollocare famiglie e imprese nel nuovo quadro nazionale e internazionale” e, “nonostante le difficoltà, le famiglie italiane operano un riposizionamento su molti fronti. Stanno reagendo utilizzando al meglio ciò di cui dispongono, utilizzano la rete per consumare in modo competente e per risparmiare iscrivendosi a gruppi d’acquisto digitali, e guardano con maggiore serietà alla formazione dei giovani, che ritengono debba essere più professionalizzante a tutti i livelli, dagli istituti tecnici alle università all’estero”.
Nell’idea del Censis, la “restanza” non significa stare fermi, ma, nella situazione data dell’Italia, è una prima spinta, già in atto, per reagire alla crisi che morde. La seconda spinta è stata “la crescente valorizzazione della differenza e la voglia di personalizzazione”. La terza spinta è stata data dai processi di riposizionamento. Avviene così che gli italiani hanno riscoperto “il valore dell’impegno personale, la funzione supplettiva della famiglia rispetto ai buchi della copertura del welfare pubblico, la centratura sulla prossimità, nella quale si sviluppano le relazioni cruciali, la solidarietà diffusa e l’associazionismo, la valorizzazione del territorio come dimensione strategica di competitività del sistema”. E poi “il politeismo alimentare, con combinazioni soggettive di cibi e anche di luoghi ove acquistarli, senza tabù, neutralizzando ogni passata ortodossia alimentare; la moltiplicazione dei format di vendita, con la forte crescita degli acquisti online, la diffusione di siti web con offerte low cost e di gruppi di acquisto solidale; la personalizzazione dell’impiego dei media, sia per la fruizione dei contenuti di intrattenimento, sia per l’accesso alle fonti di informazione, secondo palinsesti multimediali «fai da te», autogestiti, svincolati dalla rigida programmazione delle grandi emittenti; la miniaturizzazione dei dispositivi tecnologici, la proliferazione delle connessioni mobili, l’esplosione dei social network, grazie ai quali diventano centrali la trascrizione virtuale e la condivisione telematica delle biografie personali”.
E, in tema di riposizionamento, esempi ne sono “il riorientamento dei giovani verso percorsi di formazione tecnico-professionale dalle prospettive di inserimento lavorativo più certe, la rinnovata vitalità di pezzi del tessuto produttivo (le cooperative, le imprese femminili, il settore Ict e le applicazioni Internet, le start-up nell’alta tecnologia e le green technologies), l’espansione della distribuzione organizzata e delle attività di commercio via web, l’aumento delle quote di mercato dell’Italia nelle aree emergenti del mondo grazie a specializzazioni produttive diverse dal tradizionale made in Italy, il cambiamento del modello di internazionalizzazione grazie a un di più di strategia che si è tradotto in un aumento degli investimenti in partecipazioni all’estero”.
Istituzioni e cittadini come separati in casa
Di fronte a questa condizione difficile dell’Italia, in questa cosiddetta Seconda Repubblica, è mancata la politica, si sarebbe detto una volta, o, come dice oggi il Censis, “Istituzioni politiche e soggetti sociali hanno vissuto da separati in casa, in una parallela discontinuità. Da un lato, le istituzioni politiche si sono concentrate con rigore sulla fragilità dei conti pubblici e della nostra credibilità finanziaria internazionale, sulla riduzione delle spese, le riforme settoriali, la razionalizzazione dell’apparato pubblico. Dall’altro lato, i soggetti economici e sociali sono rimasti soli con le loro affannose strategie di sopravvivenza, anche scontando sacrifici e restrizioni derivanti dalle politiche di rigore. Questa divaricazione può generare poteri oligarchici, da una parte, e tentazioni di populismo, anche rancoroso, dall’altra”.
In quest’ultimo anno, poi, “i soggetti sociali non si sono sentiti coinvolti dall’azione di governo, perché sospettosi che alle strategie tecnico-politiche non seguisse un’adeguata implementazione amministrativa e organizzativa, e perché restavano in attesa di una proposta di percorso comune, più che di richieste di adesione a improbabili cambi di mentalità e di comportamenti. Non è scattata la magia dello sviluppo fatto da governo e popolo e il rigore di governo non ha avuto lo spessore per generare forza psichica collettiva”.
Italiani soli di fronte alla crisi, dunque, avvolti in una sorta di “tensione identitaria”. Conclude il Censis: “In questi mesi non abbiamo solo salvaguardato il nostro «essere», ma anche cercato, più o meno consapevolmente, di «essere altrimenti». Tenere insieme nella nostra dialettica socio-politica le ragioni del rigore istituzionale e la popolare voglia di sopravvivenza sarebbe un significativo passo di crescita della nostra unità nazionale, perché oggi vive nel Paese una serietà collettiva (nelle preoccupazioni come nell’impegno) che era impensabile solo pochi mesi fa e che non va dispersa”.
“Ognuno per sé e Francoforte per tutti” non funziona
Nelle stesse ore in cui il Censis presentava il Rapporto, entrava in fibrillazione la politica accorciando i tempi delle dimissioni del Governo Monti e delle elezioni anticipate. Una situazione che oggettivamente non attenua, anzi esalta lo stress da sopravvivenza degli italiani, che, stretti nella morsa della crisi, nonostante la loro serietà collettiva, rischiano di trovarsi ancora più soli.
E’ proprio De Rita a delineare con le sue metafore la condizione attuale: “In una realtà sociale lasciata a se stessa, gli italiani sono una moltitudine senza conoscenza, in preda ad emozioni montanti come il richiamo al nazionalismo (una su tutte, torniamo alla lira) e il recupero del sociale con la paura della macelleria sociale. E’ immorale pensare che la finanza sia sopra a tutto, perché con la finanza non si fa innovazione, non si fa sviluppo. Pertanto, pensare ‘ognuno per sé e Francoforte per tutti’ non funziona”.
Autore: Redazione FNOMCeO