Corte di Cassazione ordinanza n. 8220 del 24/03/2021 sez. sesta civile – Responsabilità medica

Un intervento di chirurgia estetica riuscito male può essere fonte per il paziente sia di danni estetici che psichici. Riflettendosi il danno estetico sulla psiche, non è corretto procedere a un calcolo puramente aritmetico del risarcimento astrattamente spettante per l’una e per l’altra menomazione, ma, a fronte di menomazioni plurime, il risarcimento dovuto dal medico va valutato considerando il danno nel suo complesso, potendo anche sovrapporsi danno estetico e psicologico.

la seguente ORDINANZA sul ricorso iscritto al n. 14972/2019 R.G. proposto da (Omissis), rappresentata e difesa dall’Avv. (Omissis); – ricorrente – contro (Omissis), rappresentato e difeso dall’Avv. (Omissis); – controricorrente – avverso la sentenza della Corte d’appello di Brescia, n. 388/2019, depositata il 5 marzo 2019; Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 18 febbraio 2021 dal Consigliere (Omissis); Rilevato in fatto 1. Con sentenza n. 595 del 25 febbraio 2017 il Tribunale di Brescia, in accoglimento della domanda proposta dalla ricorrente nei confronti del controricorrente, condannò quest’ultimo al pagamento, in favore della prima, della somma di Euro 21.172 a titolo di risarcimento del danno alla salute cagionato da un errato intervento chirurgico di riduzione del seno ed a restituire alla stessa il compenso ricevuto pari a Euro 5.500. 2. In parziale accoglimento del gravame interposto dal controricorrente la Corte di appello di Brescia ha ridotto il risarcimento all’importo di Euro 18.179 (commisurando il danno alla percentuale di invalidità permanente dell’8%, anziché a quella del 9%) ed ha rigettato la domanda di risoluzione del contratto di opera professionale (e quella conseguente di restituzione del compenso), ritenendo che l’inadempimento non fosse di tale gravità da giustificarla. 2.1. Sotto il primo profilo la Corte lombarda ha infatti ritenuto che la percentuale invalidante del 5% (stimata dal c.t.u. per la riduzione del benessere psicofisico derivante dalla asimmetria mammaria residuata all’intervento) e quella del 4% (pure stimata in relazione al danno di natura psichica) non andassero l’una all’altra sommate (come opinato dal primo giudice) ma che andassero piuttosto accolte le conclusioni del c.t.u. che aveva indicato la complessiva percentuale invalidante nella misura dell’8%. Benché infatti l’ausiliario non avesse in alcun modo spiegato tale scelta, la stessa — secondo i giudici d’appello — doveva considerarsi ragionevole, dal momento che «il danno estetico ha necessariamente un riflesso condizionante la psiche» e, pertanto, «non è singolare che la determinazione separata del danno estetico e del danno psicologico derivante dal medesimo danno abbia prodotto una sostanziale sovrapposizione da eliminare nella valutazione dell’unitario danno» (così testualmente nella motivazione).2.2. Con riferimento al secondo tema di lite la corte di merito ha inoltre rilevato che «in realtà l’intervento non può considerarsi inutile avendo prodotto uno degli effetti cui esso tendeva ovvero la riduzione della massa mammaria che creava, secondo le stesse indicazioni della paziente, disturbi alla postura e dolori alle spalle», di guisa che «la gravità dell’inadempimento non è tale da determinare la risoluzione del contratto tenuto conto del complessivo esito della vicenda e del fatto che, comunque, importanti effetti terapeutici sono stati effettivamente raggiunti». 3. Avverso tale sentenza la ricorrente propone ricorso per cassazione, con due mezzi, cui resiste l’intimato, depositando controricorso. 4. Essendo state ritenute sussistenti le condizioni per la trattazione del ricorso ai sensi dell’art. 380-bis cod. proc. civ., il relatore designato ha redatto proposta, che è stata notificata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza della Corte. Considerato in diritto 1. Con il primo motivo la ricorrente deduce «vizio di motivazione della sentenza tratto dal mezzo integrativo della scienza del magistrato, ex art. 360 n. 5 c.p.c. e 194 c.p.c. per la immotivata riduzione del danno biologico, in apodittica adesione a una parte dell’elaborato peritale». Lamenta che la Corte d’appello, pur avendo riconosciuto la mancanza di motivazione a base della scelta del c.t.u. di ridurre di un punto percentuale il danno biologico, vi ha poi aderito acriticamente. Denuncia l’ingiustizia di tale immotivata riduzione e «l’errore e/o l’omessa motivazione che ha inficiato prima il ragionamento del c.t.u. e poi l’apprezzamento di tale ragionamento da parte del giudicante». 