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CHE COSA SERVE PER UN CONSENSO VERAMENTE INFORMATO?

La vicenda inizia nel 1995, quando una donna siciliana, dopo aver effettuato un intervento di cheratomia radiale all’occhio sinistro presso la clinica oculistica dell’Università di Padova, effettua lo stesso intervento all’occhio destro, nonché un ritocco al sinistro, presso il Policlinico di Messina.

A distanza di due anni, si verifica una regressione dell’effetto correttivo inizialmente ottenuto con insorgenza di astigmatismo, ipermetropizzazione, astenopia, quindi cataratta. Il residuo visivo si riduce, nell’occhio destro e sinistro, rispettivamente a due e tre decimi. Da cui l’invalidità permanente del 60%.

La donna sostiene di non essere stata “adeguatamente informata dal chirurgo sulla natura e i rischi dell’intervento”, al quale avrebbe rinunciato se consapevole delle possibili complicanze. Chiede dunque risarcimento dei danni (stimati, allora, in oltre 350 milioni di lire).

Con sentenza del marzo 2006 il Tribunale di competenza (Messina) rigetta la domanda. La sentenza viene impugnata ma la Corte d’Appello conferma il rigetto: sulla base degli esiti della consulenza tecnica d’ufficio (c.t.u.) medico-legale, si esclude che la cataratta sia correlata all’intervento chirurgico eseguito a Messina e si rileva che i disturbi insorti sono eventi possibili anche in caso di interventi eseguiti in modo corretto, e cioè tali da escludere “negligenza, imperizia e imprudenza” da parte dell’operatore. La Corte d’Appello ritiene inoltre infondata l’inadeguatezza delle informazioni relative ai rischi, esplicitati secondo “uno standard normativo adeguato” nel dépliant consegnato alla paziente (“persona di idoneo livello culturale”) durante la visita medica che ha preceduto l’intervento.

La vicenda prosegue con il ricorso in Cassazione. Ed è proprio la Cassazione (con sentenza n. 2177 del 4 febbraio 2016) a ribaltare l’esito processuale fin qui descritto: concentrandosi sull’idoneità del dépliant quale strumento informativo adeguato per il consenso informato, i giudici hanno ribadito come quest’ultimo debba essere “personale, specifico ed esplicito, nonché reale ed effettivo”. Ma anche “pienamente consapevole e completo”. A tale scopo il modulo informativo consegnato alla paziente viene ritenuto incompleto, segnatamente laddove non include la “regressione dell’effetto correttivo inizialmente ottenuto” tra “gli eventi possibili di rilevanza statistica in interventi eseguiti, come quello in esame, correttamente”. La Corte di Cassazione ribadisce che il linguaggio usato per comunicare le informazioni deve essere comprensibile, cioè adeguato al livello culturale del paziente: circostanza che, seppure in questo caso sussistente, non è giudicata rilevante. Perché secondo la Cassazione le informazioni fornite, seppur correttamente comprese, erano comunque incomplete.

Autore: Redazione FNOMCeO

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