Corte di Cassazione Sez. III Civile Ord. N. 17696/2020 – Responsabilità struttura sanitaria

La Corte di Cassazione ha affermato che sulla struttura sanitaria grava “la relativa responsabilità contrattuale, che esige l’adempimento di una serie di obbligazioni. Tra queste, pacificamente esiste anche l’obbligazione di garantire l’assoluta sterilità non soltanto dell’attrezzatura chirurgica ma anche dell’intero ambiente operatorio nel quale l’intervento ha luogo”.

FATTO E DIRITTO. 1. B., A. e S. Z. convennero in giudizio l’Azienda Ospedaliera O. M. di T., davanti al Tribunale di T., chiedendo che fosse condannata al risarcimento dei danni conseguenti alla morte di A. S., rispettivamente moglie e madre degli attori, asseritamente dovuta a responsabilità sanitaria dell’ente ospedaliero. Esposero, a sostegno della domanda, che la congiunta, sottoposta ad intervento chirurgico di riduzione e sintesi di una frattura della rotula in data 19 maggio 2009 presso l’Azienda convenuta, era stata dimessa il successivo 25 maggio per esservi nuovamente ricoverata il successivo 8 giugno, quando era emerso che la paziente aveva contratto un’infezione batterica da stafilococco aureo. Il successivo 30 giugno la S. aveva manifestato i segni evidenti di un’allergia cutanea a causa della quale la terapia antibiotica intrapresa con il secondo ricovero era stata sospesa; e nel frattempo la paziente era stata sottoposta a prelievi emocolturali per seguire l’evoluzione dell’infezione, i cui esiti, però, non risultavano dalla cartella clinica. Il successivo 11 luglio la paziente era stata dimessa senza terapia antibiotica, per essere nuovamente ricoverata il 16 luglio a causa della persistenza dell’infezione da stafilococco aureo. Protrattasi la degenza, la S, aveva subito un secondo intervento il 27 luglio per revisione del focolaio di frattura; ciò nonostante, peggiorate rapidamente le sue condizioni, la donna era venuta a mancare il 28 luglio 2009. Tanto premesso, gli attori chiesero la condanna dell’Azienda convenuta, invocando la sua responsabilità per aver cagionato l’infezione batterica in occasione del primo intervento chirurgico e per non avere trattato in modo adeguato tale infezione nel periodo successivo, causando in tal modo la morte della paziente. Si costituì in giudizio l’Azienda Ospedaliera convenuta, chiedendo il rigetto della domanda. All’esito dell’istruttoria, nella quale fu svolta una c.t.u. medico legale, il Tribunale rigettò la domanda e compensò le spese di lite. 2. La pronuncia è stata impugnata dal solo A. Z. e la Corte d’appello di T., con sentenza del 25 gennaio 2018, ha rigettato il gravame ed ha condannato l’appellante al pagamento delle spese del giudizio di appello. Ha osservato la Corte territoriale che era infondata la prima censura con la quale si lamentava inadempimento conseguente ad un’errata tempistica di somministrazione della terapia antibiotica in relazione al primo intervento chirurgico. A questo riguardo la Corte, richiamate le conclusioni della c.t.u. e la motivazione già resa sul punto dal Tribunale, ha considerato irrilevante il contrasto circa il momento preciso di svolgimento dell’intervento chirurgico risultante dal verbale operatorio, dal diario infermieristico e dalla cartella anestesiologica. Richiamate le linee guida sull’argomento – in base alle quali la profilassi antibiotica deve avvenire «immediatamente prima delle manovre anestesiologiche e comunque tra i trenta e i sessanta minuti che precedono l’incisione della cute» – la Corte ha ritenuto corretta la profilassi antibiotica svolta, in quanto essa era stata somministrata «allorché era stata effettuata l’induzione all’anestesia e quindi senz’altro nell’arco temporale prescritto rispetto all’incisione della cute»; ed ha considerato irrilevante la circostanza che l’antibiotico fosse stato somministrato separatamente o contestualmente all’anestetico, non risultando alcuna specifica controindicazione all’infusione contestuale ai fini di una corretta profilassi infettiva. Passando all’esame dei successivi motivi di appello, aventi ad oggetto le contestazioni in ordine alla gestione dell’infezione batterica manifestatasi in seguito, la Corte t. ha innanzitutto affermato che la situazione clinica della paziente, resa più complessa dall’esistenza di cirrosi epatica e deficit di coagulazione, non era inizialmente tale da far sospettare che l’infezione batterica fosse molto approfondita (come purtroppo invece era). Da ciò consegue che la sospensione della terapia antibiotica, a causa dell’allergia