2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 360, comma primo, nn. 3 e 5, cod. proc. civ., «violazione e falsa applicazione degli artt. 1453 – 1455 cod. civ. e omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti», in relazione al rigetto della domanda di risoluzione. Lamenta al riguardo che la Corte d’appello ha omesso di valutare le prove risultanti dagli atti nella loro complessiva entità ed ha per contro «posto a base della pronuncia un fatto inesistente la cui considerazione ha cambiato l’esito del giudizio». Secondo la ricorrente il fatto che l’intervento avrebbe prodotto uno degli effetti cui esso tendeva, ovvero la riduzione della massa mammaria con eliminazione dei disturbi della postura e dolori alle spalle, non è stato provato in giudizio; per contro non è stato considerato «quantomeno in una dialettica di bilanciamento», che il convenuto/appellante non aveva ottenuto idoneo consenso informato, non aveva redatto la cartella clinica, aveva peggiorato in maniera permanente la situazione delle mammelle della ricorrente, aveva percepito denaro senza rilasciare fattura. La ricorrente inoltre lamenta insufficienza della motivazione non essendo stata spiegata la ragione del diverso opinamento sul punto rispetto a quello del primo giudice. 3. Il primo motivo è inammissibile. La censura si appalesa generica e di difficile riconduzione ad uno dei vizi cassatori tassativamente previsti dall’art. 360 cod. proc. civ.. 3.1. A voler ritenere che il suo nucleo risieda nel rilievo di una radicale mancanza di motivazione sul punto in questione (effettiva percentuale invalidante) e, dunque, nella denuncia di un error in procedendo per violazione dell’art. 132 n. 4 cod. proc. civ., non può non rivelarsene la aspecificità. In tale prospettiva, invero, la doglianza non si confronta con la sentenza impugnata, che ha invece dato ragione dell’espresso convincimento secondo cui l’indicazione della percentuale invalidante dell’8% offerta dal c.t.u. nelle proprie conclusioni, benché non illustrata, risulta tuttavia giustificata dalla natura delle menomazioni riscontrate e da preferire rispetto alla mera sommatoria delle percentuali attribuibili alle diverse componenti del danno singolarmente stimate (danno estetico e danno psichico). Senza tener conto delle ampie considerazioni svolte sul punto (sopra sintetizzate) la ricorrente denuncia apoditticamente mancanza di motivazione sul punto: vizio comunque smentito dalla lettura della sentenza impugnata. 3.2. Varrò soggiungere, al riguardo, che il ragionamento seguito dalla Corte non può considerarsi manifestamente illogico e tale da rendere la spiegazione incomprensibile. Occorre, infatti, considerare che le percentuali di invalidità fissate nei baremes medico-legali con riferimento alle menomazioni specificamente e singolarmente considerate sono solo un metro per misurare il danno, ove questo sia rappresentato dalla singola menomazione considerata, ma non sono necessariamente idonee a porsi a base di un calcolo puramente aritmetico ove si tratti di valutare il danno complessivo rappresentato da più menomazioni concorrenti. In presenza, infatti, di menomazioni plurime (monocrone, come nel caso in esame, o policrone che siano) non sempre è consentito ricorrere alla loro sommatoria (che, difatti, utilizzando un errato criterio puramente aritmetico, potrebbe in casi estremi portare alla stima di una invalidità superiore al 100%) (v. in tal senso, Cass.11/11/2019, n. 28986). Tanto trova conferma nelle «Istruzioni» contenute nell’allegato I al d.m. 3 luglio 2003 col quale è stata approvata la tabella delle invalidità in base alla quale liquidare il danno permanente alla salute causato da sinistro stradale e consistito in postumi di lieve entità, ex art. 139 cod. ass.. Ivi, infatti, si stabilisce che «nel caso in cui la menomazione interessi organi od apparati già sede di patologie od esiti di patologie, le indicazioni date dalla tabella andranno modificate a seconda della effettiva incidenza delle preesistenze rispetto ai valori medi». 