Nesso di causalità tra condotta ed esito infausto – Quando l’obbligo di impedire l’evento connesso a una situazione di pericolo grava su più persone obbligate a intervenire in tempi diversi, l’accertamento del nesso causale rispetto all’evento verificatosi deve essere compiuto con riguardo alla condotta e al ruolo di ciascun titolare della posizione di garanzia, stabilendo cosa sarebbe accaduto nel caso in cui la condotta dovuta da ciascuno dei garanti fosse stata tenuta, anche verificando se la situazione di pericolo non si fosse modificata per effetto del tempo trascorso o di un comportamento dei successivi garanti”.
FATTO E DIRITTO. La Corte d’appello di Roma ha confermato la sentenza, con la quale il Tribunale di L. ha condannato Z. G. per il reato di omicidio colposo ai danni di C. A., contestatogli nella qualità di medico in servizio presso il nosocomio ove il paziente era stato ricoverato per un intervento di artoprotesi dell’anca sinistra, esitato nel decesso di quest’ultimo per shock emorragico da lesione iatrogena venosa in sede di impianto della protesi. 2. In particolare, secondo l’editto accusatorio, l’imputato avrebbe errato nel posizionamento delle leve nella parte anteriore dell’acetabolo e sulla superficie mediale del collo del femore e nell’uso degli strumenti taglienti, così provocando la lesione vascolare dei vasi maggiori e minori; e avrebbe, inoltre, omesso di sottoporre il paziente, in presenza di grave anemia indicativa di una importante perdita ematica, poi esitata in shock ipovolennico, a revisione della ferita chirurgica, procedura che avrebbe palesato l’esistenza della lesione e imposto l’esecuzione di un intervento di sutura, in luogo della somministrazione di ben 17 sacche ematiche (in T. il 30/7/2013). 3. L’imputato ha proposto ricorso, a mezzo di difensore, formulando due motivi. Con il primo, ha dedotto erronea applicazione della legge processuale e vizio della motivazione con riferimento alla intervenuta modifica del fatto contestato, tale da determinare una violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, avendo il primo giudice condannato l’imputato anche per fatti verificatisi dopo la fine del suo turno di servizio e l’allontanamento dall’ospedale, posti in essere con modalità eccentriche rispetto alla condotta ascritta. Sotto altro profilo, si contesta l’argomento utilizzato dal giudice d’appello, secondo cui l’attività difensiva aveva avuto modo di esplicarsi effettivamente con riferimento a tutto l’evolversi della vicenda, sino al decesso del paziente. Con il secondo motivo, la difesa ha dedotto violazione di legge e vizio della motivazione in punto affermazione della penale responsabilità del sanitario, non avendo la Corte del merito minimamente vagliato le doglianze difensive prospettate nell’atto di appello. In particolare, la difesa aveva evidenziato che il dr. Z. era entrato in servizio alle ore 8:10 del 31/7/2013 e che, dall’ematocrito disposto, era risultato un lieve miglioramento del quadro ematico; l’imputato aveva lasciato l’ospedale alle ore 14:41, senza che si fossero manifestate condizioni tali da far presagire l’evoluzione poi manifestatasi e la necessità di eseguire una revisione della ferita; il peggioramento dei valori era stato riscontrato successivamente alle ore 17:50 del 31/7/2013, a due ore di distanza dall’allontanamento dell’imputato che aveva affidato il paziente alle cure di altri sanitari, i quali non avevano mai notiziato lo stesso dei risultati peggiorativi del prelievo pervenuti alle 17:50. Per poter essere esigibile, la condotta omessa postulava la conoscenza del dato clinico, mancante nella specie. Pertanto, secondo la difesa, il rapporto terapeutico tra paziente e medico si era già interrotto al momento in cui il quadro clinico aveva manifestato quei segnali di allarme che avrebbero imposto la procedura di revisione chirurgica. Sotto altro profilo, la difesa ha evidenziato la incongruità delle conclusioni cui è pervenuto il giudice d’appello nel ritenere che una revisione effettuata da altro sanitario, anch’egli presente la mattina del 1/8/2013, non avrebbe scongiurato l’evento, laddove la stessa considerazione non è stata svolta con riferimento all’imputato, anch’egli presente insieme al collega in quel frangente. Infine, i giudici del gravame avrebbero tralasciato di indicare se il caso concreto fosse o meno regolato da linee guida e neppure se e in quale misura la condotta contestata all’imputato se ne fosse discostata. 