manifestatasi, dal 1° luglio fino al 16 luglio, momento in cui l’infezione si era manifestata in «sepsi conclamata», non poteva essere considerata fonte di responsabilità medica. Richiamati ampi passaggi dell’espletata c.t.u., della quale la Corte d’appello ha dichiarato di condividere integralmente le conclusioni, la sentenza ha osservato che l’idoneità o meno di una terapia deve essere valutata alla luce del quadro complessivo del paziente. Nel caso specifico, la c.t.u. aveva «decisamente escluso che alla signora S. in quei giorni potesse essere somministrata una qualche terapia antibiotica (e senz’altro non aggressiva)», posto che la reazione allergica insorta «aveva caratteristiche tali da assumere un significato clinico più urgente e prevalente rispetto all’infezione». Per cui, considerato che la paziente era stata più volte visitata dallo specialista allergologo e valutate le sue non buone condizioni generali, la Corte di merito ha ritenuto giustificata la sospensione della terapia antibiotica, posto che «la condizione di salute generale della paziente e l’insorgenza della reazione allergica non consentiva di individuare una condotta alternativa idonea ad impedire l’insorgenza della sepsi». Ha infine concluso la sentenza che l’insieme degli elementi risultanti dalla c.t.u. e dagli atti portavano ad escludere l’esistenza di una qualsiasi condotta colposa dei sanitari dell’ospedale; e comunque, ove pure si fosse reintrodotta una terapia antibiotica (neppure chiaramente individuabile) «il 12 luglio o nei giorni successivi, allorché si fosse risolta l’allergia, ciò non avrebbe, con ogni probabilità, potuto impedire l’insorgere della sepsi appena quattro giorni dopo». 3. Contro la sentenza della Corte d’appello di T. propone ricorso A. Z. con atto affidato a due motivi. Resiste l’Azienda Ospedaliera O. M. di T. con controricorso. 1. Con il primo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 4), cod. proc. civ., nullità della sentenza per violazione dell’art. 111 Cost. e dell’art. 132, n. 4), cod. proc. civ., conseguente alla presenza di una motivazione contenente affermazioni tra loro logicamente inconciliabili o comunque obiettivamente incomprensibili. La censura ha ad oggetto la gestione del trattamento antibiotico in occasione del primo intervento chirurgico e, in particolare, il momento in cui l’infusione ebbe luogo. Secondo le linee guida richiamate dalla stessa Corte d’appello, infatti, la terapia antibiotica deve essere somministrata almeno trenta minuti prima dell’incisione chirurgica e non prima di sessanta minuti dalla medesima, proprio per consentire il massimo afflusso del farmaco nel sangue nel momento in cui c’è l’intervento. Nella specie, invece, la sentenza avrebbe dato atto che l’antibiotico era stato iniettato insieme al cocktail dei narcotici con un’unica infusione, dimostrando così di per sé la violazione delle suddette linee guida. L’errata somministrazione dell’antibiotico è da ritenere, secondo il ricorrente, causa dell’infezione che poi condusse la paziente alla morte; e la sentenza sarebbe nulla perché la Corte d’appello, con motivazione incongrua e del tutto contraddittoria, avrebbe richiamato il contenuto delle linee guida senza trarne le dovute conclusioni, perché non ha dedotto dall’indicata violazione l’unica conclusione logica, e cioè la responsabilità colposa della struttura ospedaliera. 2. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 1228 e 2697 cod. civ. e dell’art. 116 cod. proc. civ., sul rilievo che la sentenza impugnata si sarebbe basata unicamente sulle risultanze della c.t.u. che ha ritenuto corretto il comportamento dei medici, senza considerare le carenze ed illogicità della stessa; tanto più in quanto risultava la scorretta tenuta della cartella clinica sia in occasione del primo intervento che della sospensione e mancata ripresa della terapia antibiotica dal 1° al 16 luglio. Premette il ricorrente che, per costante insegnamento della giurisprudenza di legittimità, la responsabilità dell’ente ospedaliero è da ritenere di natura contrattuale, regolata quindi dall’art. 1218 cod. civ.; per cui il paziente ha il mero onere di allegare l’esistenza del contratto e del relativo inadempimento, mentre al debitore spetta dimostrare che l’inesattezza della prestazione dipende da causa a lui non imputabile, cioè dimostrare di aver fatto tutto il possibile per adempiere correttamente la propria obbligazione. Il ricorrente rileva di avere adempiuto al proprio onere di prova, mentre altrettanto non sarebbe stato fatto dalla struttura ospedaliera. Un primo elemento di responsabilità a carico dell’ospedale deriverebbe dalla non corretta tenuta della cartella clinica, come costantemente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità, elemento dal quale si sarebbe dovuta trarre una prova presuntiva a carico del sanitario. In particolare, il ricorrente evidenzia due profili colposi, l’uno relativo alla corretta infusione dell’antibiotico in relazione al primo intervento chirurgico e l’altro relativo alla scorretta tenuta della cartella clinica in ordine agli esami emocolturali effettuati in corso di ricovero. Partendo dalla non corretta tenuta della cartella clinica, la censura sostiene che la questione della somministrazione dell’antibiotico, già oggetto del primo motivo, sarebbe stata affrontata in modo errato dalla c.t.u., perché l’effettivo rispetto delle linee guida si sarebbe potuto desumere solo dalla corretta tenuta della cartella clinica; per cui la confusione circa l’orario dell’intervento determinerebbe addirittura il dubbio sul se la terapia antibiotica sia stata davvero somministrata. Quanto alle emocolture, la doglianza rileva che già in data 26 giugno la paziente era affetta da febbre; in quel momento, se gli esiti dei controlli ematici fossero stati disponibili, la gravità dell’infezione batterica sarebbe stata evidente, con conseguente possibilità per i medici di riprendere subito la terapia antibiotica. Non sarebbe poi esatto che non si potesse sapere, in quel momento, quale fosse l’antibiotico utilizzabile, perché già in data 2 luglio risultava che la vancomicina avrebbe potuto essere iniettata, in conformità al parere dell’allergologo; e comunque la S. era stata pacificamente dimessa in data 11 luglio pur in presenza di un’infezione conclamata, senza alcuna indicazione di terapia antibiotica con la vancomicina. L’incertezza probatoria complessiva si sarebbe dovuta riverberare in danno della struttura ospedaliera e non in suo favore. 3. I due motivi, benché tra loro diversi, possono essere trattati congiuntamente, in considerazione dell’evidente connessione che li unisce. Essi sono fondati nei termini che si vanno a precisare. 3.1. Com’è noto, la giurisprudenza di questa Corte ha in tempi recenti rivisitato alcuni principi in tema di responsabilità professionale medica, di nesso di causalità e di relativo onere della prova. È stato al riguardo affermato, con un orientamento che può dirsi ormai consolidato, che, ove sia dedotta la responsabilità contrattuale del sanitario per l’inadempimento della prestazione di diligenza professionale e la lesione del diritto alla salute, è onere del danneggiato provare, anche a mezzo di presunzioni, il nesso di causalità fra l’aggravamento della situazione patologica (o l’insorgenza di nuove patologie) e la condotta del sanitario, mentre è onere della parte debitrice provare, ove il creditore abbia assolto il proprio onere probatorio, la causa imprevedibile ed inevitabile dell’impossibilità dell’esatta esecuzione della prestazione. Ciò sul presupposto che nelle obbligazioni di diligenza professionale sanitaria il danno evento consta della lesione non dell’interesse strumentale alla cui soddisfazione è preposta l’obbligazione, cioè il perseguimento delle leges artis nella cura dell’interesse del creditore, ma del diritto alla salute, che è l’interesse primario presupposto a quello contrattualmente regolato (così, da ultimo, le sentenze 11 novembre 2019, n. 28991 e n. 28992, in linea con la sentenza 26 luglio 2017, n. 18392). Quest’orientamento, al quale l’odierno Collegio intende dare ulteriore continuità, ha posto, in definitiva, regole in tema di onere della prova, le quali assumono rilievo solo nel caso di causa rimasta ignota. Nel caso di cui alla citata sentenza n. 28991, infatti, si era in presenza di una causa di responsabilità professionale nella quale, anche dopo l’espletamento di una c.t.u., pur in presenza di alcuni possibili errori riconducibili ai sanitari, era rimasta incerta la correlazione tra la condotta dei medici e la morte della paziente. 