4. Il secondo motivo è invece fondato e merita accoglimento. La motivazione offerta dalla corte di merito, circa la ritenuta insussistenza dei presupposti della risoluzione del contratto di opera professionale per grave inadempimento, risulta anzitutto apodittica là dove afferma che l’intervento non può considerarsi inutile avendo prodotto uno degli effetti cui esso tendeva (riduzione della massa mammaria), non essendo indicato il dato istruttorio che possa giustificare tale valutazione. Ma la motivazione risulta per altro verso anche incomprensibile e intrinsecamente contraddittoria poiché sembra obliterare tutti gli altri rilievi, cui in precedenza la motivazione pure si sofferma ampiamente, relativi a plurimi aspetti che connotano assai negativamente la vicenda e il comportamento del sanitario (mancanza di adeguato consenso informato, mancata produzione della cartella clinica, gravi inestetismi residuati dall’intervento). Ciò espone la sentenza, per tale parte, a rilievo di nullità per mancanza di motivazione, ai sensi dell’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c. (Sez. U n. 8053 del 07/04/2014): rilievo che appare consentito dal tenore sostanziale delle censure, indipendentemente dalla ininfluente diversa indicazione, nell’intestazione, del tipo di vizio denunciato (v. Cass. Sez. U. 24/07/2013, n. 17931). 5. Varrà peraltro rilevare che, se è vero che, come questa Corte ha sempre affermato, in materia di responsabilità contrattuale, la valutazione della gravità dell’inadempimento ai fini della risoluzione di un contratto a prestazioni corrispettive, ai sensi dell’art. 1455 c.c., costituisce questione di fatto, la cui valutazione è rimessa al prudente apprezzamento del giudice del merito, ed è insindacabile in sede di legittimità ove sorretta da motivazione immune da vizi (v. ex multis Cass. n. 12182 del 22/06/2020, n. 6401 del 30/03/2015; n. 14974 del 28/06/2006), è pur vero che resta consentito il sindacato sulla congruità e correttezza in punto di diritto del criterio di valutazione (ovvero della regola di giudizio) che in concreto presiede a tale valutazione. Va invero rammentato che, ai sensi dell’art. 1455 cod. civ., l’importanza dell’inadempimento di una delle parti del contratto, ai fini della risoluzione, va valutata «avuto riguardo all’interesse dell’altra», che è parametro non necessariamente correlato al dato quantitativo delle prestazioni (o della parte di esse) rimaste inadempiute, ma a quello qualitativo della rispondenza delle prestazioni così come eseguite (e a fortiori di quelle ineseguite) all’effettivo e principale interesse, sottostante al contratto, della parte che ne aveva diritto. In tal senso questa Corte ha giù più volte evidenziato — e va qui ribadito — che «lo scioglimento del contratto per inadempimento – salvo che la risoluzione operi di diritto – consegue ad una pronuncia costitutiva, che presuppone da parte del giudice la valutazione della non scarsa importanza dell’inadempimento stesso, avuto riguardo all’interesse dell’altra parte. Tale valutazione viene operata alla stregua di un duplice criterio, applicandosi in primo luogo un parametro oggettivo, attraverso la verifica che l’inadempimento abbia inciso in misura apprezzabile nell’economia complessiva del rapporto (in astratto, per la sua entità e, in concreto, in relazione al pregiudizio effettivamente causato all’altro contraente), sì da dar luogo ad uno squilibrio sensibile del sinallagma contrattuale; l’indagine va poi completata mediante la considerazione di eventuali elementi di carattere soggettivo, consistenti nel comportamento di entrambe le parti (come un atteggiamento incolpevole o una tempestiva riparazione, ad opera dell’una, un reciproco inadempimento o una protratta tolleranza dell’altra), che possano, in relazione alla particolarità del caso, attenuare il giudizio di gravità, nonostante la rilevanza della prestazione mancata o ritardata (Cass. n. 1773 del 07/02/2001; n. 7083 del 28/03/2006; n. 22346 del 22/10/2014; n. 10995 del 27/05/2015) In tale prospettiva non può pertanto giustificarsi, nel caso quale quello di specie di intervento al seno di per sé evidentemente mirato ad un risultato di natura principalmente estetica, una aprioristica sottovalutazione dell’insuccesso dell’intervento in concreto accertata proprio rispetto a tale perseguito obiettivo. 5. In accoglimento del secondo motivo, la sentenza impugnata va pertanto cassata, con rinvio della causa al giudice a quo, al quale va anche demandato di provvedere al regolamento delle spese del presente giudizio di legittimità. P.Q.M. accoglie il secondo motivo di ricorso, nei termini di cui motivazione; dichiara inammissibile il primo; cassa la sentenza in relazione al motivo accolto; rinvia alla Corte di appello di Brescia in diversa composizione, cui demanda di provvedere

Autore: Chiara di Lorenzo - Ufficio Legislativo FNOMCeO

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