1. Il ricorso va rigettato. 2. La Corte territoriale ha premesso che il primo giudice non aveva ravvisato il profilo di colpa attribuito allo Z. nella condotta attiva dell’aver cagionato la lesione, giudicata complicanza in sé prevedibile dell’intervento di artroprotesi, ma nell’avere egli omesso di procedere alla revisione chirurgica, una volta verificato che i valori dell’emoglobina continuavano a scendere sensibilmente. Il nesso di causalità tra tale condotta e l’esito infausto era stato affermato sulla scorta di quanto accertato dal consulente del pubblico ministero, secondo cui il paziente, ove sottoposto a un attento controllo post operatorio e a un tempestivo intervento di revisione della ferita, sarebbe sopravvissuto con un quoziente di probabilità prossimo alla certezza, conclusione condivisa anche dal consulente del coimputato assolto, trattandosi peraltro di paziente senza problemi di tipo emodinamico. Proprio su tale punto, la Corte di merito ha rigettato la richiesta di procedere a perizia, ritenutane la non decisività alla luce delle conclusioni sostanzialmente conformi rassegnate dai citati consulenti e, nell’esaminare le doglianze veicolate con il gravame di merito, ha rigettato altresì l’eccezione relativa alla violazione del principio di correlazione tra accusa sentenza. L’addebito contestato all’imputato era espresso nel capo d’imputazione e, in base ad esso, oltre alla lesione causata nel corso dell’intervento, doveva considerarsi anche l’omessa revisione della ferita, da estendersi sino alla consumazione del reato, osservando quel giudice che il contraddittorio si era incentrato proprio sulla condotta tenuta fino al decesso del paziente. Quanto al profilo di colpa ascrivibile allo Z., la Corte territoriale ha richiamato i dati clinici e rilevato che: il C. era stato ricoverato con un valore dell’emoglobina nella norma (14.1); il valore era sceso a 8.4 alla fine dell’intervento (ore 15:40 del 30/7/2013); era ulteriormente diminuito a 7.2 alle ore 17:48 dello stesso giorno, nonostante l’avvenuta trasfusione di ben undici sacche di sangue e, alle 19:22 di altre sei sacche di plasma; alle ore 11:50 del 31/7/2013 erano state somministrate altre due sacche, alle ore 06:00 del 1/8/2013 altre quattro, infine, alle ore 13:37 altre quattro; quel valore era poi sceso a 4.9 poco prima del decesso. A fronte di tali dati, il giudice d’appello ha ritenuto che la sensibile diminuzione del valore dell’emoglobina subito dopo l’intervento e nelle ore e nei giorni successivi, ad onta delle numerose sacche ematiche trasfuse, imponesse al sanitario una diversa gestione del post operatorio, con specifico riferimento alla subentrata anemia del paziente, logicamente seguita alla lesione di vasi nel corso dell’intervento eseguito. L’omessa condotta è stata ascritta all’imputato sulla scorta delle seguenti considerazioni: da un lato egli, autore dell’intervento, doveva ricollegare l’anemia crescente alle complicanze post operatorie del tutto prevedibili, atteso che, a differenza del medico assolto, egli si era recato in ospedale anche il successivo 31/7/2013 e vi era rimasto fino alle ore 14:41, allorquando lo stato di anemia era ancora persistente e sarebbe diventato, infatti, irreversibile nelle ore successive. Egli, inoltre, non aveva dato alcuna disposizione ai medici subentranti, che neppure erano a conoscenza dell’esito dell’intervento, a conferma del fatto che la condotta era la conseguenza di un’errata valutazione delle condizioni del paziente e di una sostanziale superficialità e approssimazione. Né a giustificazione poteva esser addotto il fatto che si era registrato un lievissimo e poco rassicurante aumento di quei valori nella mattina del 31/7/2013, considerato il numero di sacche già trasfuse e tenuto conto che, allorquando Z. era ancora presente in ospedale, la terapia trasfusionale era continuata con l’aggiunta di altre due sacche. 