3.2. Questi principi vanno applicati al caso in esame, tenendo tuttavia presente la diversità della situazione. Nel caso odierno, infatti, non può dirsi esistente un dubbio sulle cause della morte della signora S.. Risulta dagli atti in modo pacifico e non contestato che ella fu ricoverata in data 19 maggio 2009 per un intervento chirurgico di riduzione e sintesi di una frattura alla rotula e che pochi giorni dopo l’intervento si manifestarono i segni evidenti di un’infezione che risultò essere da stafilococco aureo. Le terapie furono ostacolate da una situazione di salute generale della paziente non buona (la sentenza impugnata riferisce di diabete, cirrosi e piastrinopenia); ma è certo che quell’infezione, resa particolarmente insidiosa dall’insorgenza di una significativa reazione allergica alle terapie antibiotiche, fu tra le cause che condussero, dopo ulteriori ricoveri successivi, alla morte della paziente il 28 luglio 2009 (l’intera dolorosa vicenda, cioè, si svolse nell’arco di circa due mesi). Il collegamento tra l’infezione e la morte è da intendere nel senso che, in ossequio ad un’antica massima, causa causae est causa causati; materialmente, infatti, come la sentenza riferisce, la morte fu dovuta (come causa finale) ad uno shock settico, che però rappresentò il punto di arrivo di una vicenda che non avrebbe avuto inizio se non ci fosse stata l’infezione da stafilococco aureo. Il ricorrente, a questo proposito, trascrive parte della sentenza del Tribunale che, nel riferire le osservazioni della c.t.u. svolta, individua l’infezione da stafilococco aureo «tra le concause della morte». E il ricorso aggiunge, riportando osservazioni della c.t.u., che «se durante il primo intervento non fosse avvenuta la liberazione di costituenti batterici (progredita da semplice infezione in sepsi e probabilmente esita in shock settico brutale), la sopravvivenza della paziente agli esiti della caduta accidentale sarebbe stata “più probabile che non”». Né la sentenza della Corte d’appello qui impugnata smentisce in alcun modo tale ricostruzione, ma anzi implicitamente la conferma; quantomeno nel senso che dà per pacifico che tutto cominciò con l’infezione da stafilococco aureo. 3.3. Se i fatti si sono svolti in questi termini – e la Corte di legittimità non ha nessun potere di ritenere diversamente, anche perché non c’è un disaccordo tra le parti sulla cronologia degli eventi – si tratta di stabilire se sia o meno corretta la decisione qui impugnata nella parte in cui ha respinto la domanda risarcitoria dell’odierno ricorrente, escludendo l’esistenza di una responsabilità sanitaria della struttura ospedaliera. Il ricorso in esame concentra le proprie censure su due aspetti: il momento (asseritamente errato) in cui fu eseguita la profilassi antibiotica in occasione dell’intervento del 19 maggio 2009 (primo motivo) e il trattamento successivo dell’infezione insorta, fino alla data della morte (secondo motivo). Giova ricordare, a questo proposito, che la Corte di cassazione può accogliere il ricorso per una ragione di diritto anche diversa da quella prospettata dal ricorrente, a condizione che essa sia fondata sui fatti come prospettati dalle parti, fermo restando che l’esercizio del potere di qualificazione non può comportare la modifica officiosa della domanda per come definita nelle fasi di merito o l’introduzione nel giudizio di una eccezione in senso stretto (in tal senso v., tra le altre, le sentenze 22 marzo 2007, n. 6935, 14 febbraio 2014, n. 3437, nonché l’ordinanza 28 luglio 2017, n. 18775). Non vi sono dubbi, nel caso in esame, sul fatto che i motivi di ricorso pongano all’esame di questa Corte il problema dell’insorgenza dell’infezione. Rileva perciò il Collegio che, a seguito del ricovero della signora S. per l’esecuzione dell’intervento chirurgico alla rotula, gravava sulla struttura sanitaria la relativa responsabilità contrattuale, che esige l’adempimento di una serie di obbligazioni. Tra queste, pacificamente esiste anche l’obbligazione di garantire l’assoluta sterilità non soltanto dell’attrezzatura chirurgica ma anche dell’intero ambiente operatorio nel quale l’intervento ha luogo; tanto che questa Corte ha affermato, proprio in un caso di infezione batterica contratta in ambiente operatorio, che il debitore (cioè la struttura sanitaria) risponde anche dell’opera dei terzi della cui collaborazione si avvale, ai sensi dell’art. 1228 cod. civ., dato che la sterilizzazione della sala operatoria e dei ferri chirurgici è compito che non spetta direttamente al chirurgo operatore (sentenza 14 giugno 2007, n. 13953). Ora, che lo stafilococco aureo sia un batterio di frequente (anche se non esclusiva) origine nosocomiale è nozione che questa Corte può dare come pacifica; ed è altrettanto noto che proprio per questa sua frequente origine, lo stafilococco aureo è un batterio particolarmente resistente agli antibiotici, ivi compresi quelli affini alla penicillina. Ciò comporta la necessità, da parte della struttura sanitaria, di una particolare attenzione alla sterilità di tutto l’ambiente operatorio, proprio perché l’insorgenza di un’infezione del genere non può considerarsi un fatto né eccezionale né difficilmente prevedibile. E l’onere della prova di avere approntato in concreto tutto quanto necessario per la perfetta igiene della sala operatoria è, ovviamente, a carico della struttura. Consegue dal complesso di tali argomenti che, non essendo stata, a quanto risulta, neppure prospettata la possibilità che l’infezione da stafilococco aureo abbia avuto una genesi diversa da quella nosocomiale, deve darsi per accertato, anche se in via presuntiva, che i danneggiati abbiano dimostrato che il contagio sia avvenuto in ospedale, con ogni probabilità in occasione dell’intervento chirurgico del 19 maggio 2009; né la sentenza impugnata sostiene alcunché di diverso su questo punto. Se così è, non assume rilevanza decisiva il problema della correttezza o meno della profilassi antibiotica in relazione al momento dell’intervento (primo motivo); anche dando per assodato ciò che la Corte d’appello afferma – e cioè che le linee guida non impedivano affatto la somministrazione contestuale dei narcotici e dell’antibiotico – resta comunque il dato pacifico che pochi giorni dopo l’intervento l’infezione si manifestò, con tutto quello che ne conseguì. Il che porta a ritenere, almeno a livello indiziario, che qualcosa non era andato a dovere in sala operatoria; e la stessa sentenza in esame riferisce, pur non collegando a tale constatazione alcuna conseguenza, che vi erano state negligenze nella tenuta della cartella clinica, per cui non sembra che l’Azienda ospedaliera abbia dimostrato (come sarebbe stato suo dovere) la regolarità dell’operato dei suoi dipendenti anche in relazione alla sterilizzazione dell’ambiente operatorio. Alla luce della giurisprudenza suindicata, infatti, una volta dimostrata, da parte del danneggiato, la sussistenza del nesso di causalità tra l’insorgere (in questo caso) della malattia ed il ricovero, era onere della struttura sanitaria provare l’inesistenza di quel nesso (ad esempio, dimostrando l’assoluta correttezza dell’attività di sterilizzazione) ovvero l’esistenza di un fattore esterno che rendeva impossibile quell’adempimento ai sensi dell’art. 1218 del codice civile. Per cui, in definitiva, la sentenza impugnata appare in contrasto con i principi enunciati da questa Corte in materia. 3.4. La sentenza in esame contiene, poi, una serie di passaggi che offrono il fianco alle critiche poste soprattutto nel secondo motivo di ricorso. Senza entrare nel merito delle valutazioni compiute in ordine alla correttezza o meno della linea terapeutica seguita dai sanitari dopo il manifestarsi dell’infezione, il Collegio rileva che la sentenza della Corte t. afferma che l’appellante non aveva indicato alcuna terapia antibiotica alternativa a quelle che non potevano essere seguite a causa della grave allergia manifestata dalla paziente. Risulta dal secondo motivo di appello, invece, che era stata proposta una possibile terapia con la vancomicina; punto, questo, che avrebbe meritato di essere almeno in qualche misura esaminato, essendo l’antibiotico suindicato tra quelli normalmente utilizzati per combattere l’infezione da stafilococco aureo. Non è affatto chiaro, poi, né per quale motivo la signora S. fu dimessa nuovamente, in data 11 luglio 2009, e senza alcuna terapia antibiotica, tanto che fu poi necessario un ulteriore ricovero pochi giorni dopo. Così come la sentenza impugnata non fornisce alcuna motivazione delle ragioni per le quali afferma (p. 8) che «quand’anche fosse stata reintrodotta una qualche terapia antibiotica il 12 luglio o nei giorni successivi, allorché si fosse risolta l’allergia, ciò non avrebbe, con ogni probabilità, potuto impedire l’insorgere della sepsi appena quattro (o meno) giorni dopo». Considerazione che, posta in questi termini, è un’affermazione pura e semplice, del tutto sfornita di ogni motivazione. 4. Alla luce di tutte le considerazioni che precedono, il ricorso è accolto e la sentenza impugnata è cassata. Il giudizio è rinviato alla Corte d’appello di T., in diversa composizione personale, la quale tornerà ad esaminare il merito dell’appello tenendo presenti le indicazioni contenute nella presente pronuncia. Al giudice di rinvio è demandato anche il compito di liquidare le spese del giudizio di cassazione.

Autore: Anna Macchione - Ufficio Legislativo FNOMCeO

© 2023 - FNOMCeO All Rights Reserved. Via Ferdinando di Savoia, 1 00196 ROMA CF: 02340010582

Impostazioni dei Cookie.