3. Il primo motivo è manifestamente infondato. Ai fini della sussistenza di una violazione del principio di correlazione di cui all’art. 521 cod. proc. pen., non è sufficiente qualsiasi modificazione dell’accusa originaria, ma è necessaria una modifica che pregiudichi la possibilità di difesa dell’imputato. Pertanto, la violazione non sussiste quando nel capo di imputazione siano contestati gli elementi fondamentali idonei a porre l’imputato in condizioni di difendersi dal fatto successivamente ritenuto in sentenza, da intendersi come accadimento storico oggetto di qualificazione giuridica da parte della legge penale, che spetta al giudice individuare nei suoi esatti contorni (cfr. sez. 5 n. 7984 del 24/9/2012, dep. 2013, RV. 254648). Tali principi sono coerenti con quelli costituzionali racchiusi nella norma di cui al novellato art. 111 Costituzione, ma anche con l’art. 6 della Convenzione E.D.U., siccome interpretato, in base alla sua competenza esclusiva, dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, a partire dalla nota pronuncia Drassich c. Italia (cfr. CEDU 2 sez. 11 dicembre 2007); ma anche, più di recente, con la pronuncia del 22 febbraio 2018, Drassich c. Italia (n.2), con la quale la Corte di Strasburgo ha escluso la violazione dell’art. 6 cit. nel caso in cui l’interessato abbia avuto una possibilità di preparare adeguatamente la propria difesa e di discutere in contraddittorio sull’accusa alla fine formulata nei suoi confronti. Nel caso in esame, è evidente come difetti una lesione del diritto di difesa, alla cui salvaguardia il principio di correlazione è direttamente funzionale, non riuscendosi neppure ad apprezzare un rapporto di eterogeneità del fatto ritenuto rispetto a quello contestato (sez. 6, n. 10140 del 18/2/2015, Bossi e altro, Rv. 262802), non soltanto perché la difesa ha approntato la sua difesa proprio con riferimento alla condotta omissiva tradottasi nella mancata attivazione di una tempestiva procedura di revisione della ferita, ma anche perché tale condotta è descritta chiaramente nello stesso capo d’imputazione. 4. Il secondo motivo è infondato. Le censure sono, innanzitutto, propositive delle medesime argomentazioni rassegnate al vaglio della Corte di merito e da questa affrontate con motivazione del tutto congrua, logica e non contraddittoria, sostenuta da un sapere scientifico regolarmente veicolato nel processo e rappresentato da due diverse opinioni, quanto al nesso causale e al giudizio controfattuale, tra loro convergenti. Esse ruotano essenzialmente sulla divergente opinione che attiene alla esigibilità del comportamento alternativo lecito, cui è ricollegata la condotta omissiva contestata, muovendo dall’assunto che la mancata conoscenza del peggioramento del dato ematico avrebbe impedito all’imputato di comprendere la gravità della situazione del paziente che lo stesso aveva operato il giorno prima. Tali doglianze, però, non sono precedute da un effettivo confronto con le argomentazioni offerte dai giudici del merito con decisione conforme e finiscono con il tradursi nella proposizione di una difforme lettura delle risultanze probatorie, sull’assunto, meramente enunciato, che la valutazione giudiziale non avrebbe tenuto conto dei singoli argomenti difensivi (cfr. sul contenuto dell’impugnazione, in motivazione, sez. 6 n. 8700 del 21/1/2013, Rv. 254584; Sez. U. n. 8825 del 27/10/2016, dep. 2017, Galtelli, Rv. 268822, sui motivi d’appello, ma i cui principi possono applicarsi anche al ricorso per cassazione; e, sulla natura del sindacato di legittimità, sez. 6 n. 47204 del 7/10/2015, Rv. 265482; n. 25255 del 14/2/2012, Rv. 253099). La Corte ha, infatti, richiamato il dato, non contestato, che il quadro ematico, nel momento in cui l’imputato si era allontanato dall’ospedale, non poteva considerarsi in remissione, sia per la modesta entità del miglioramento registrato la mattina del 31/7/2013, allorché erano già state somministrate numerose sacche ematiche; ma anche avuto riguardo al fatto che alle ore 11:50 di quello stesso giorno, allorché lo Z. era ancora in servizio, ne erano state trasfuse altre due, dato che ha ritenuto incompatibile con l’asserito miglioramento delle condizioni del paziente. 5. Oltre a ciò, quel giudice ha posto in chiaro risalto il comportamento superficiale e approssimativo del medico che neppure aveva dato disposizioni ai colleghi subentranti in ordine alle condizioni del paziente. Quanto a tale argomento, peraltro, non coglie nel segno l’osservazione difensiva che sembra introdurre il diverso tema della successione delle posizioni di garanzia rispetto al paziente C., a partire dal momento in cui lo Z. si era allontanato dall’ospedale il giorno successivo all’operazione: quando l’obbligo di impedire l’evento connesso a una situazione di pericolo grava su più persone obbligate a intervenire in tempi diversi, infatti, l’accertamento del nesso causale rispetto all’evento verificatosi deve essere compiuto con riguardo alla condotta e al ruolo di ciascun titolare della posizione di garanzia, stabilendo cosa sarebbe accaduto nel caso in cui la condotta dovuta da ciascuno dei garanti fosse stata tenuta, anche verificando se la situazione di pericolo non si fosse modificata per effetto del tempo trascorso o di un comportamento dei successivi garanti (cfr. sez. 4 n. 6405 del 22/1/2019, Bonarrigo Antonina, Rv. 275573; n. 1350 del 20/11/2019, dep. 2020, L., Rv. 277953, entrambe in ipotesi di colpa medica; n. 1175 del 2/10/2018, dep. 2019, M., Rv. 274832, in cui si è affermato che – sia pur nel diverso contesto della sicurezza sul lavoro – ove la condotta colposa ascritta al primo garante consista nell’omessa segnalazione, al soggetto subentrante, della situazione di rischio a lui nota ed indipendente dal suo operato, ai fini della sussistenza del nesso causale tra tale omissione e l’evento deve accertarsi che la successiva condotta negligente del garante subentrato trovi causa proprio in tale mancata segnalazione). 6. Infine, quanto alla doglianza che attiene al parametro di valutazione rappresentato dalle linee guida di settore, il motivo di ricorso è in parte qua del tutto aspecifico. Il deducente si è limitato ad asserire che la motivazione della sentenza d’appello non sarebbe satisfattiva, né conforme alla legge, evocando l’art. 3 del decreto Balduzzi del 2012, siccome norma più favorevole nella interpretazione datane dalla giurisprudenza via via consolidatasi (cfr., tra le altre, sez. 4, n. 23283 del 2016, Denegri, Rv. 266903; n. 53453 del 2018, Di Marco Giampietro, Rv. 274499) – rispetto alla novella di cui alla legge Gelli-Bianco del 2017, con specifico riferimento alla estensibilità della causa di non punibilità della colpa lieve anche alle ipotesi di negligenza e imprudenza. L’enunciazione, però, non è stata corredata da alcuna specificazione in ordine alle linee guida che sarebbero state pretermesse dai consulenti o alle quali si sarebbe allineato l’imputato con il suo comportamento, a tal fine non potendo ritenersi esaustivo il rinvio – altrettanto generico – all’atto di appello, nel quale, a sua volta, si operano plurimi cenni in nota a pubblicazioni varie e si richiamano linee guida diverse, tra cui alcune che riguardano l’area di recupero e l’assistenza post-anestesiologica. 7. Al rigetto segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché la rifusione delle spese sostenute dalle costituite parti civili, liquidate come in dispositivo, oltre accessori di legge. P.Q.M. rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili.